Il
metallo del tavolo vibrava a ogni colpo. Questi venivano scagliati con violenza,
seguiti da grida soffocate, trattenute a stento fra le labbra serrate. Bucky
Barnes continuava a dare pugni sul piano del tavolo, la mano destra dolorante,
ma non sapeva come altro fare per tentare di tenere a freno un istinto di
ghiaccio che non voleva rimontasse.
Diciassette – семнадцать – la parola che quel pomeriggio lo aveva
avvolto nel freddo, facendogli improvvisamente perdere il completo controllo di
sé. Si era sentito montare da un’improvvisa irritazione, una rabbia controllata
che aveva reso i suoi muscoli tesi, che lo faceva fremere. Prima che potesse
mancargli totalmente la lucidità aveva costretto se stesso a resistere, a
combattere una lotta interna che sapeva già avrebbe perso e la cui strenua
resistenza passava dal disperato tentativo di mantenere il controllo del
proprio corpo.
«Basta così!»
La voce di Anisa si levò forte nel
piccolo laboratorio. L’uomo che fino a quel momento parlava chiaro in lingua
russa cessò d’improvviso e i colpi scanditi contro il piano metallico
terminarono pochi attimi dopo. Solo il respiro affannato del Sodato riempiva
l’aria mentre quest’ultimo teneva gli occhi fissi sull’argento sotto i suoi
occhi.
Erano trascorsi otto giorni
dall’inizio, da quando Bucky aveva assunto la prima capsula bianca,
costringendo la sua mente a ricordare i giorni di prigionia nell’HYDRA e
nient’altro e Muenda – l’uomo incaricato da T'Challa per la sua conoscenza
della lingua russa – aveva iniziato a leggere in ordine sparso le fatidiche
parole, affinché, grazie al farmaco, diventassero vuote. Con i giorni quelle dieci parole avevano
perso ogni significato per Bucky. Erano diventate suoni estranei e niente di
più. Tuttavia quando la sequenza di
parole veniva correttamente pronunciata,
qualcosa nella mente del Soldato scattava e neanche il farmaco era riuscito a
sopprimere quell’istinto che si risvegliava – anche se non aveva ancora fatto
in tempo a ridestarsi completamente. Ogni volta che stava per accadere Anisa
bloccava tutto lasciando dentro Bucky una voragine caotica e un intenso dolore.
Per
motivi che lui non riusciva a spiegarsi ogni volta che accadeva era una
sofferenza, una tortura. Quelle parole lo rispedivano indietro, nel gelo di
quegli squallidi laboratori sotterranei in cui lo avevano soffocato più volte,
impedendogli di ricordarsi di se stesso, annebbiandogli la mente fino a farlo
diventare incapace di provare qualsivoglia cosa. Per quanto si sforzasse non
riusciva a controllarsi. La rabbia gli montava dentro, si insinuava in ogni più
minima parte di sé, raggiungendo anche i punti più nascosti, accecandolo.
Insieme a essa si facevano strada i ricordi, un ammasso caotico di grida,
suppliche e sofferenza. Le sensazioni si ammassavano in lui, resistere loro gli
era quasi impossibile e lo sapeva. Sapeva che se Anisa, ogni volta, non avesse
interrotto il processo in tempo, impedendo a Muenda di proseguire, al
progredire di quelle parole Bucky Barnes sarebbe stato annullato e sopraffatto
dal Soldato d’Inverno che custodiva dentro.
Sudore
freddo imperlava la fronte dell’uomo, che teneva ancora gli occhi fissi sul
tavolo davanti a sé. Continuava a respirare pesantemente come se si fosse
risvegliato da un brutto sogno. Poco dopo un bicchiere d’acqua venne posato
proprio nel punto in cui stava fissando.
«Tre parole, Bucky. Ieri eravamo
arrivati a cinque.»
L’ormai famigliare voce di Anisa gli
fece sollevare lo sguardo e subito incontrò quello nocciola di lei. Fu un solo
istante, scomparve veloce com’era arrivato, ma Anisa avrebbe potuto giurare di
vedere un bagliore di paura negli occhi tanto chiari quanto belli dell’uomo. La
donna rimase un momento spaesata, infine sollevò la testa e si rivolse a tutto
il personale che, ogni volta, assisteva alla terapia del Soldato.
«Lasciateci soli, per favore. Anche tu
Muenda» concluse, rivolgendosi al solo uomo insieme a lei e Bucky nella piccola
stanza circolare. Il suo tono non ammetteva repliche, ma qualcuno, oltre i
vetri, parlò attraverso l’interfono: «Ma, signorina ci è stato detto…»
Non concluse mai la frase. Anisa lo
trafisse con lo sguardo ripetendo la richiesta di pochi attimi prima e
lentamente il piccolo laboratorio si svuotò. Quando rimase sola con Bucky – il
quale aveva preso a fissare ostinatamente il bicchiere – si sistemò sulla sedia
libera proprio di fronte a lui. L’uomo non sollevò lo sguardo, lei rimase a
guardarlo in silenzio. Da un paio di giorni avevano notato che la terapia non
stava avendo lo stesso effetto che aveva all’inizio. Le singole parole russe
era riuscito a dimenticarle in fretta grazie al farmaco, ma lo stesso non
valeva per la loro lettura nella sequenza corretta. Lo vedeva, quando quelle
parole erano pronunciate nell’ordine giusto qualcosa nell’uomo si trasformava.
Si irrigidiva, tendeva i muscoli e i suoi occhi diventavano assenti. Cercava di
resistere a quella involontaria trasformazione soffocando a stento grida e
sfogando sul tavolo che aveva davanti la rabbia che certamente gli montava, ma
Anisa sapeva che solo l’interruzione poteva funzionare e lei, ormai da giorni,
bloccava tutto prima che Bucky potesse diventare pericoloso contro la sua stessa
volontà. Tuttavia il fatto che la terapia di T'Challa avesse funzionato solo a
metà e che fallisse proprio nella parte più importante di tutto il percorso,
non la faceva stare tranquilla.
«Ti senti bene?» chiese infine la
donna, dopo un lungo silenzio.
Bucky tornò a guardarla, senza
rispondere. Il suo respiro si era regolarizzato e i muscoli rilassati, ma non
poteva certo dire di stare bene. Dentro li vedeva ancora, li sentiva ancora,
come fantasmi tornavano sempre insieme al gelo: i troppi ricordi di una vita
passata a essere l’arma spietata e infallibile di persone senza anima.
Continuamente si accavallavano dentro di lui portando con sé una consapevolezza
fatta di angoscia e dolore.
«Bucky…»
Anisa provò a chiamarlo e per un
momento all’uomo tornarono alla mente le persone che lo avevano chiamato così
prima di lei.
«Non ci riesco» mormorò il Soldato,
abbassando nuovamente gli occhi.
La donna rimase sorpresa dalla sua
affermazione. Era la prima volta in assoluto che sentiva dire una cosa del
genere da lui da quando avevano avviato la terapia. Stava per ribattere ma non
fece in tempo. Nuovamente Bucky parlò con voce così bassa che lei dovette
concentrarsi per non perdere una sola parola, nonostante il silenzio regnasse
ovunque intorno a loro.
«Ogni volta che sento quelle parole
qualcosa in me si risveglia, non riesco a controllarlo. E sono lì, i ricordi, i
volti, i nomi delle persone a cui ho fatto del male sono ancora tutti lì.»
Aveva alzato il tono della voce, mentre
la frustrazione divenne perfettamente decifrabile in ogni parola.
«È opprimente. Cerco di non pensarci ma
non vogliono andare via.»
Anisa fece per parlare, ma non le
riuscì di dire nulla. Sospirò silenziosa, consapevole di non poter immaginare
come si potesse sentire l’uomo. Nessuno avrebbe potuto capire cosa si celava
nella sua mente, quale dolore – o quale sensazione ancora più intensa – lo
accompagnasse ogni volta. Improvvisamente le venne un’idea.
«Possiamo…» cominciò, ma si bloccò
quando gli occhi grigio-azzurri dell’uomo puntarono nei suoi. Le parve
smarrito, incapace di trovare una via di fuga dalla sua situazione.
Si ricompose, riprendendo parola:
«Possiamo usare il farmaco se te la senti. Possiamo fare in modo che ti aiuti a
dimenticarti di tutto ciò che hai dovuto fare per l’HYDRA.»
La risposta del Soldato fu pronta: «No.
Non voglio dimenticare niente di ciò che ho fatto.»
Anisa fu presa alla sprovvista da
quelle parole e non seppe cosa dire in risposta.
«So che non ero in me, che non avrei
mai fatto quelle cose se avessi potuto scegliere e che tutti questi pesanti
ricordi che porto dentro non ci sarebbero nella mia mente se non fosse stato
per l’HYDRA. Tuttavia non voglio dimenticare. Solo così potrò essere sicuro di
non fare più del male a persone innocenti.
«È solo che continuano a tornarmi alla
mente. Non riesco a controllarli, non riesco a conviverci, sono una presenza
costante che fa davvero male.»
Aveva stretto i denti sul finire della
frase, la mano chiusa a pugno abbandonata in grembo. Il cuore aveva ripreso a
martellargli nel petto e il respiro cominciava a infrangersi nuovamente.
Anisa rispettò il silenzio dell’uomo.
Sentì formarsi un nodo alla gola mentre ripensava alle parole appena
pronunciate da Bucky; la consapevolezza di non riuscire a capire veramente il
suo stato d’animo la fece sentire inutile. Come poteva aiutare una persona in
quella situazione? Come poteva anche solo sperare – lei, ma anche T'Challa – di
restituire un po’ di pace a qualcuno che per tutta la vita si era macchiato del
sangue di innocenti per conto di altri? Al confronto la sua storia, che lei
aveva sempre trovato dolorosa, sembrava una gita in campagna. Ripensare al suo
passato, però, le fece venire un’idea. Per quanto le loro storie non avessero
nulla in comune, c’era qualcosa che aveva permesso ad Anisa di continuare per
la sua strada e che poteva, in qualche modo e con tanta forza di volontà,
aiutare anche il Soldato d’Inverno.
Respirò a fondo e si decise a dire a
Bucky una verità che solo pochi wakandiani conoscevano.
«Rebecca Russell.»
L’uomo la guardò, corrugando la fronte
confuso.
«Come?» sussurrò.
La donna rispose al suo sguardo con
sicurezza, stringendosi leggermente nelle spalle. «Rebecca Russell. È il mio
vero nome. Sono scozzese.»
Se possibile l’espressione di Bucky si
fece ancora più confusa. Rimase a fissare Anisa non capendo dove volesse
arrivare, né cosa c’entrasse la sua ammissione con quello che lui aveva appena
detto. Tuttavia lei non parve fare caso a questo e, senza staccare gli occhi da
quelli dell’uomo, ricominciò a raccontare: «Io e la mia famiglia ci siamo
trasferiti in Kenya quando avevo dieci anni. Mio padre aveva trovato une
bellissima casa vicino al lago Turkana, proprio al confine con il Wakanda.
Insegnava inglese alla scuola di North Horr; ogni giorno doveva farsi più di
due ore di macchina, ma a lui andava bene così. Gli piaceva il suo lavoro e a
me piaceva vivere là.
«Poco dopo il mio tredicesimo
compleanno, una sera, tre uomini vennero a suonare alla nostra porta. Il loro
capo si presentò come Ulysses Klaw. Disse a mio padre che la nostra casa si
trovava proprio sul più grande giacimento di vibranio non appartenente al
Wakanda e che lui avrebbe voluto acquistarla. Era disposto a pagare qualsiasi
cifra ma mio padre fu inamovibile; non avrebbe mai venduto. Klaw gli diede
tempo per pensarci, mio padre gli disse che potevano anche evitare di tornare.
«Tre giorni dopo tornarono. Quando mio
padre aprì la porta non gli chiesero neanche se avesse ripensato alla loro
proposta. Gli spararono a bruciapelo e lo uccisero. Mia madre fece a malapena
in tempo a dirmi di fuggire, subito dopo spararono anche a lei e io scappai
quando mi resi conto che avrebbero ucciso anche me.
«Non sapevo dove andare e mentre correvo
con loro che mi inseguivano perché avevo visto troppo, varcai involontariamente
i confini del Wakanda. I wakandiani hanno sempre tenuto ben monitorati i propri
confini. Si accorsero subito che c’era un intruso e alcune guardie mi
raggiunsero prima che potessero riuscirci Klaw e i suoi uomini. Quando capirono
cosa stava accadendo affrontarono Klaw e misero i tre in fuga, infine mi
portarono a palazzo, dal sovrano.
«T’Chaka ascoltò il mio racconto e ne
rimase commosso. Fece in modo che i miei genitori potessero avere una degna
sepoltura, infine mi accolse a palazzo, sostenendo che T'Challa avrebbe potuto
avere bisogno di una sorella in più. Non so per quale motivo avvenne, ma io e
T'Challa stringemmo un legame indissolubile in breve tempo e diventammo
inseparabili. Mi insegnò la lingua, a combattere e a cavarmela da sola,
trasferendo a me gli insegnamenti che suo padre tramandava lui. Per il mio
diciottesimo compleanno decise che meritavo un nome wakandiano e scelse per me
Anisa, che significa “amica leale”. Una volta divenuto re fece di me la sua
personale assistente ed è per questo che sono qui.»
Si zittì, distogliendo lo sguardo.
Bucky non disse nulla, si limitò a guardarla, confuso e dispiaciuto. Aveva
trovato una risposta a quella che era stata la prima domanda che gli era sorta
in mente appena aveva visto la donna, ma aver scoperto come mai quella donna
dalla pelle bianca si trovasse in Wakanda lo rattristò.
«Sono consapevole del fatto che le
nostre storie non si possono paragonare e so di non poter capire come ti senti.
Quello che cerco di dirti con tutta questa storia è che anche io ho perso
tutto, una volta. Ma poi ho incontrato T’Chaka e ho avuto una nuova occasione.
Anche tu hai ritrovato Steve Rogers, sei riuscito a liberarti dalla schiavitù
dell’HYDRA. Hai finalmente la possibilità di decidere cosa fare e quali
battaglie affrontare. Devi essere consapevole di ciò. Devi
aggrapparti a questa consapevolezza con tutto te stesso e fare in modo che ciò
che hai subito in passato diventi cenere al suo confronto.»
Il Soldato non rispose, tuttavia
assorbì ugualmente ogni parola. Non gli fu semplice intuire subito cosa
intendesse esattamente Anisa, ma alla fine capì cosa voleva dire la donna. Non
sarebbe stato facile riuscire a far passare in secondo piano tutto il suo
passato, anche se lo sprone era la consapevolezza che, una volta eliminata la
sequenza di parole che lo rendeva il Soldato voluto dall’HYDRA, avrebbe potuto
decidere della sua vita e riavere l’amico di sempre. Sapeva che Anisa aveva
ragione. Aveva trascorso due anni – dopo la distruzione degli Helicarrier a
Washington D.C. – in solitudine, senza fare del male a nessuno e costruendosi
intorno l’abbozzo di vita migliore che fosse riuscito a ottenere del 1945.
T'Challa gli stava dando la possibilità di trasformare quell’abbozzo in
qualcosa di migliore e non sarebbero stati i suoi fantasmi, né il suo passato a
distruggere il suo lavoro.
Dopo lunghi minuti di silenzio, in cui
gli sguardi dei due non si erano mai incontrati, fu Bucky il primo a
interrompere tutto. «Mi dispiace per i tuoi genitori» disse.
La donna lo guardò e sorrise
debolmente. «Non era di me che avevo intenzione di parlare» ammise lei,
dopodiché sollevò il capo con fierezza e chiese: «Che cosa pensi di fare ora?»
L’uomo non dovette pensarci, aveva già
preso la sua decisione attimi prima.
«Fai tornare qui Muenda. Ci voglio
riprovare.»
*
«Non puoi immaginare quanto io sia
felice di questa notizia, Anisa, davvero non ne puoi avere idea.»
T'Challa camminava avanti e indietro
per il suo ufficio esternando con soddisfazione la sua gioia. Nella stanza era
tutto in ordine come sempre, fatta eccezione per la scrivania, ingombra di
carte, mappe e penne, che sicuramente erano parte del lavoro di ricerca su Klaw
che T'Challa non avrebbe mai accantonato se solo avesse potuto.
Tre giorni dopo essersi presentata a
Bucky per quello che era veramente – Rebecca – aveva raggiunto l’ufficio del
sovrano per dargli la notizia che, finalmente, le dieci parole russe non erano
più in grado di risvegliare il lato peggiore del Soldato d’Inverno. T'Challa
era esploso in un grido di soddisfazione, ma prima di lasciarsi andare
completamente aveva preteso delle conferme e Anisa, con una punta di orgoglio
nella voce, aveva rivelato che quattro volte consecutivamente Muenda aveva
pronunciato quelle dieci parole – con l’enfasi di chi vuole farsi obbedire dal
Soldato – e per quattro volte James Barnes era rimasto immobile al suo posto,
senza liberare neanche un solo, flebile, rantolo.
«Non avrei mai creduto che gli sarebbe
bastato così poco tempo. Credevo sarei riuscito prima a trovare Klaw.»
L’euforia del sovrano si spense a
quelle sue stesse parole. Nei dodici giorni necessari a Bucky per ritrovarsi,
T'Challa non aveva fatto progressi sul nuovo nascondiglio di Klaw. Aveva mandato
in avanscoperta uomini, Sentinelle, aveva raccolto dati, seguito piste e
notizie, ma ancora non aveva niente. In compenso alcuni soldati etiopici erano
stati feriti o uccisi, altri erano scomparsi e lui era pronto a giurare che
dietro a tutto ciò si celava Ulysses Klaw.
«Ancora nessuna novità?» domandò Anisa,
lo sguardo fisso sulle carte che ingombravano la scrivania e l’amarezza nella
voce.
«No, purtroppo. Sto aspettando alcuni
responsi di rilievi fatti questa mattina vicino al lago Turkana.»
La donna si limitò ad annuire, senza
aggiungere altro. Anche T'Challa non proferì altra parola sull’argomento, ma
tornò alla lieta notizia che Anisa gli aveva portato.
«Tornando a Barnes» esordì, catturando
subito l’attenzione della donna. «Penso sia ora di fargli avere un braccio
nuovo.»
«Braccio?»
Il sovrano la guardò, lievemente
stupito dalla sua sorpresa.
«Sì, braccio. Non vorrai lasciarlo
mutilato, vero? Ora che sappiamo che l’HYDRA non può più controllarlo non vedo
perché proibirgli di riavere il pieno uso dei suoi arti.»
Anisa continuava a guardarlo, stranita.
«Hai… hai già provveduto…»
Non terminò la frase. T'Challa sorrise,
radioso. «Un piccolo capolavoro. Non posso certo prendermi tutto il merito dato
che mi sono totalmente ispirato a quello che Barnes aveva e che è andato
distrutto, ma il risultato non è niente affatto male. È venuto proprio come nei
miei progetti.»
Il viso della donna si accigliò.
T'Challa si rese subito conto che qualcosa la turbava, la sua reazione era
totalmente differente da quella che si era immaginato.
«Qualcosa non va?» le chiese, facendosi
improvvisamente serio e avvicinandosi di un passo ad Anisa.
Si guardarono, lui in attesa lei alla
ricerca delle parole migliori per potersi esprimere.
«Glielo vuoi chiedere davvero?» domandò
infine, mormorando in modo quasi incerto le parole. T'Challa ci mise pochi
secondi ad afferrare ciò che lei voleva intendere.
«Sì. Voglio chiederglielo. Non gli farò
alcun tipo di pressione, gli chiederò esclusivamente di scegliere ciò che vuole
davvero fare.»
Silenzio. La donna distolse lo sguardo,
come fosse sotto accusa. Non sapeva cosa pensare. Da un lato era consapevole
che Bucky, ora, non rappresentava più un pericolo e che averlo dalla propria
parte nella lotta contro Klaw si sarebbe potuto rivelare decisivo. Dall’altro
lato, però, dopo aver scoperto il tormento che le azione da lui compiute in
passato – anche se non aveva avuto altra scelta – continuavano a provocargli,
si chiese con che coraggio gli si poteva domandare di affrontare un altro
scontro che non aveva cercato.
«Anisa cosa ti preoccupa?»
Finalmente lei tornò a rivolgere lo
sguardo al sovrano, dando voce e forma al pensiero che le aveva invaso la
mente: «Non so, T'Challa…»
Il suo lieve temporeggiare diede la
possibilità all’uomo di replicare: «Non ti fidi di lui? Tu stessa hai seguito
la sua riabilitazione e mi hai garantito che il farmaco ha funzionato.»
«Sì, certo. Non sto dicendo che non mi
fido di Barnes. È solo che nell’arco della sua vita ha combattuto quasi
esclusivamente guerre che non gli appartenevano. Perché dovremmo chiedergli di
affrontare anche la nostra?»
T'Challa si irrigidì, la consapevolezza che Anisa avesse ragione lo
inondò. Come guardò gli occhi nocciola della donna, un misto di compassione e
preoccupazione, un sorriso addolcì le sue labbra.
«Ti sei affezionata a lui?»
Lo chiese con legittima, ingenua,
curiosità e nulla di più. Fu Anisa a irrigidirsi, ora. Gonfiò il petto in modo
fiero, una leggera nota di stizza a condire il suo tono: «Se anche fosse,
merito una risposta. Non puoi negare che io abbia ragione, così come non puoi
negare il fatto che vuoi chiedere aiuto all’uomo che due anni fa volevi
uccidere e che con tutta questa storia non c’entra niente.»
T'Challa non rispose subito. Chinò il
capo con solenne rispetto, ammettendo così di dare ragione in tutto ad Anisa.
Poi i suoi occhi scuri puntarono dritto in quelli di lei, risoluti e fieri,
così come lo era la sua voce appena parlò: «Sai di avere ragione, Anisa; lo sai
perfettamente e non negherò. Tuttavia sai anche quanto io sia preoccupato per
il mio popolo. Temo che Klaw possa far loro del male e non voglio che accada.
Con le sole forze che abbiamo, però, non sono certo che riusciremo a fermarlo.
Barnes può aiutarci. So che non avrei il diritto di chiedergli aiuto, ma non so
cos’altro poter fare. Comunque sia te l’ho detto: solo se lui è veramente disposto ad aiutarci,
accetterò il suo aiuto.»
La donna parve lievemente rassicurata
da quelle parole, ma T'Challa sapeva che sarebbe servito ben altro per farle
passare il suo turbamento. Nei giorni
che Anisa aveva trascorso insieme a Bucky qualcosa in lei era cambiato, il
sovrano lo aveva capito. Non si trattava di preoccupazione per il fatto che il
Soldato potesse fare del male a qualcuno, era la preoccupazione che tutta
quella situazione potesse fare del male al Soldato a impensierire la donna.
T'Challa sospirò. «Sarò sincero con
lui, terribilmente sincero. E qualsiasi sarà la sua scelta sarà mia premura
assecondarla.»
Lei lasciò intendere il suo
apprezzamento per quelle parole, mentre seguiva con gli occhi il sovrano, in
procinto di raggiungere la porta dell’ufficio.
«Ma prima vorrei che il suo braccio
venisse ricostruito. Sarebbe un vero peccato tenere separati un uomo menomato e
una protesi realizzata su misura per lui.»
Aprì la porta, tornando poi a
rivolgersi alla sua assistente: «Saresti così gentile da andare a chiamarlo?»
Anisa non si mosse subito. Rimase a
fissare il sovrano negli occhi, in cerca di qualcosa che potesse esserle
sfuggita. Solo quando si accertò che lui era stato realmente sincero su tutto
fece un cenno del capo e si mosse, uscendo dalla stanza.