Plic….Plic….Plic….plic...plic.
Un rumore
costante, ripetitivo,monotono.
Sempre
uguale, quasi meccanico nel suo indifferente ripetersi, eguale avvicendarsi,
come se il solo desiderio di variare di pochi, insignificanti, particolari in
modo da spezzare quella noiosa monodia in una ben più piacevole armonia, non lo
sfiorasse minimamente.
Plic…plic…plic.
Eguale…perfettamente
eguale…
Lo scorrere
del tempo scandito dall’atono sobbalzare del silenzio.
Dal suo
rapido singhiozzare.
Plic…plic…plic….cinque
secondi.
Il pulsare
di un cuore nel petto scavato dell’oscurità.
Kagome aprì
gli occhi.
Due candide
falci di luna in un luogo dove non avrebbe mai potuto brillare il sole.
Il buio
ricambiò assente il suo sguardo vigile.
Dove si
trovava?
Il freddo di
un pavimento troppo gelido per la sua pelle la fece rabbrividire appena,
tremando su di lei come una carezza rapida e pungente che la costrinse a
muovere leggermente i muscoli delle gambe e delle braccia.
Il tintinnio
di una catena ferì improvvisamente il suo fine udito come il sibilare di una
lama a pochi millimetri dal viso.
Si bloccò,
senza fiato, paralizzata da quel delicato tintinnare nell’oscurità,
ironicamente simile, per chi avesse il senso dell’umorismo, al fremente
trillare di un campanellino come quelli che si usava portare al polso come vezzoso
ornamento.
Il secco
deglutire di Kagome rabbrividì viceversa terrorizzato nel silenzio.
Dove si
trovava?
Sentì il
proprio respiro accelerare improvvisamente, il semplice trarre aria che
diventava di secondo in secondo un frenetico ingozzarsi di istanti.
Perché era
legata con delle catene?
Il gelido
presentimento del panico che, viscido risalire della coscienza, velocemente si
faceva strada dentro di lei, la costrinse suo malgrado a mordersi con violenza
il labbro inferiore, il tentativo di spergiurare la perdita di quel poco di
calma che ancora le rimaneva che, in un attimo, svaniva in quel semplice gesto.
Eppure a sua
memoria non si trovava in quel luogo…
Affatto…
Tentò,
invano, di tirarsi a sedere, le gambe che, con cedevole manchevolezza, le
suggerirono istantaneamente che non si trovava affatto nello status fisico
sufficiente per tentare una simile mossa.
Sebbene…
Parevano
essere addormentate o paralizzate.
Sebbene…
Deglutì a
vuoto.
Sebbene,
dannazione, nemmeno in quell’istante riuscisse a ricordare dove, esattamente,
si fosse trovata prima di finire in quel luogo sconosciuto.
Si impose, a
vuoto, di racimolare nuovamente un minimo di calma per ordinare ciò che ora, febbrile
convulsione, le si stava addensando di istante in istante e con sempre più foga
nella mente.
Calma.
Invincibile
torpore delle membra, il suo corpo tremò debolmente, freneticamente mentre
Kagome, Inchiodata con la faccia a terra, costretta a saggiare il molle
fradiciume della pietra, ascoltava contrita il tempestare dei battiti del suo
cuore.
Calma.
Non
importava.
Era solo
questione di attimi, di minuti.
Giusto il
tempo che la circolazione riprendesse a seguire il suo corso.
Giusto
quell’attimo per ricordarsi che, probabilmente, in quel momento quella carcassa
indolenzita giacente al suolo fosse più propensa alla vita che alla morte.
Dannazione
Kagome…calma.
Parve allora
che, lentamente, il suo respiro si regolarizzasse, la frequenza di ogni
spezzato ansito che prendeva a scivolarle con sempre meno ansiosità dalle
labbra quando, improvvisamente, come terrorizzato spezzarsi di quella
estenuante stasi, una falce di luce la colpì in pieno viso facendola sussultare
come un sudicio topo atterrito.
Accecata, la
giovane serrò istantaneamente le palpebre doloranti a schermare la debolezza
del suo sguardo sconvolto.
Sentì il
rumore di una serratura che veniva aperta e subito dopo il caratteristico clac
degli ingranaggi.
Rabbrividì,
incontrollabile debolezza dell’animo.
Stava
entrando qualcuno?
Alle sue
orecchie, imperturbabile negazione ed insieme, scongiurato assenso, giunse il rigido
cigolio delle giunture di una porta che veniva brutalmente spalancata.
Si ritrasse
appena, le braccia che risalivano tremanti al viso come alla ricerca di una
qualche forma di protezione che, suo malgrado, sembrò destare esclusivamente un
risolino divertito da parte di chi, troppo distante per essere visto, pareva
aver desistito dall’entrare in quella cella entro la quale, viceversa, qualcun
altro ora pareva soggiornare senza alcun manifesto problema.
“Ti sei svegliava a quanto vedo”
Quella
futile affermazione, dettata esclusivamente dalla necessità di palesare chi fra
i due presenti avesse il diritto di parlare e chi, viceversa, dovesse
esclusivamente attendere, scivolò gelida sulla pelle della ragazza.
Fredda,
distaccata ed inequivocabilmente, inconfondibilmente maschile.
Per un
attimo Kagome ebbe quasi il tempo di chiedersi, stupida presunzione, se questa
avesse anche potuto suonarle familiare prima che, con un fruscio ovattato, la
seconda figura si spostasse trascinando con sé, stridente cigolio, la porta
arrugginita che, poco dopo, si richiuse con un tonfo sordo.
“ Spegni la
luce”.
Il dolore
cessò di colpo, sostituito subito da un indescrivibile quanto imprevisto
sollievo.
La giovane
non potè trattenersi dal sospirare lievemente, un lungo e pesante descriversi
del sollievo che, quale formicolio all’altezza delle tempie, irradiò la propria
essenza fino alla base della schiena concedendole, poco dopo, di aprire gli
occhi.
Di nuovo,
onnipresente, avvertito ed insieme oscuro di comprensione alcuna, il buio la
avvolse.
Immobile.
Assoluto.
“ Vedi di
abituarti alla luce perché questa è l’unica volta che ti concedo un simile
trattamento di riguardo” continuò, incurante di ogni sua possibile reazione, la
voce dell’individuo, ora fattasi tagliente e vagamente canzonatoria.
Grazie
tante, uomo dall’infinita clemenza…
Senza,
tuttavia, replicare alcunché, Kagome mosse lentamente le braccia lungo i
fianchi fino a portarle ai lati del viso e facendo una lieve pressione, tentò di
sollevarsi.
Una fitta di
puro e lancinante dolore alla spalla destra la fece istantaneamente gridare con
quanto fiato aveva in gola, lacerando il silente aggregarsi del buio
all’interno della cella come acuto e stridente sgretolarsi delle mura stesse.
Incapace di
fare altro, ansimò a vuoto.
Era ferita?
Si mosse
ancora, con più cauta e rinnovata lentezza, i ricordi che, improvvisamente,
riaffioravano con violenza inaudita nella sua mente.
Ed ecco che,
di nuovo, poco dopo, un singulto di dolore, questa volta ben differente
dall’essere segregato alla sola sfera fisica, strappò l’orgogliosa resistenza
delle sue labbra.
Ecco come
era finita li.
Ecco come
mai quella spalla le doleva in quel modo…
Mio Dio…
Boccheggiò,
tentando invano di arginare quella nuova ondata di panico che minacciava questa
volta di travolgerla senza pietà alcuna,
gli occhi che andavano ingenuamente a serrarsi nell’inutile tentativo di
fermare l’inarrestabile avanzare della realtà attraverso di essi.
Invano.
Stupidamente,
scioccamente, assurdamente, invano.
Invano
attaccare nel bel mezzo della battaglia per approfittare della possibile, per
quanto remota, distrazione di entrambi i principi impegnati sul campo.
Invano
presupporre che addestramento e disciplina avrebbero potuto ovviare laddove la
potenza e agilità demoniaca non sembrano avere eguali.
Irrimediabilmente,
inconfutabilmente, irriducibilmente, invano.
Si morse un
labbro, il corpo che ora tremava dello spasimante imperversare del rimorso per
poi, fiera resistenza, determinata forza, tirarsi con un gemito sommesso a
sedere.
Venne colta
da un capogiro, le lacrime annidate negli occhi fieri che minacciavano da un
momento all’altro di valicare quella strenua barriera posta fra sentimento
umano e dovere guerriero.
Fra
resistenza e abbandono che, assolutamente, ella non poteva permettersi di
mostrare all’individuo che ora soggiornava con lei in quella cella.
“ Vedo che
ti sei ripresa…” soggiunse infatti quello subito dopo, come accorgendosi della
ritrovata “calma” ora a forza calata su di lei.
La ferita
procuratagli dagli artigli affilati di Inuyasha pulsava vividamente sulla sua
spalla destra.
“ Si…”
rispose con pacata diffidenza lei, il fiato che si accorciava di un poco nella
volontà di arginare il dolore “Mi avete curato voi?”si azzardò poco dopo a
continuare.
“ Si ”
Silenzio.
Il costante
gocciolio dell’acqua colmò quei secondi di tragica immobilità, sospesi nella
volontà di aggiungere altro e, insieme, nel timore di farlo.
”Perché?”
Irriducibile,
la curiosità prese nuovamente il posto di quel ritenuto ammutolire.
“ Ti
interessa veramente saperlo?”
Infame
raggiro.
“Si ” una
pausa, il tono che si tendeva di improvviso nervosismo “ Mi interessa”
Un lieve
ghigno sibilò cauto nel buio, rabbrividendo sulla gelida pelle di Kagome.
“ Perché? ”
Ed
improvvisamente, la rivelazione, il palesarsi di quella comprensione oltre la
quale ognuno sa di non poter mai più contare sulla dolce e confortevole
ignoranza propria di chi è ancora in grado di sentirsi al sicuro, di non temere
per il semplice fatto di avere “capito” di essere “cosciente” di quanto,
talvolta, la vita possa essere gretta, meschina e perfino crudele con coloro i
quali, anche solo per un attimo, hanno osato bearsi dell’infernale culla dell’inconsapevolezza.
“ Chi sei?”
Da qualche
parte nell’ombra risuonò allora una beffarda risata, una di quelle risate a
denti stretti che si fermano nella gola risuonando così gelide e prive di
calore.
“Finalmente…”gelido
palesarsi di una voce ora sgretolatasi di gentilezza alcuna, di un garbo
qualunque “Mi chiedevo quanto avresti tardato a farmi questa domanda, umana”
Tragica, la
succube ovvietà di quella affermazione si riversò implacabile sull’ora immobile
staticità di Kagome, sospesa a metà fra la difficile espressione di un respiro
e di un singulto.
Ciò che
risultò, tuttavia, fu solo e semplicemente un tremulo sospiro che, manchevole
debolezza, parve spezzarsi subito dopo nell’implacabile imperversare
dell’oscurità, mortale sottrarsi della realtà.
Un leggero
fruscio di stoffa giunse alle orecchie della ragazza e un secondo dopo qualcosa
le sfiorò il viso.
Si ritrasse
con uno scatto così improvviso che il dolore le fece letteralmente esplodere
una miriade di scintille davanti agli occhi prima che quel contatto,
trasformatosi istantaneamente in una feroce e implacabile presa al volto, non
la sbattesse con furia animale contro la parete alle sue spalle.
La lacerante
fitta alla spalla che ne seguì le strappò un altro gemito stridulo che, suo
malgrado, la mano che era poco prima calata su di lei le impedì di esprimere
serrandole violentemente le labbra.
“Zitta” fu
il gelido avvertimento.
Uno squittio
terrorizzato, banale compromesso fra dolore e panico, venne inghiottito
recalcitrante dalla giovane.
“Zitta…”
ripetè ancora questi, questa volta quasi in un sussurro ora tanto vicino a lei
da consentirle quasi di cogliere fra una sillaba e l’altra il denso calore di
un respiro vagamente accelerato.
In un muto
assenso, in un flebile per quanto immobile annuire, Kagome non potè far altro
che abbandonare lievemente la testa all’indietro rilassando il capo e il corpo
a quel senso di mortale debolezza che, insito nelle sue vene come fiele
implacabile, minacciava ora di farle perdere i sensi.
Probabilmente
aveva perso molto sangue, valutò avvertendo la propria respirazione, ora ridotta
ad un roco e stopposo ansimare, tremarle congestionata nei polmoni per poi
filtrare debole fra quelle dita ancora strette su di lei.
Sentì i
vestiti che indossava inzupparsi d’acqua gelida, percorrerle il petto,
scivolarle fra i seni, scorrerle sulla pancia per poi, insostenibile invadenza,
insinuarsi fra le sue cosce come una lasciva carezza, morbosa di un’oscenità
dettata dalla semplice consapevolezza che ora, nell’oscurità, Kagome sapeva che
uno sguardo poteva seguire quel lento ed inesorabile tragitto su di lei.
Rabbrividì,
la vergogna che la obbligava a portarsi imbarazzata le braccia al petto in un
vano tentativo di sottrarsi ad un tale osservare che, tuttavia, l’uomo non le risparmiò
afferrandola viceversa per entrambi i polsi che lasciò lì, a mezz’aria, futile
barriera fra i loro corpi ora strettamente vicini.
Il lieve
tintinnio delle catene che ancora trattenevano in quel luogo Kagome risuonò
soave nel silenzio, facendo come da eco al nuovo, sibillino, ghigno sardonico
di quell’individuo.
“ Quando
ottengo un trofeo mi piace guardarlo, ragazzina” fu la sommaria spiegazione
mentre questi, lentamente, come sfidandola a reagire, le liberava i polsi per
poi cominciare a risalirle con la punta delle dita, seducente indolenza, il
tremante profilo del braccio sinistro.
La giovane si
gelò.
“ Mi piace
ammirarlo, rimirarlo e compiacermi di averlo finalmente ottenuto dopo tanto
tempo passato nella contemplazione della brama di poterlo finalmente possedere
”
Le dita
appena tiepide e decisamente umane percorsero il profilo del suo avambraccio,
sfiorarono appena la gentile prominenza delle clavicole per poi saggiare con
studiata lentezza la debole dolenza del collo teso, solo vagamente scosso dal
ritmico pulsare delle vene sotto la pelle alabastro.
“ E più
l’impresa è stata ardua, più la meta è sembrata irraggiungibile, più questo
acquista valore ai miei occhi”
Scese
ancora, fatale fiacchezza a circondare le spalle sottili.
“Più diventa
necessario l’accertarmi che mi appartenga ora, di diritto”
Improvvisamente
Kagome urlò di dolore.
Qualcosa di
affilato le si era conficcato nella carne.
Unghie.
La figura
nell’oscurità rise malignamente, divertita.
Spezzato, il
respiro le si condensò in una densa bolla nella gola, il collo che si tendeva convulsamente
all’indietro nell’inafferrabile gesto di ignorare quel inatteso dolore
mostrando indifesa la pelle nuda, illividita dal gelido trasalire di nervi e
legamenti.
“ Sei tu…maledetto” fu la stridente replica
della ragazza la cui voce, nodoso aggrovigliarsi di parole, rovinò dura nel
nero catrame di quella cella.
Lui.
Si sentì
quasi spezzare il fiato, il capo che, insostenibile tortura, andava ora a
piegarsi in avanti, rigido, come sporco appassire di un petalo troppo bello per
resistere all’incedere dell’ardente infiammarsi della morte.
Come la
povera bestia che, soffocata dalle fauci della belva serrate attorno alla
trachea, abbandoni allora ogni resistenza lasciando che la testa ricada,
dolente, verso il basso, umile pendolo morente.
Lui.
Lui ed
esclusivamente Lui, sua vittima, sua preda, suo trofeo mancato e tanto agognato
da divenire dapprima turbamento, poi
mania, dunque ossessione ed infine maledetto tormento.
Lui, il
frutto di una caccia forse troppo a lungo meditata.
Forse troppo
ghiottamente e ingenuamente pregustata così da dimenticare che prima di
prendere la mira e, sapientemente, scoccare la freccia, si doveva portare con
sé l’arco a tracolla, i dardi nella faretra e il cuore nella bisaccia, chiuso
laddove non potesse mai prendere aria e respirare, forse per un secondo, il
profumo della bestia braccata.
Lui.
Inuyasha.
Preda
sfiancata ora divenuto atroce carnefice.
Ed eccomi ritornataXD
Inutile chiedere scusa per l'assenza (Durata ben due anni cavoloT___T) ma fra mancanza di ispirazione
e altri impegni mi sono ritrovata a non volere e potere più continuare questo racconto...
Si tratta, come avrete già capito,
solo di una piccola parte...giusto per ritrovarmi dopo tanto tempo, ma prometto
che presto continuerò a postare come si deve^^'
Un bacio a tutti.