Ho bisogno di parlarti. Puoi raggiungermi? Sono
a casa. MH
Molly
guarda lo schermo spento del cellulare nella sua mano. La notte è piena di
spifferi, il baby monitor poggiato sul banco da lavoro della cucina è silenzioso, segno
che Rosie dorme tranquilla nella camera per gli ospiti che lei ha riadattato a
nursery. Tutto tace all’interno dell’appartamento pulito e ordinato. Quell’assenza
di caos visibile, quell’atmosfera di pace rarefatta stride tanto più intensamente
con il fermento dei propri pensieri, il tumulto delle emozioni che la stanno
divorando dall’interno. Sente gli occhi bruciare e una sensazione di occlusione
alla gola. Vorrebbe scappare e allo stesso tempo non vorrebbe essere in nessun
altro posto. Ha già provato una sensazione simile in passato. Una volta, molti
anni fa, quando ha ucciso un uomo per salvargli la vita.
Un
ronzio - la vibrazione che accompagna l’arrivo di un sms – le fa riaprire gli
occhi di scatto. Molly non fa in tempo a digitare il codice di accesso che il
telefono vibra di nuovo tra le sue mani – una, due, tre volte. Sulla schermata
compaiono le anteprime di una sfilza di messaggi inviati in rapida successione
dallo stesso numero, dalla stessa persona.
State bene? SH
Sto arrivando. SH
Molly
scoppia in una piccola risata incredula, mentre legge rapidamente gli altri che
seguono, il tono dei messaggi via via più agitato. Può immaginarselo, a
Baker Street. Scendere di volata le rampe di scale, appendere la vestaglia di
turno all’appendiabiti e infilarsi il Belstaff come un cavaliere che indossi la
sua armatura prima di scendere in battaglia. Può immaginarlo mentre chiama un
taxi, anzi no, comincia a incamminarsi e intanto vaglia le opzioni con quella
sua mente iperbolica: decide che no, è troppo tardi per prendere la
metropolitana e che, tutto sommato, è preferibile raggiungere a piedi il suo appartamento.
Quindici minuti, in fondo, non sono così tanti da –
Qualcuno
sta bussando alla porta. Molly aggrotta le sopracciglia, confusa. Non
sono passati che un paio di minuti. E’ impossibile, logisticamente, che
Sherlock sia già lì. A meno che –
Oh. Oh, cielo.
A meno che.
It is what it is.
Sherlock
staziona nel suo soggiorno, occhieggiando con aria inscrutabile la visuale
aperta sulla cucina. Inscrutabile per chiunque altro. Non per lei, che sa, che
ricorda. (Una brutta giornata. Una telefonata che l’ha soltanto peggiorata. Una
confessione strappata con dolore.)
Perfetto, pensa e poggia con
appena più forza del necessario le tazze di tè sul tavolino.
Gli
occhi di Sherlock sono catalizzati dal rumore, dalla sua presenza e riacquistano
uno spessore che le deduzioni – i ricordi – di solito hanno il potere di
affievolire.
“Non
dovevi accorrere così,” gli dice.
Sherlock
non sembra capire. E’ quasi divertente notare il capovolgimento dei ruoli: un
tempo lui era in grado di mettere a nudo ogni suo desiderio, pensiero, azione.
Lei ha imparato a fare altrettanto, solo che la sua attenzione si sofferma sui
sentimenti – le minuscole avvisaglie dietro le espressioni morbide che lui si
concede.
“Il
tuo caso,” lei spiega con pazienza. “Quello che stavi seguendo. Avrei potuto
aspettare. Non era necessario che ti precipitassi qui.”
La
confusione di lui, ora, è palpabile; si trasforma in sconcerto. Si concede un
attimo per fissarla con una sorta di disorientato stupore e con quell’aria il
cui significato implicito è un’accusa alla sua intelligenza, prima di scrollare
la testa. ‘Non essere assurda, Molly’, sembra dire. “Non era niente di
importante,” lui risponde e senza guardarla direttamente negli occhi, tra un
sorso e l’altro di tè, borbotta ‘la Venerabile Compagnia dei Macellai’ e ‘neppure
un nove pieno’ e ‘se ne stanno occupando John e Lestrade, il che non è un’assicurazione,
ma…’.
Le
sue deduzioni erano errate e soffiando via il vapore dal bordo della sua tazza, Molly evince
dall’aspetto di lui quello che Sherlock osserverebbe, ma non vedrebbe. Non ci
vuole un occhio clinico per notare il sollievo palpabile sul suo viso allungato.
Lei lo aveva già intuito dal sospiro impercettibile che gli ha lasciato le
labbra quando gli ha aperto la porta, dalla maniera febbrile in cui il suo
sguardo ha passato in rassegna l’ambiente. Lo ha visto e gli ha concesso un
attimo per riprendere il controllo. Gli ha offerto del tè. E ora sono in piedi,
di fronte al suo camino, mentre evitano con cura di rivolgersi la parola o di
scambiarsi un’occhiata più approfondita.
[Le piacerebbe dirgli che non deve sentirsi a
disagio o in imbarazzo. Vorrebbe rassicurarlo sul fatto che il loro rapporto
non sia stato compromesso né danneggiato. Sì, qualcosa si è incrinato, ma non
in maniera irreparabile. Vorrebbe dirgli che non occorrono scuse, si conoscono
da dieci anni – Dio! Un terzo della sua vita – e hanno superato da tempo quella fase. Vorrebbe spiegargli che non
deve sentirsi in colpa, ha fatto quello che doveva, le ha salvato la vita.
Ma non è quello il
motivo per cui l’ha chiamato nel cuore della notte.]
“Dobbiamo
parlare,” lei dice, stringendo le labbra. “Il motivo per cui ti ho chiesto di
venire riguarda Rosie.”
*
Lui
è curvato sopra la culla e la osserva riposare. Rosie dorme, ignara del
turbamento che alberga nel cuore della sua madrina e, in buona parte, in quello
del suo padrino.
Quando
ha annunciato la novità a Sherlock, lui non ha reagito come lei si era
aspettata. Non c’era rabbia nei suoi occhi, ma una tristezza così penetrante
che le ha spezzato il cuore.
“Non è colpa tua,” le ha detto con gentilezza e anche
se a livello conscio Molly riconosce la natura veritiera della sua
rassicurazione, a livello inconscio non può evitare di provare ciò che le
gonfia il petto e le stringe lo stomaco.
Non
è colpa sua, ripete a sé stessa. Non è colpa sua. Eppure è così ingiusto, così
crudele che Rosie l’abbia chiamata ‘mamma’. E ciò che è ancora più disonesto è
che lei, in realtà –
Sherlock
sfiora con il pollice la fronte di Rosie, le scosta con delicatezza un ricciolo
e le lacrime che Molly ha trattenuto fino a quel momento le inondano gli occhi
e si riversano sulle guance.
Quando
lui si volta con un’espressione di insostenibile tormento – il lutto di Mary
che si riaffaccia come un oggetto riesumato dal fondo del mare, la privazione
che ne consegue come una sindrome dell’arto fantasma -, lei si sposta al suo
fianco. Cerca la sua mano e quando la trova, lui la stringe di rimando. La sua
stretta è calda e incoraggiante.
“Le
cose stanno così,” lo sente mormorare ad un certo punto e quando solleva la
testa, scopre che lui la sta fissando.
“Sua
madre è morta. Lei non dovrebbe –" si morde il labbro inferiore. "Non è giusto.”
“Non
è giusto, ma non puoi cambiare la realtà dei fatti. Nessuno può. Non è come
funziona il mondo. Non sei sua madre, Molly, ma lo sei diventata. Rosamund ti
ha scelto, Mary ti ha scelto.”
Molly
asciuga rabbiosamente le lacrime con il dorso della mano. “Ero felice,” dice
con aria di provocazione, quasi sfidandolo a guardarla con disgusto e repulsione.
“Prima di ricordarmi di Mary, per un attimo, quando mi ha chiamato ‘mamma’,
sono stata felice.” Questo fa di lei una pessima persona? Non necessariamente,
ma comunque rimane penoso e spiacevole.
Sherlock
sfrega un dito sulla sua guancia umida, nella penombra della stanza il suo
viso è una maschera di rifrazioni e sentimenti contrastanti: affetto, compassione,
infelicità, inquietudine, mestizia. “Siamo quello che siamo, Molly Hooper.”
“E
cosa siamo, esattamente?”
Lui
si china per sfiorarle la tempia con le labbra, in un bacio che lenisce il dolore
e lo guarisce, al contempo. La sua mano si sposta dietro la nuca, la sorregge. “Umani.”
Schiantata
dal peso liberatorio delle sue parole, Molly poggia la fronte contro la sua
spalla. “Non è spaventoso?” domanda.
Lui
le accarezza i capelli, il suo tono è distante e ricco, contemplativo. “Non
come temevo.”
Senza
che nessuno dei due aggiunga altro, rimangono vicini, abbastanza da scaldarsi a
vicenda e sfiorarsi, da dare l’impressione che, insieme, forse, forse quel peso possa diventare quasi
sopportabile, inverosimilmente più facile da portare.
N/A:
Una
sciocchezza scritta di getto, mentre scrivevo tutt’altro, come al solito (anticipazioni:
una What if in cui Molly non dice ‘Ti amo’, ma ‘Non posso’, la linea viene
interrotta e il povero Sherlock pensa che lei sia morta fino alla risoluzione
del caso, ovvero l’arrivo di Lestrade). Abbastanza triste, come piace a me, ma
non in quel modo insopportabile che toglie il respiro o almeno lo spero!
Ragazze,
ne approfitto per ringraziarvi. Siete dei portenti, argute e divertenti, ogni
vostro commento mi regala un po’ di luce nei momenti di stanchezza e mi sprona
a scrivere, anche se è un periodo in cui il lavoro mi sta uccidendo (una
battuta alla Molly. Il lavoro è un mortorio xD). Ritaglio il tempo per scrivere
nei brevi momenti che ho a mia disposizione: mentre prendo il treno la mattina
presto, nel tragitto fino alla stazione, aspettando l’arrivo del pullman,
facendo la spesa, a letto quando il sonno tarda ad arrivare e registro intere
conversazioni inventate, imitando le voci sul mio cellulare (lo so, sono pazza)
e mia sorella puntualmente mi getta cuscini e cose meno morbide addosso perché faccio
baccano.
Perciò,
per tornare al punto focale, nel caso in cui le mie digressioni lo avessero
reso confusionario e poco chiaro, lo riscrivo: GRAZIE. Grazie per l’attenzione
che mi dedicate, per le vostre parole di supporto, perché mi fate sentire
speciale e mi riservate il grande onore della vostra fiducia, dei vostri
apprezzamenti. Non vi conosco personalmente, con alcune ormai sono anni che ci ‘leggiamo’
reciprocamente, di recensione in recensione, e sono arrivata almeno un po’ ad
avere un’idea delle persone amabili e simpatiche che sono, non vi conosco nella
vita reale, ma di una cosa sono certa: se tutte amiamo Molly Hooper, se abbiamo
anche un briciolo del gran cuore di questo personaggio meraviglioso, allora
qualcosa ci accomuna e se sentiamo di assomigliarle, allora il mondo è
fortunato ad avervi. Un abbraccio fortissimo :)