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Autore: MadAka    11/01/2017    2 recensioni
“Il sovrano aveva impiegato due anni per sentirsi all’altezza del compito che il padre gli aveva prematuramente lasciato. Tuttavia, alla fine, l’erede di T’Chaka si stava dimostrando un ottimo re, così come un perfetto Pantera Nera.”
[Post Civil War. Sono presenti riferimenti ad altri film Marvel, in particolare AoU. Alcune cose possono essere tratte anche dai fumetti]
Genere: Avventura, Azione | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: James 'Bucky' Barnes, Nuovo personaggio, Sam Wilson/Falcon, Steve Rogers, T'Challa/Black Panter
Note: Movieverse | Avvertimenti: Incompiuta
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Il metallo del tavolo vibrava a ogni colpo. Questi venivano scagliati con violenza, seguiti da grida soffocate, trattenute a stento fra le labbra serrate. Bucky Barnes continuava a dare pugni sul piano del tavolo, la mano destra dolorante, ma non sapeva come altro fare per tentare di tenere a freno un istinto di ghiaccio che non voleva rimontasse.

Diciassette – семнадцатьla parola che quel pomeriggio lo aveva avvolto nel freddo, facendogli improvvisamente perdere il completo controllo di sé. Si era sentito montare da un’improvvisa irritazione, una rabbia controllata che aveva reso i suoi muscoli tesi, che lo faceva fremere. Prima che potesse mancargli totalmente la lucidità aveva costretto se stesso a resistere, a combattere una lotta interna che sapeva già avrebbe perso e la cui strenua resistenza passava dal disperato tentativo di mantenere il controllo del proprio corpo.

«Basta così!»

La voce di Anisa si levò forte nel piccolo laboratorio. L’uomo che fino a quel momento parlava chiaro in lingua russa cessò d’improvviso e i colpi scanditi contro il piano metallico terminarono pochi attimi dopo. Solo il respiro affannato del Sodato riempiva l’aria mentre quest’ultimo teneva gli occhi fissi sull’argento sotto i suoi occhi.

Erano trascorsi otto giorni dall’inizio, da quando Bucky aveva assunto la prima capsula bianca, costringendo la sua mente a ricordare i giorni di prigionia nell’HYDRA e nient’altro e Muenda – l’uomo incaricato da T'Challa per la sua conoscenza della lingua russa – aveva iniziato a leggere in ordine sparso le fatidiche parole, affinché, grazie al farmaco, diventassero vuote. Con i giorni quelle dieci parole avevano perso ogni significato per Bucky. Erano diventate suoni estranei e niente di più. Tuttavia quando la sequenza di parole veniva correttamente pronunciata, qualcosa nella mente del Soldato scattava e neanche il farmaco era riuscito a sopprimere quell’istinto che si risvegliava – anche se non aveva ancora fatto in tempo a ridestarsi completamente. Ogni volta che stava per accadere Anisa bloccava tutto lasciando dentro Bucky una voragine caotica e un intenso dolore.

Per motivi che lui non riusciva a spiegarsi ogni volta che accadeva era una sofferenza, una tortura. Quelle parole lo rispedivano indietro, nel gelo di quegli squallidi laboratori sotterranei in cui lo avevano soffocato più volte, impedendogli di ricordarsi di se stesso, annebbiandogli la mente fino a farlo diventare incapace di provare qualsivoglia cosa. Per quanto si sforzasse non riusciva a controllarsi. La rabbia gli montava dentro, si insinuava in ogni più minima parte di sé, raggiungendo anche i punti più nascosti, accecandolo. Insieme a essa si facevano strada i ricordi, un ammasso caotico di grida, suppliche e sofferenza. Le sensazioni si ammassavano in lui, resistere loro gli era quasi impossibile e lo sapeva. Sapeva che se Anisa, ogni volta, non avesse interrotto il processo in tempo, impedendo a Muenda di proseguire, al progredire di quelle parole Bucky Barnes sarebbe stato annullato e sopraffatto dal Soldato d’Inverno che custodiva dentro.

Sudore freddo imperlava la fronte dell’uomo, che teneva ancora gli occhi fissi sul tavolo davanti a sé. Continuava a respirare pesantemente come se si fosse risvegliato da un brutto sogno. Poco dopo un bicchiere d’acqua venne posato proprio nel punto in cui stava fissando.

«Tre parole, Bucky. Ieri eravamo arrivati a cinque.»

L’ormai famigliare voce di Anisa gli fece sollevare lo sguardo e subito incontrò quello nocciola di lei. Fu un solo istante, scomparve veloce com’era arrivato, ma Anisa avrebbe potuto giurare di vedere un bagliore di paura negli occhi tanto chiari quanto belli dell’uomo. La donna rimase un momento spaesata, infine sollevò la testa e si rivolse a tutto il personale che, ogni volta, assisteva alla terapia del Soldato.

«Lasciateci soli, per favore. Anche tu Muenda» concluse, rivolgendosi al solo uomo insieme a lei e Bucky nella piccola stanza circolare. Il suo tono non ammetteva repliche, ma qualcuno, oltre i vetri, parlò attraverso l’interfono: «Ma, signorina ci è stato detto…»

Non concluse mai la frase. Anisa lo trafisse con lo sguardo ripetendo la richiesta di pochi attimi prima e lentamente il piccolo laboratorio si svuotò. Quando rimase sola con Bucky – il quale aveva preso a fissare ostinatamente il bicchiere – si sistemò sulla sedia libera proprio di fronte a lui. L’uomo non sollevò lo sguardo, lei rimase a guardarlo in silenzio. Da un paio di giorni avevano notato che la terapia non stava avendo lo stesso effetto che aveva all’inizio. Le singole parole russe era riuscito a dimenticarle in fretta grazie al farmaco, ma lo stesso non valeva per la loro lettura nella sequenza corretta. Lo vedeva, quando quelle parole erano pronunciate nell’ordine giusto qualcosa nell’uomo si trasformava. Si irrigidiva, tendeva i muscoli e i suoi occhi diventavano assenti. Cercava di resistere a quella involontaria trasformazione soffocando a stento grida e sfogando sul tavolo che aveva davanti la rabbia che certamente gli montava, ma Anisa sapeva che solo l’interruzione poteva funzionare e lei, ormai da giorni, bloccava tutto prima che Bucky potesse diventare pericoloso contro la sua stessa volontà. Tuttavia il fatto che la terapia di T'Challa avesse funzionato solo a metà e che fallisse proprio nella parte più importante di tutto il percorso, non la faceva stare tranquilla.

«Ti senti bene?» chiese infine la donna, dopo un lungo silenzio.

Bucky tornò a guardarla, senza rispondere. Il suo respiro si era regolarizzato e i muscoli rilassati, ma non poteva certo dire di stare bene. Dentro li vedeva ancora, li sentiva ancora, come fantasmi tornavano sempre insieme al gelo: i troppi ricordi di una vita passata a essere l’arma spietata e infallibile di persone senza anima. Continuamente si accavallavano dentro di lui portando con sé una consapevolezza fatta di angoscia e dolore.

«Bucky…»

Anisa provò a chiamarlo e per un momento all’uomo tornarono alla mente le persone che lo avevano chiamato così prima di lei.

«Non ci riesco» mormorò il Soldato, abbassando nuovamente gli occhi.

La donna rimase sorpresa dalla sua affermazione. Era la prima volta in assoluto che sentiva dire una cosa del genere da lui da quando avevano avviato la terapia. Stava per ribattere ma non fece in tempo. Nuovamente Bucky parlò con voce così bassa che lei dovette concentrarsi per non perdere una sola parola, nonostante il silenzio regnasse ovunque intorno a loro.

«Ogni volta che sento quelle parole qualcosa in me si risveglia, non riesco a controllarlo. E sono lì, i ricordi, i volti, i nomi delle persone a cui ho fatto del male sono ancora tutti lì.»

Aveva alzato il tono della voce, mentre la frustrazione divenne perfettamente decifrabile in ogni parola.

«È opprimente. Cerco di non pensarci ma non vogliono andare via.»

Anisa fece per parlare, ma non le riuscì di dire nulla. Sospirò silenziosa, consapevole di non poter immaginare come si potesse sentire l’uomo. Nessuno avrebbe potuto capire cosa si celava nella sua mente, quale dolore – o quale sensazione ancora più intensa – lo accompagnasse ogni volta. Improvvisamente le venne un’idea.

«Possiamo…» cominciò, ma si bloccò quando gli occhi grigio-azzurri dell’uomo puntarono nei suoi. Le parve smarrito, incapace di trovare una via di fuga dalla sua situazione.

Si ricompose, riprendendo parola: «Possiamo usare il farmaco se te la senti. Possiamo fare in modo che ti aiuti a dimenticarti di tutto ciò che hai dovuto fare per l’HYDRA.»

La risposta del Soldato fu pronta: «No. Non voglio dimenticare niente di ciò che ho fatto.»

Anisa fu presa alla sprovvista da quelle parole e non seppe cosa dire in risposta.

«So che non ero in me, che non avrei mai fatto quelle cose se avessi potuto scegliere e che tutti questi pesanti ricordi che porto dentro non ci sarebbero nella mia mente se non fosse stato per l’HYDRA. Tuttavia non voglio dimenticare. Solo così potrò essere sicuro di non fare più del male a persone innocenti.

«È solo che continuano a tornarmi alla mente. Non riesco a controllarli, non riesco a conviverci, sono una presenza costante che fa davvero male.»

Aveva stretto i denti sul finire della frase, la mano chiusa a pugno abbandonata in grembo. Il cuore aveva ripreso a martellargli nel petto e il respiro cominciava a infrangersi nuovamente.

Anisa rispettò il silenzio dell’uomo. Sentì formarsi un nodo alla gola mentre ripensava alle parole appena pronunciate da Bucky; la consapevolezza di non riuscire a capire veramente il suo stato d’animo la fece sentire inutile. Come poteva aiutare una persona in quella situazione? Come poteva anche solo sperare – lei, ma anche T'Challa – di restituire un po’ di pace a qualcuno che per tutta la vita si era macchiato del sangue di innocenti per conto di altri? Al confronto la sua storia, che lei aveva sempre trovato dolorosa, sembrava una gita in campagna. Ripensare al suo passato, però, le fece venire un’idea. Per quanto le loro storie non avessero nulla in comune, c’era qualcosa che aveva permesso ad Anisa di continuare per la sua strada e che poteva, in qualche modo e con tanta forza di volontà, aiutare anche il Soldato d’Inverno.

Respirò a fondo e si decise a dire a Bucky una verità che solo pochi wakandiani conoscevano.

«Rebecca Russell.»

L’uomo la guardò, corrugando la fronte confuso.

«Come?» sussurrò.

La donna rispose al suo sguardo con sicurezza, stringendosi leggermente nelle spalle. «Rebecca Russell. È il mio vero nome. Sono scozzese.»

Se possibile l’espressione di Bucky si fece ancora più confusa. Rimase a fissare Anisa non capendo dove volesse arrivare, né cosa c’entrasse la sua ammissione con quello che lui aveva appena detto. Tuttavia lei non parve fare caso a questo e, senza staccare gli occhi da quelli dell’uomo, ricominciò a raccontare: «Io e la mia famiglia ci siamo trasferiti in Kenya quando avevo dieci anni. Mio padre aveva trovato une bellissima casa vicino al lago Turkana, proprio al confine con il Wakanda. Insegnava inglese alla scuola di North Horr; ogni giorno doveva farsi più di due ore di macchina, ma a lui andava bene così. Gli piaceva il suo lavoro e a me piaceva vivere là.

«Poco dopo il mio tredicesimo compleanno, una sera, tre uomini vennero a suonare alla nostra porta. Il loro capo si presentò come Ulysses Klaw. Disse a mio padre che la nostra casa si trovava proprio sul più grande giacimento di vibranio non appartenente al Wakanda e che lui avrebbe voluto acquistarla. Era disposto a pagare qualsiasi cifra ma mio padre fu inamovibile; non avrebbe mai venduto. Klaw gli diede tempo per pensarci, mio padre gli disse che potevano anche evitare di tornare.

«Tre giorni dopo tornarono. Quando mio padre aprì la porta non gli chiesero neanche se avesse ripensato alla loro proposta. Gli spararono a bruciapelo e lo uccisero. Mia madre fece a malapena in tempo a dirmi di fuggire, subito dopo spararono anche a lei e io scappai quando mi resi conto che avrebbero ucciso anche me.

«Non sapevo dove andare e mentre correvo con loro che mi inseguivano perché avevo visto troppo, varcai involontariamente i confini del Wakanda. I wakandiani hanno sempre tenuto ben monitorati i propri confini. Si accorsero subito che c’era un intruso e alcune guardie mi raggiunsero prima che potessero riuscirci Klaw e i suoi uomini. Quando capirono cosa stava accadendo affrontarono Klaw e misero i tre in fuga, infine mi portarono a palazzo, dal sovrano.

«T’Chaka ascoltò il mio racconto e ne rimase commosso. Fece in modo che i miei genitori potessero avere una degna sepoltura, infine mi accolse a palazzo, sostenendo che T'Challa avrebbe potuto avere bisogno di una sorella in più. Non so per quale motivo avvenne, ma io e T'Challa stringemmo un legame indissolubile in breve tempo e diventammo inseparabili. Mi insegnò la lingua, a combattere e a cavarmela da sola, trasferendo a me gli insegnamenti che suo padre tramandava lui. Per il mio diciottesimo compleanno decise che meritavo un nome wakandiano e scelse per me Anisa, che significa “amica leale”. Una volta divenuto re fece di me la sua personale assistente ed è per questo che sono qui.»

Si zittì, distogliendo lo sguardo. Bucky non disse nulla, si limitò a guardarla, confuso e dispiaciuto. Aveva trovato una risposta a quella che era stata la prima domanda che gli era sorta in mente appena aveva visto la donna, ma aver scoperto come mai quella donna dalla pelle bianca si trovasse in Wakanda lo rattristò.

«Sono consapevole del fatto che le nostre storie non si possono paragonare e so di non poter capire come ti senti. Quello che cerco di dirti con tutta questa storia è che anche io ho perso tutto, una volta. Ma poi ho incontrato T’Chaka e ho avuto una nuova occasione. Anche tu hai ritrovato Steve Rogers, sei riuscito a liberarti dalla schiavitù dell’HYDRA. Hai finalmente la possibilità di decidere cosa fare e quali battaglie affrontare. Devi essere consapevole di ciò. Devi aggrapparti a questa consapevolezza con tutto te stesso e fare in modo che ciò che hai subito in passato diventi cenere al suo confronto

Il Soldato non rispose, tuttavia assorbì ugualmente ogni parola. Non gli fu semplice intuire subito cosa intendesse esattamente Anisa, ma alla fine capì cosa voleva dire la donna. Non sarebbe stato facile riuscire a far passare in secondo piano tutto il suo passato, anche se lo sprone era la consapevolezza che, una volta eliminata la sequenza di parole che lo rendeva il Soldato voluto dall’HYDRA, avrebbe potuto decidere della sua vita e riavere l’amico di sempre. Sapeva che Anisa aveva ragione. Aveva trascorso due anni – dopo la distruzione degli Helicarrier a Washington D.C. – in solitudine, senza fare del male a nessuno e costruendosi intorno l’abbozzo di vita migliore che fosse riuscito a ottenere del 1945. T'Challa gli stava dando la possibilità di trasformare quell’abbozzo in qualcosa di migliore e non sarebbero stati i suoi fantasmi, né il suo passato a distruggere il suo lavoro.

Dopo lunghi minuti di silenzio, in cui gli sguardi dei due non si erano mai incontrati, fu Bucky il primo a interrompere tutto. «Mi dispiace per i tuoi genitori» disse.

La donna lo guardò e sorrise debolmente. «Non era di me che avevo intenzione di parlare» ammise lei, dopodiché sollevò il capo con fierezza e chiese: «Che cosa pensi di fare ora?»

L’uomo non dovette pensarci, aveva già preso la sua decisione attimi prima.

«Fai tornare qui Muenda. Ci voglio riprovare.»

 

*

 

«Non puoi immaginare quanto io sia felice di questa notizia, Anisa, davvero non ne puoi avere idea.»

T'Challa camminava avanti e indietro per il suo ufficio esternando con soddisfazione la sua gioia. Nella stanza era tutto in ordine come sempre, fatta eccezione per la scrivania, ingombra di carte, mappe e penne, che sicuramente erano parte del lavoro di ricerca su Klaw che T'Challa non avrebbe mai accantonato se solo avesse potuto.

Tre giorni dopo essersi presentata a Bucky per quello che era veramente – Rebecca – aveva raggiunto l’ufficio del sovrano per dargli la notizia che, finalmente, le dieci parole russe non erano più in grado di risvegliare il lato peggiore del Soldato d’Inverno. T'Challa era esploso in un grido di soddisfazione, ma prima di lasciarsi andare completamente aveva preteso delle conferme e Anisa, con una punta di orgoglio nella voce, aveva rivelato che quattro volte consecutivamente Muenda aveva pronunciato quelle dieci parole – con l’enfasi di chi vuole farsi obbedire dal Soldato – e per quattro volte James Barnes era rimasto immobile al suo posto, senza liberare neanche un solo, flebile, rantolo.

«Non avrei mai creduto che gli sarebbe bastato così poco tempo. Credevo sarei riuscito prima a trovare Klaw.»

L’euforia del sovrano si spense a quelle sue stesse parole. Nei dodici giorni necessari a Bucky per ritrovarsi, T'Challa non aveva fatto progressi sul nuovo nascondiglio di Klaw. Aveva mandato in avanscoperta uomini, Sentinelle, aveva raccolto dati, seguito piste e notizie, ma ancora non aveva niente. In compenso alcuni soldati etiopici erano stati feriti o uccisi, altri erano scomparsi e lui era pronto a giurare che dietro a tutto ciò si celava Ulysses Klaw.

«Ancora nessuna novità?» domandò Anisa, lo sguardo fisso sulle carte che ingombravano la scrivania e l’amarezza nella voce.

«No, purtroppo. Sto aspettando alcuni responsi di rilievi fatti questa mattina vicino al lago Turkana.»

La donna si limitò ad annuire, senza aggiungere altro. Anche T'Challa non proferì altra parola sull’argomento, ma tornò alla lieta notizia che Anisa gli aveva portato.

«Tornando a Barnes» esordì, catturando subito l’attenzione della donna. «Penso sia ora di fargli avere un braccio nuovo.»

«Braccio?»

Il sovrano la guardò, lievemente stupito dalla sua sorpresa.

«Sì, braccio. Non vorrai lasciarlo mutilato, vero? Ora che sappiamo che l’HYDRA non può più controllarlo non vedo perché proibirgli di riavere il pieno uso dei suoi arti.»

Anisa continuava a guardarlo, stranita. «Hai… hai già provveduto…»

Non terminò la frase. T'Challa sorrise, radioso. «Un piccolo capolavoro. Non posso certo prendermi tutto il merito dato che mi sono totalmente ispirato a quello che Barnes aveva e che è andato distrutto, ma il risultato non è niente affatto male. È venuto proprio come nei miei progetti.»

Il viso della donna si accigliò. T'Challa si rese subito conto che qualcosa la turbava, la sua reazione era totalmente differente da quella che si era immaginato.

«Qualcosa non va?» le chiese, facendosi improvvisamente serio e avvicinandosi di un passo ad Anisa.

Si guardarono, lui in attesa lei alla ricerca delle parole migliori per potersi esprimere.

«Glielo vuoi chiedere davvero?» domandò infine, mormorando in modo quasi incerto le parole. T'Challa ci mise pochi secondi ad afferrare ciò che lei voleva intendere.

«Sì. Voglio chiederglielo. Non gli farò alcun tipo di pressione, gli chiederò esclusivamente di scegliere ciò che vuole davvero fare.»

Silenzio. La donna distolse lo sguardo, come fosse sotto accusa. Non sapeva cosa pensare. Da un lato era consapevole che Bucky, ora, non rappresentava più un pericolo e che averlo dalla propria parte nella lotta contro Klaw si sarebbe potuto rivelare decisivo. Dall’altro lato, però, dopo aver scoperto il tormento che le azione da lui compiute in passato – anche se non aveva avuto altra scelta – continuavano a provocargli, si chiese con che coraggio gli si poteva domandare di affrontare un altro scontro che non aveva cercato.

«Anisa cosa ti preoccupa?»

Finalmente lei tornò a rivolgere lo sguardo al sovrano, dando voce e forma al pensiero che le aveva invaso la mente: «Non so, T'Challa…»

Il suo lieve temporeggiare diede la possibilità all’uomo di replicare: «Non ti fidi di lui? Tu stessa hai seguito la sua riabilitazione e mi hai garantito che il farmaco ha funzionato.»

«Sì, certo. Non sto dicendo che non mi fido di Barnes. È solo che nell’arco della sua vita ha combattuto quasi esclusivamente guerre che non gli appartenevano. Perché dovremmo chiedergli di affrontare anche la nostra?»

T'Challa si irrigidì, la consapevolezza che Anisa avesse ragione lo inondò. Come guardò gli occhi nocciola della donna, un misto di compassione e preoccupazione, un sorriso addolcì le sue labbra.

«Ti sei affezionata a lui?»

Lo chiese con legittima, ingenua, curiosità e nulla di più. Fu Anisa a irrigidirsi, ora. Gonfiò il petto in modo fiero, una leggera nota di stizza a condire il suo tono: «Se anche fosse, merito una risposta. Non puoi negare che io abbia ragione, così come non puoi negare il fatto che vuoi chiedere aiuto all’uomo che due anni fa volevi uccidere e che con tutta questa storia non c’entra niente.»

T'Challa non rispose subito. Chinò il capo con solenne rispetto, ammettendo così di dare ragione in tutto ad Anisa. Poi i suoi occhi scuri puntarono dritto in quelli di lei, risoluti e fieri, così come lo era la sua voce appena parlò: «Sai di avere ragione, Anisa; lo sai perfettamente e non negherò. Tuttavia sai anche quanto io sia preoccupato per il mio popolo. Temo che Klaw possa far loro del male e non voglio che accada. Con le sole forze che abbiamo, però, non sono certo che riusciremo a fermarlo. Barnes può aiutarci. So che non avrei il diritto di chiedergli aiuto, ma non so cos’altro poter fare. Comunque sia te l’ho detto: solo se lui è veramente disposto ad aiutarci, accetterò il suo aiuto.»

La donna parve lievemente rassicurata da quelle parole, ma T'Challa sapeva che sarebbe servito ben altro per farle passare il suo turbamento. Nei giorni che Anisa aveva trascorso insieme a Bucky qualcosa in lei era cambiato, il sovrano lo aveva capito. Non si trattava di preoccupazione per il fatto che il Soldato potesse fare del male a qualcuno, era la preoccupazione che tutta quella situazione potesse fare del male al Soldato a impensierire la donna.

T'Challa sospirò. «Sarò sincero con lui, terribilmente sincero. E qualsiasi sarà la sua scelta sarà mia premura assecondarla.»

Lei lasciò intendere il suo apprezzamento per quelle parole, mentre seguiva con gli occhi il sovrano, in procinto di raggiungere la porta dell’ufficio.

«Ma prima vorrei che il suo braccio venisse ricostruito. Sarebbe un vero peccato tenere separati un uomo menomato e una protesi realizzata su misura per lui.»

Aprì la porta, tornando poi a rivolgersi alla sua assistente: «Saresti così gentile da andare a chiamarlo?»

Anisa non si mosse subito. Rimase a fissare il sovrano negli occhi, in cerca di qualcosa che potesse esserle sfuggita. Solo quando si accertò che lui era stato realmente sincero su tutto fece un cenno del capo e si mosse, uscendo dalla stanza.

 

  
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