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Autore: Roberto_Yoda    02/06/2009    1 recensioni
Un ultimo addio tra vittima e carnefice. Nei capitoli successivi a quelli della vicenda di Hitomiko, Naraku riceve una visita da un fantasma del passato, rivive eventi da tempo trascorsi ...
Genere: Dark, Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Inuyasha, Kikyo, Naraku
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Glossario

Glossario.

Gempuku: nel Giappone antico, un bambino diventava adulto compiuti i sedici anni. Al sedicesimo compleanno, nobili e samurai procedevano alla cerimonia del gempuku, durante la quale, tra le altre cose, il nuovo adulto cambiava il proprio nome.

Wakizashi: spada corta usata di solito dai viaggiatori, in quanto la katana è arma riservata ai samurai.

 

 

Lo specchio di Kanna mostra a un compiaciuto Naraku l’immagine di Kikyou che prende in consegna la ciocca dei capelli di Kansuke.

 

“Dunque, è stato un bene che abbia deciso di vegliare e proteggere Rasetsu per tutti questi anni, alimentando la sua vita e permettendogli di sopravvivere fino a oggi. Credevo che fosse un mero capriccio, sdebitarmi realizzando i desideri del suo confuso cuore. Ma forse sapevo che mi sarebbe potuto tornare utile, un giorno o l’altro.

 

Una risata arcana ed echeggiante risuona lungo le volte di pietra.

 

Lo sguardo vuoto di Kanna è posato su di lui.

La sua primogenita. L’unica a poterlo vedere in tutte le sue guise senza tema di impazzire.

 

“Crudele. Malvagio. Sai che c’è chi mi definisce così, figlia mia?”

 

“Sì.” Kanna risponde meccanicamente, con la sua voce neutra e spoglia di qualsiasi inflessione.

 

“Tu pensi che sia malvagio, Kanna?”

 

“No.”

 

“Bene. Anche se sai, vero, che ti ho creata di proposito priva di bisogni, desideri e volontà. Dimmi, Kanna, rimpiangi mai qualcuna di queste cose?”

 

“No.” Il vuoto uniforme negli occhi di Kanna non conosce né lampi né mutamenti, come non ne ha mai conosciuti da quando è nata.

 

“Certo. Tu non rimpiangi nulla. Né avrebbe senso, perché è possibile rimpiangere solo ciò che si è perduto, e non quel che non si ha mai avuto.”

“Ah, figlia mia. A volte ti invidio. Sai perché ti ho creata così come sei, Kanna?”

 

“Per servire il mio scopo.” Risponde l’emanazione.

 

“Sì. Ma sai anche che tutti i tuoi fratelli e sorelle sono diversi da te. Capisci il motivo di questa differenza?”

 

Kanna annuisce; la testa oscilla come quella di un burattino il cui filo viene strattonato su e giù.

 

“Io sono la prima. Ognuno degli altri, ti serve a suo modo. Servono i tuoi scopi, mentre credono di servire i propri. Seguono la strada che hai tracciato per loro, mentre credono di seguire la loro propria strada. I loro bisogni sono bisogni che tu hai scelto per loro, affinché questi diano loro una forza che altrimenti non avrebbero. E affinché tu, padre, possa apprendere quel che ti è necessario conoscere.

“Come ad esempio, il modo per imprigionare la miko morta.

“Quando lo scopo dei miei fratelli sarà esaurito, li getterai come bambole non più utili.

“Lo stesso farai con me. Io però sono l’unica, fra tutti loro, a saperlo. E questo poiché sono l’unica a cui saperlo non serve a nulla. Io che sono senza volontà, desideri, bisogni.

 

Un artiglio fatto di robusta cartilagine e dotato di molte nocche e giunture si protende verso il volto inespressivo di Kanna, arrestandosi ad alcuni centimetri dalla sua testa.

 

Kanna resta immobile. L’artiglio trema appena, come se volesse toccarle la fronte ma non osasse farlo.

 

Sei molto intelligente, figlia mia. Hai capito anche qual è il tuo scopo?”

 

“Servo molti scopi.”

 

Il tremore dell’artiglio aumenta. La voce distorta di Naraku esita.

 

Cosa si prova, Kanna? Privi di bisogni e desideri. Cosa resta?”

 

“Nulla. Il vuoto.”

 

“Niente?”

 

“Niente che possa spaventare. Niente che possa ostacolare lo scopo per il quale si esiste. Niente. Non c’è nulla di cui avere paura, padre.

 

Ondate di furore scottano la pelle bianca come neve di Kanna; senza lasciarvi segno.

 

“Io non temo nulla, Kanna.”

 

“Certo. Nulla. Niente. Perdonatemi, padre.” Ma non c’è nella voce di Kanna, né preoccupazione al pensiero di una possibile punizione, né autentica contrizione.

 

Il silenzio si allunga. Nessun suono e movimento li disturbano. Anche il tempo pare bandito da questo luogo.

 

“Sì, c’è chi mi definisce malvagio, Kanna. C’è chi mi definisce crudele. Non è così.

“Tu mi definiresti così, Kikyou? Mia nemesi? Giacché ti ho imprigionata nei tuoi stessi incubi, e ora sono io a guidare i passi che ti porteranno da me?”

Ebbene, sappi che anch’io affronterò il mio incubo, proprio come te. E scopriremo così chi di noi due è il più forte. Perciò, quando ti distruggerò non potrai accusarmi di alcuna disonestà.”

“Preparati, Kanna.”

 

“Sì.”

 

“Tu sei il vuoto, Kanna. Ma quando io avrò sconfitto e sradicato il kokoro di Onigumo, con le sue passioni e i suoi bisogni, non sarò vuoto. No.”

“E l’arma che userò contro i due fantasmi che mi perseguitano, non è altro che l’architrave, il perno e la chiave di volta della mia intera esistenza.”

“La mia volontà.”

“Metti a fuoco lo specchio.”

 

“Sì, Naraku.” Le immagini di Kikyou svaniscono dallo specchio, sostituite dal riflesso di un corpo assurdo e inconcepibile.

 

La coscienza di Naraku si assottiglia poco a poco, abbandonandosi alle misteriose correnti della sua mente.

 

E’ come fluttuare, galleggiare, perdersi, in una oscurità talmente buia da essere ben oltre il nero.

 

A Naraku pare di volare in direzioni ignote, privo di corpo e di sostanza – solo pensiero. Non è affatto una sensazione sgradita. Anzi.

 

Dopo un tempo imprecisato – minuti o settimane, nessuno può saperlo – avverte come un urto che dalle piante dei piedi si propaga lungo le sue gambe arrampicandosi su per la schiena, fino alla nuca.

 

Gambe? Schiena? Nuca?

 

Una luce sfolgorante lo aggredisce accecandolo, per poi farsi fioca e soffusa.

 

Appena riprende il controllo della propria vista, si sforza di guardare in ogni direzione contemporaneamente.

 

Sa benissimo che quel che gli si presenta è solo una proiezione – illusoria, ma al tempo stesso assai concreta – della sua stessa mente. Ma è così, maestosa. E’ proprio come l’ha sempre immaginata.

 

E’ al centro di una enorme piazza quadrata lastricata in alabastro, delimitata da svettanti palazzi di pietra tutti uguali; privi di finestre e altri pertugi. Monolitiche costruzioni le cui cime si perdono in un cielo senza sole, né stelle né luna, pervaso da un lucore morbido che pare quello di un tramonto.

Non c’è nulla a spezzare l’uniforme precisione di questa piazza. Naraku tende l’orecchio, annusa. Nulla.

Dà un’occhiata fugace al suo corpo – nient’altro che la manifestazione della sua coscienza e volontà.

E’ nudo, in forma umana, e pulsa di luce propria.

 

Riporta l’attenzione allo spettacolo che gli si presenta, e si incammina – sgomento per quanto gli è consentito dalla sua natura – a esplorare la città.

 

Imbocca una della otto strade, tutte uguali, che escono dalla piazza.

Per un certo periodo di tempo si limita a camminare, sforzandosi di cogliere e memorizzare ogni possibile dettaglio. Gli edifici ai lati della strada, in pietra, in luccicante mica oppure in basalto, diventano progressivamente meno alti e assumono le forme più svariate – a pianta rettangolare e circolare, soprattutto; ma non mancano architetture più strane, alcune delle quali seguono geometrie ignote al mondo a cui Naraku appartiene.

 

Strade si biforcano di tanto in tanto, lastricate nei più svariati materiali, dalla scura ardesia al marmo bianco, alcune diritte e altre tutte curve e volute.

 

Naraku si riscuote dalla strana malia che lo sta cogliendo. Potrebbe aggirarsi per queste strade in eterno; e questo è un pericolo concreto. Proprio come Kikyou, corre il rischio di smarrirsi per sempre, lasciando che i sentieri della sua mente lo conducano in contrade dalle quali non c’è più ritorno. In questo non-luogo, la sua stessa curiosità può diventare la sua peggiore nemica.

 

Arresta i suoi passi. E’ circondato da case basse e scure, le cui mura sono decrepite, rovinate come la pavimentazione sconnessa. Alcuni palazzi hanno delle finestre – e sono i primi nei quali si imbatte ad avere questa caratteristica.

Con un brivido, capisce che l’istinto – o qualcosa di simile – l’ha sospinto dove serviva.

 

Chiude gli occhi. Tende l’orecchio.

 

Ticchettii lievi, appena accennati. Simili a piccole punte metalliche che battono sulla pietra.

 

Il suono si ripete. Tenendo gli occhi chiusi, Naraku si muove nella sua direzione.

 

Silenzio improvviso. Naraku solleva le palpebre e, fluido e rapido, raggiunge l’edificio più tozzo e brutto tra quelli che gli stanno accanto. Sbircia da una delle finestre e alla fine, dopo molti anni, lo vede.

 

Il Ragno è grosso; delle dimensioni di un cane di grande taglia. E brutto, perfino più di quanto ricordasse. Le zampe sono deformi, i grappoli rossi dei suoi occhi luccicano nell’oscurità, il ventre ingrossato striscia a terra, pungiglione e mandibole grondano veleno.

 

Naraku e il sembiante del kokoro di Onigumo restano a fissarsi per un eterno secondo. Poi il Ragno si volta senza un verso o un grugnito e fugge nell’oscurità dell’edificio.

 

Naraku non esita. Poggia la mano incorporea sulla parete della casa, che si fende con precisione in due, spaccandosi e permettendogli di entrare. Una fitta di dolore liquido gli sferza le tempie.

Così come modella e riforma il suo corpo, adesso sta facendo la stessa cosa alla sua mente, al suo cuore e alla sua anima. Lui, che ha il dominio dell’architettura di questa città.

Oh, ma deve stare attento, terribilmente attento. Commettere anche un solo passo falso durante questo inseguimento, potrebbe significare per lui un destino peggiore della morte.

 

Reprimendo un brivido, Naraku si getta nella tenebra dell’edificio, inseguendo il suono metallico degli artigli del Ragno.

 

Una forza ignota lo afferra e viene gettato in frammenti di ricordi d’incubo.

 

 

 

Uno dei ciocchi di legno che alimentano il fuoco da campo si spacca vomitando scintille, e lo costringe a stringere con fastidio le palpebre.

 

Prende uno degli spiedi su cui sta arrostendo la striscia di carne di cervo e affonda i denti soddisfatto, il grasso gli cola sul mento, mentre le sue narici sono piacevolmente solleticate dal lieve odore di bruciato del legno.

In pochi morsi ha finito, e il calore del cibo bollente gli incendia lo stomaco. Allunga la mano, ignorando la fitta fastidiosa che ne segue, per prendere altra carne.

 

Il vecchio dall’altra parte del falò, seduto a gambe incrociate come lui, ride, masticando assai più piano coi pochi denti che gli rimangono.

 

“Via, via! Oggi è il tuo compleanno! Puoi mangiare quanto vuoi; non c’è bisogno di affrettarsi. Il sedicesimo compleanno è importante. Viene una sola volta nella vita. Sei diventato un uomo! Perfino noi, briganti, feccia della società, teniamo in considerazione questo giorno. Certo, non siamo samurai. Non facciamo cerimonie …”

 

“I samurai cambiano il loro nome quando compiono i sedici anni, giusto, vecchio?”

 

Il vecchio si azzittisce e annuisce. “Sì. E’ così. Durante la cerimonia del gempuku.”

 

“Bene. Ci ho pensato a lungo e ho deciso di cambiare anch’io il mio nome, vecchio. Non capisco perché debbano poterlo fare solo loro.

 

Il vecchio scoppia a ridere. “Cambiarti il nome!? Tu!? Non stai sollevando troppo la testa? Avanti. Sono proprio curioso. A che nome hai mai pensato? Sentiamo!”

 

“Da oggi in avanti ho deciso che il mio nome sarà, Onigumo. Mi piace! Cosa ne pensi, vecchio?”

 

Mmm. Onigumo, eh? Ti dirò cosa ne penso, quando ti deciderai a chiamare me per nome, una buona volta. Mi sembra un accordo onesto, che ne dici? … Onigumo.”

 

Onigumo ridacchia. Lui e il vecchio si conoscono da anni. Lui sa che non è abituato a chiamare le persone per nome. Farlo non gli piace, lo trova … sbagliato.

 

Il vecchio lo aveva trovato tanto tempo prima. Anche se era poco più di un bambino – aveva nove anni – ricorda bene le circostanze.

 

Il villaggio era stato assalito da una banda molto numerosa di briganti. E lui era sopravvissuto grazie a sua madre; anche se non per le ragioni che si potrebbero immaginare, oh no.

 

Sbagliato. Così come aveva sempre avuto la sensazione che fosse sbagliato chiamare le persone per nome, così sentiva di essere in un posto sbagliato. Sbagliato in che senso, non sapeva. Ma restava in lui un disagio che lo abbandonava di rado.

Un bambino strano. Non che nel villaggio qualcuno fosse così maleducato da dirlo in faccia a sua madre, ma lui sapeva che tutti lo pensavano.

C’era qualcosa, nel suo sguardo fangoso, nel suo fare brusco, nel modo in cui sorrideva, che innervosiva chi gli stava attorno. Si era accorto che suo padre, a volte, lo fissava in un modo strano, troppo intenso. Non gli piaceva essere fissato così. Non gli piaceva affatto.

Ma poi suo padre se n’era andato, morto per una febbre che non aveva lasciato scampo. Ne era stato contento. Ora era lui l’uomo di casa, il fratello maggiore.

A soli sette anni, le sue due sorelle e suo fratello minore erano terrorizzati da lui. Non li picchiava neppure tanto spesso, ma … bastava. Già.

Sua madre lo puniva sempre con severità, quando alzava le mani su di loro, ma lui se ne era accorto. Anche lei cominciava ad avere paura. La vedeva rabbrividire alle sue occhiate, e tremare anche più forte, quando le chiedeva con aria innocente se ci fosse qualcosa che non andava. Ne rideva di nascosto.

 

La notte della venuta dei briganti, la prima cosa di cui sua madre si era preoccupata era stata trovare un rifugio per loro – per tutti loro. Ma quando, dopo averli nascosti in una stalla, aveva fatto per andarsene, i suoi fratelli avevano cominciato a piangere per la paura. Sua madre si era voltata per confortarli, e un lampo d’intesa era scoccato tra loro.

Entrambi avevano capito che stavano piangendo per paura di lui. Che non volevano essere lasciati soli con lui. Costernata, e solo a pochi passi dal completo panico, sua madre gli aveva ordinato di seguirla. Lui aveva ubbidito e aveva subito sentito i singhiozzi di suo fratello e delle sue sorelle acquietarsi.

 

Avrebbe potuto far notare a quella stupida di sua madre che non era una grande idea lasciarli nascosti in una stalla piena di paglia, vista l’abitudine dei banditi di dare fuoco ai villaggi presi d’assalto, ma poi aveva deciso di stare zitto. Chissà che faccia avrebbe fatto sua madre davanti ai corpicini carbonizzati dei suoi fratelli? Scoprirlo sarebbe stato divertente. Già.

E ci sarebbe stata qualche bocca in meno da sfamare, in famiglia.

Giacché, in ogni caso, lui era certo di poter sopravvivere.

 

I briganti erano arrivati poco dopo. Lui si era sottratto alla morbida mano di sua madre ed era scappato. Lei sembrava appannata, come se non sapesse più cosa fare, o dove si trovava. Aveva capito che, se fosse rimasto con lei, la sorte non gli avrebbe arriso.

 

Non l’aveva rivista più.

 

Si era nascosto poco fuori del villaggio, in quella vecchia tana di volpi abbandonata da tempo, che aveva scoperto quando era più piccolo e nella quale ormai entrava solo con gran fatica, spremendo e contorcendo il suo corpo magro.

 

Per tutta la notte e l’alba seguente, aveva udito le grida degli uomini e delle donne. Gente che conosceva. Gente che era andata a dormire la sera senza immaginare che ci sarebbe stata la morte ad attenderli solo poche ore dopo.

 

Quando il baccano e gli urli di agonia erano scemati fino a svanire del tutto, portati via, così gli era parso, dal rumore degli zoccoli dei cavalli che si allontanavano, era uscito dal nascondiglio e si era incamminato lungo le strade polverose.

 

Tanti edifici, tra i quali la stalla in cui i suoi fratelli si erano nascosti, erano bruciati.

 

Ecco. Lo sapevo, io! Stupida donna! Avresti dovuto capirlo da te.

 

Le strade erano piene di cianfrusaglie, suppellettili, rottami, e cadaveri. Aveva riconosciuto molte persone. Parevano così diverse, da morte. Che strano! Questa scoperta l’aveva fatto ridere.

 

Si era accorto che era bello essere lì, riempirsi le narici dell’odore del sangue che impregnava l’aria, godere del silenzio che seguiva la battaglia, essere vivo. Aveva impiegato un po’ per capire cos’era la sensazione che provava.

Nel bel mezzo del villaggio distrutto, circondato da cadaveri, per la prima volta nella sua giovane vita, aveva pensato: sono a casa.

 

 

Solo pochi giorni dopo, il vecchio lo aveva trovato. Lui era restato nei paraggi del villaggio, dove c’era un poco di cibo, e acqua in abbondanza. I morti cominciavano a puzzare terribilmente.

 

Il vecchio lo aveva visto. Lui non era fuggito. Gli aveva fatto cenno di seguirlo, e lui lo aveva fatto.

 

Con l’andare degli anni, si era convinto sempre di più che il vecchio avesse fatto parte della banda di tagliagole che aveva sterminato il villaggio. Il modo in cui a volte parlava, come gli capitava di insistere sul fatto che non bisognasse troppo farsi prendere la mano dalla bramosia e dal gusto del saccheggio. Pareva che ci fosse qualcosa che rodeva la coscienza incallita del fuorilegge. Doveva essere qualcosa di grosso, visto che il vecchio non si faceva problemi a uccidere, quando era necessario, e cioè abbastanza spesso, per la verità. E perché avrebbe mai dovuto prenderlo sotto la sua ala protettrice, altrimenti? Lui era, nel modo tutto contorto della loro vita all’insegna della violenza, la redenzione del vecchio. Già.

 

E a lui stava benissimo. A volte si convinceva di essere felice. Viveva la vita che aveva sempre voluto, fin da quando ancora non sapeva cosa voleva. Lui e il vecchio erano affezionati l’uno all’altro, in un certo senso. Non lo batteva spesso, e quasi sempre aveva le sue ragioni per farlo. E gli aveva insegnato tutti i trucchi! Come combattere, come seguire le tracce, come cacciare, come ingannare, come scappare, come raccogliere informazioni, come mischiarsi tra la folla senza essere notato. Tutti i trucchi del mestiere.

 

 

“Tieni, Onigumo. Eccoti il tuo regalo.”

 

Il vecchio gli getta un pugnale racchiuso in un fodero, facendogli fare una parabola al di sopra del falò. Onigumo lo prende al volo con una mano, mentre con l’altra trattiene lo spiedo con l’ultimo boccone di carne, per poi finire in fretta la cena.

 

Sfodera la lama, saggiandone il filo sui peli del braccio.

 

“Grazie, vecchio. Non me l’aspettavo! Ne farò buon uso.

 

Le sue parole vengono coperte da un grido violento che viene dagli alberi che circondano la piccola radura dove si sono accampati. Le spalle di Onigumo sussultano, e la lama del pugnale gli incide la pelle, lasciando sgorgare un filo sottile di sangue. Onigumo esplode in un’imprecazione, mentre l’urlo selvaggio si ripete e viene ripreso. Il vecchio scoppia a ridere, indicandolo col dito come se avesse assistito a uno scherzo particolarmente divertente.

A Onigumo sembra di vederlo sputacchiare alcuni pezzetti di carne impastati di saliva. Sibila, sfrigolando di rabbia.

 

“Maledetti babbuini. Bestie schifose, questa foresta ne è piena. Devo riuscire ad ammazzarne qualcuno, prima che finiamo di attraversarla. Già.”

 

Ma il vecchio – con grande fastidio di Oniguimo – continua a ridere e ad additarlo, per poi strozzarsi col boccone fino a diventare paonazzo, e da ultimo liberandosi la gola con un rutto vigoroso.

Pulendosi il naso gocciolante col palmo della mano, il vecchio lo apostrofa, singhiozzando per le risate.

 

Ma, Oniugumo. Perché vuoi uccidere i tuoi amici babbuini, eh? Se fossi uno houshi, direi che ti sono fratelli in spirito.Non dovresti volere far loro del male …”

 

Il labbro superiore di Onigumo si solleva, scoprendo un po’ i denti.

 

Cosa stai dicendo, vecchio pazzo?”

 

Il vecchio assume un’espressione furba, calmandosi.

 

“Hai ragione, Onigumo. Scusa, a volte dimentico che sei molto giovane; dev’essere perché non lo sembri quasi mai.

“Veramente non conosci la reputazione dei babbuini? E’ vero, sono bestie disgustose, specialmente i più grossi tra i maschi. Forse solo la iena è più odiosa. Sono bestie crudeli e avare. Non si può dire che siano intelligenti, sono solo animali in fondo, ma incredibilmente astuti, pronti ad attaccare quando sanno di poter abbattere una preda, ma a fuggire subito se si sentono in pericolo. Vili e scaltri. Dotati di tutti i vizi dell’uomo, e di nessuna delle sue virtù!”

“Insomma, ti assomigliano proprio, Onigumo!”

 

Il vecchio ridacchia ancora un po’.

 

“Ho capito. Me ne ricorderò, vecchio!”

 

“Oh, su, Onigumo! Non ti sarai offeso, adesso, vero? Stavo solo scherzando, lo sai.”

 

“Non preoccuparti, vecchio.” Lo interrompe il giovane, alzandosi in piedi. “Quel che hai detto è vero. Non sono arrabbiato. Anzi, mettiti pure a dormire. Farò io il primo turno di guardia. Sarai stanco.

 

“Ho viaggiato sul cavallo tutto il giorno. Non sono stanco. E poi, oggi è …”

 

“Sì, lo so, il mio compleanno. Fa lo stesso, vecchio. Dormi pure. Mi hai già fatto un regalo. E’ sufficiente.”

 

 

Onigumo ha atteso tre ore, l’orecchio proteso ad ascoltare il respiro regolare del vecchio, per accertarsi che fosse immerso nel sonno più profondo. Ha ascoltato. Ha atteso.

 

“Potrei mentire, vecchio. Lo sai che potrei farlo, ma noi ci conosciamo troppo bene.

 

Un’altra goccia di sangue si allunga, si tende e si stacca dalla punta del suo nuovo pugnale, cadendo al suolo senza un rumore. Il falò è spento, ma la debole luce della luna è sufficiente per scorgere la seconda, nuova bocca del vecchio – uno squarcio preciso alla gola che se ne va da un orecchio per arrivare all’altro – e la pozzanghera di sangue che la terra sta già assorbendo.

 

“Sì, potrei dirti che ho vendicato la mia gente, mia madre e i miei fratelli. Ché noi sappiamo entrambi cosa accadde quella notte. Vi lasciaste prendere la mano. E’ così che ti piaceva ripetere, vecchio.

 

Onigumo piega le ginocchia, poggiando il peso sui talloni e fissando gli occhi vitrei e aperti del cadavere, la faccia a pochi centimetri da quella del suo mentore. Gli istinti del vecchio erano più affilati di quanto pensasse, nonostante l’età. Si era quasi svegliato in tempo.

 

Ma ti risparmierò queste bugie dappoco. Tanto lo so che non ci crederesti. Avevo già deciso da tempo quale sarebbe stato il regalo per il mio sedicesimo compleanno. Non mi servi più, vecchio. Mi hai insegnato tutto quello che potevi, tutto quel che sapevi. E’ già da un po’ che non fai altro che rallentarmi. Devo spartire il bottino con te. E perché? Ormai, sono diventato più abile di te, in tutto.

 

Onigumo raccoglie la wakizashi del vecchio. D’accordo, non è una katana, ma di certo è un’ottima arma. Se la assicura alla vita. Intasca la borsa piena di monete che l’altro teneva nella giubba. Poi prende una delle gambe molli del vecchio, e comincia a strattonare lo stivale per sfilarglielo dal piede sinistro.

 

“Un paio di stivali quasi nuovi. Proprio …” un grugnito e una torsione più violenta “… belli. Sono cresciuto, vecchio. Abbiamo la stessa taglia, adesso. Ma dì, non te n’eri accorto?”

 

Onigumo si siede, si sbarazza dei suoi calzari scalcagnati, e prova gli stivali nuovi. “Belli. Già.”

 

Ai margini della radura, c’è legato il cavallo che si sono procurati di recente. E’ un gran bel cavallo. Sono stati fortunati. Beh, il vecchio forse non così tanto, si corregge mentalmente Onigumo. Il destriero si agita nervoso. Starà sentendo l’odore del sangue. Onigumo scioglie i legamenti che lo imprigionano al ramo robusto, e prende in mano le redini. Il cavallo gli si oppone, nitrendo piano e scartando. Onigumo strattona il morso con gioiosa violenza, più volte, i denti stretti per la soddisfazione, finché una spuma bianca si rapprende sul muso dell’animale e il cavallo non si lascia condurre, domato.

 

Ripassa davanti al cadavere del vecchio, per imboccare il sentiero che esce dalla radura. Ha deciso di allontanarsi. Vuole essere fuori dal bosco prima dell’alba. Era un’idea del vecchio, quella di attraversare la foresta. Lui ha altri piani. Altri posti da visitare. Altre cose da scoprire. E adesso, con una buona spada, un po’ di denaro, un cavallo e un paio di stivali quasi nuovi; con tutte queste belle cose, non c’è niente che un uomo come lui non possa prendersi. Già.

 

L’urlo dei babbuini si fa sentire di nuovo. Onigumo ride.

 

“Dicono che non ci si può reincarnare, se non si riceve un funerale appropriato, vecchio. Noi sappiamo che sono stupidaggini. Non crediamo a queste cose ridicole. Però, sei stato tu a insegnarmi a non lasciare mai nemici alle spalle. Vedi come ho imparato bene? Sono sicuro che ne saresti orgoglioso.

“Ti lascerò in pasto ai miei ‘fratelli in spirito’, vecchio. Non sia mai che tu ti debba reincarnare e decida di vendicarti di me.”

 

Prima di abbandonare per sempre la radura, Onigumo lancia un’ultima occhiata irritata al morto.

 

“Non si può addomesticare un babbuino. Un vecchio come te avrebbe dovuto impararlo tanto tempo fa.”

 

Per i successivi tredici anni, Onigumo avrebbe vissuto la vita da lui scelta.

 

 

 

Chiodi conficcati nella testa. Come chiodi piantati in testa. Naraku si sfiora il capo con le mani. Male. E’ un genere di dolore quale non ha mai provato, da quando esiste. Geme.

 

Si sforza di aprire gli occhi. E’ sdraiato a terra, supino. Tutt’attorno, macerie. Le case scure e decrepite non sono che un cumulo di macerie, ora.

Il dolore nella testa pulsa rovesciandosi in tutto il corpo.

Non riesce a ricordare. Ha inseguito Onigumo. E poi?

 

Rabbia. E’ difficile, così maledettamente difficile trattenerla. Ma è necessario.

Era sempre stato così sicuro della compiutezza della sua vittoria su Onigumo.

 

Si rovescia prono, così da poter far forza sulle braccia per sollevarsi. Lo sguardo gli cade su qualcosa che gli fa tornare una parvenza di buon umore. Dell’icore verdastro insozza le lastre di pietra, lasciando una scia che si allontana e si perde tra i sentieri scuri e i ruderi.

L’ha colpito. E’ riuscito a ferire il kokoro di Onigumo. Si alza in piedi, sforzandosi di ignorare il dolore alla testa. Fissa il cumulo di pietra che era l’edificio nel quale Onigumo si nascondeva.

Cos’è accaduto? Che cosa sta facendo? E se la decisione di combattere questa battaglia fosse avventata?

Con fermezza, scaccia i dubbi, frantumandoli come frantumerebbe ­­­­­­­­il cranio di una serpe sotto il tallone.

 

“Io. Non mi. Fermerò. Adesso.”

Una mano schiacciata sulla fronte, segue la traccia lasciata dal sangue verdastro.

 

 

 

Kanna attende. Non si è più mossa, da quando Naraku le ha ordinato di preparare il suo specchio. Attende, senza alcuna impazienza, senza che alcun bisogno o pensiero la disturbi o la distragga.

E alla fine il tuono che attende arriva.

Il mosaico insensato che è il corpo di Naraku si scuote, scrolla le fondamenta stesse della montagna, leva un grido penetrante, ossessivo, un ruggito accompagnato da una zaffata d’aria tiepida e umida che le fa danzare le vesti e i capelli bianchi.

Come gemme di un albero maligno, grumi di carne si annodano e si gonfiano sotto la pelle multicolore di Naraku, formando bozzi che esplodono subito verso l’esterno, squarciando, straziando, spruzzando fontane di sangue nero.

Le masse di carne, bianche come la polpa di funghi malati che non hanno mai conosciuto il sole, volano simili a proiettili in tutte le direzioni, sbattono contro archi di pietra, contro le pareti; vengono scaraventati tutt’intorno senza sfiorarla.

Uno dei proiettili le passa talmente vicino da poterne catturare i particolari. Assomiglia al neonato di un essere umano, braccia e gambe appena abbozzate, il cranio enorme, senza orbite oculari, la boccuccia minuscola congelata in una smorfia che potrebbe essere un urlo.

 

La pioggia di fetidi feti bianchi dura una manciata di eterni secondi. Il naso di Kanna è colpito da un odore che chiunque altro definirebbe sgradevole – oppure orrendo, o vomitevole. Lei non lo sa, poiché non capisce la differenza tra queste parole. E’ un brutto odore, certo. Nulla di più.

 

Studia con freddezza il corpo di Naraku ancora per alcuni momenti. Kanna è certa che si sia rimpicciolito un poco. Il fluido nerastro gronda dai buchi delle ferite.

 

“Comincia ora. Sussurra piatta.

 

Kanna volta le spalle a Naraku e, lenta, si allontana per proseguire la sua attesa assieme alla sorella Kagura.

 

  
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