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Autore: B Rabbit    14/02/2017    1 recensioni
{ Mikayuu & implicit!Gureshin | Lasciate ogni speranza, o voi che leggete (?) }
Yuu scosse la chioma scura. «Sei un uomo, Mika! Non voglio raccomandazioni da femmine» scherzò, ridendo allegramente, ma appena notò un insolito sorrisetto comparire sul viso del ragazzo, l’ilarità si spense, lasciando la bocca arida e socchiusa.
«Non vuoi neanche questo?» domandò il biondo, la voce bassa, lieve, quasi le sue parole fossero un bisbiglio confidenziale, e posando la mano sulla sua nuca, intrecciando le dita nei suoi capelli di lucido inchiostro e guidando il suo capo verso il proprio, unì le loro tiepide labbra in un bacio delicato, leggero e piacevole come il freddo vespertino che pizzicava le pelli.

[A Niv cara, con tanto affetto]
Genere: Angst, Drammatico, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Mikaela Hyakuya, Yūichirō Hyakuya
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Metamorphosis'
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Ouroboros




« La profezia è sempre lì, torbida come acqua che ristagna nel buio. Di solito si nasconde in qualche luogo sconosciuto. Ma arriva un momento in cui cresce silenziosamente e trabocca, invadendo con il suo freddo ogni tua cellula, e in questa crudele inondazione annaspi e affoghi. […] Quando cerchi una voce, trovi solo un silenzio profondo. Ma quando cerchi silenzio, ecco la voce incessante di una profezia, una voce che a volte preme quella specie di interruttore segreto nascosto da qualche parte nella tua mente. […] È lì, come un ingranaggio sepolto dentro di te. ».

(Murakami Haruki, Kafka sulla spiaggia, CAPITOLO PRIMO.)




III




—— † ——




Lo aveva cercato per tre, pallide albe, intraprendendo quella lunga e dolorosa via che collegava la nuova città industriale alle vecchie, lontane abitazioni, ripetendo nell’intimo del proprio animo le solite, due parole: ti prego. Come una bestia dannata, egli aveva errato per la campagna che ospitava in sé i ruderi, calpestando quella terra indurita dal gelo notturno. Si era addentrato nella ghirlanda d’alberi che cingeva la chiesa e aveva scrutato la penombra in cui la vegetazione era immersa col desiderio di intravedere una sagoma familiare – bizzarro considerarla tale, nonostante il poco tempo condiviso – in quel piccolo luogo, come uno spirito della natura. E, angosciato, rimaneva infine nel prato screziato di bianco, il corpo rigido e gli occhi levati alla volta mutevole, per poi abbandonare la ricerca con il proposito di far ritorno.
Lo aveva cercato per tre, timide albe, e alla nascita del quarto giorno, Yuuichiro lo scoprì nella realtà non onirica, ma in quella materiale, e i dubbi che lo afflissero fino a quel momento appassirono come fiori d’alchechengi. Lo trovò nel silenzio dell’unica, ampia navata del sacro tempio, mollemente adagiato su una panca a pregar ristoro. Nastri di fioca luce bagnavano la sua figura, tingendogli scherzosamente le vesti e la chioma dei colori del rosone da cui erano discesi, sciogliendo appena il buio fumoso che lo accerchiava.
Il giovane si avvicinò, facendo tremare l’aria e la pace del santuario con l’eco secco dei suoi passi, prodotti nonostante l’attenzione con cui muoveva lentamente il proprio corpo per non destare il compagno di una vita obliata, che fissò con espressione dapprima incredula, poi sollevata e lieta – nessun interrogativo su cosa dirgli o chiedergli ronzò fastidiosamente nella sua coscienza, neppure parole di gioia –. Entrò anche lui nel disco luminoso e si accostò al banco, ma non si sedette. Semplicemente, lo guardò: i suoi occhi, che immaginava celati dietro le palpebre per volere di Ipno, erano languidamente socchiusi, stanchi come le membra del suo essere, e melanconici luccicavano dei bagliori dell’apertura invetriata verso cui erano rivolti; un genuino e roseo colore gli aggraziava il viso, non più vinto, come giorni addietro, dal pallore di una misteriosa, perenne fiacchezza.
Mikaela volse la testa e lo fissò, incastonando i suoi occhi, che del paradiso non conservavano più nulla, in quelli del sedicenne, leggermente dilatati; gli sorrise bonario, felice di essere nuovamente al suo fianco come un secolo precedente, ma la gentile e debole curvatura della bocca mostrò anche l’angoscia del suo animo.
Il corvino osservò lo spazio vuoto accanto al secondo, ma preferì stare ritto in piedi, così da cogliere ogni sua movenza o gesto, seppur l’istinto gli sussurrasse di sedersi lì, vicino a lui, di consolarlo e stringerlo a sé.
«Cos’è accaduto?» gli domandò con voce modulata, leggera, sperando di non apparire rude o stizzito, ma quest’ultimo stette muto nella propria inquietudine – lo vide serrare con veemenza le mani ed abbassare il capo per sfuggire all’interrogativo, a lui, e questo lo addolorò –.
«Rispondi» insistette allora, arcuando leggermente la schiena in avanti. «Mika».
«Nulla» rispose tenuamente; udì il più giovane chiamarlo ancora, e benché il tono giunse inasprito dalla vuota risposta, il maledetto colse nella voce un leggero, mal celato turbamento – delusione, forse, sconforto per la manchevole fiducia che, forse, il moro stava leggendo nel suo comportamento –. Levò il capo, Mikaela, e rabbrividì appena scorse delle stelle contornare i suoi occhi di giada; soffiò il suo nome, protese la mano verso la sua, amareggiato da quelle lacrime da lui provocate, ma l’altro indietreggiò, penetrando nel velo d’oscurità della chiesa.
«Dove sei stato?!» gridò, irrigidendo le spalle, il corpo intero. «Ti ho cercato ovunque per tre, dannati giorni, vedendo ombre di te in ogni dove a causa dell’ansia!».
Il biondo si alzò, ma il secondo arretrò nuovamente, intimandolo in silenzio di non avvicinarsi.
«Ho temuto davvero in qualche stregoneria» proseguì, e scie luminose apparvero sulle sue gote. «Ero spaventato…» la voce avvizzì al peso di un singulto orgogliosamente trattenuto. «Ero terrorizzato dall’idea che i nostri incontri fossero stati soltanto un miraggio».
Il vampiro accennò un passo, e quando l’altro non reagì per mantenere immutata la distanza fra loro, egli procedette, arrestandosi al limitare del cerchio di luce variopinta.
«Perché sei sparito?» gli chiese, il tono duro, severo come lo era il suo sguardo.
Il ragazzo sospirò; socchiuse le palpebre e soppesò le due scelte che poteva intraprendere, udendo chiaramente i celeri colpi del proprio cuore e i leggeri singhiozzi del sedicenne. Infine, egli rispose mestamente: «Non posso dirtelo».
Il giovane digrignò i denti. «Non mentire!» replicò aspro, avanzando verso di lui.
«Yuu –».
«Tu non vuoi, invece!» lo zittì. «Preferisci nascondermi tutto!».
«È vero! Hai ragione!» rivelò il più grande, pentendosene l’attimo successivo.
E Yuuichiro andò via senza dir nulla, come niente proferì Mikaela al venir abbandonato.

Dì e notti si susseguirono come note, fino a confluire in un’ebdomada bigia ed oltremodo lunga per l’animo umano. Il cielo si era rifugiato dietro una manto cinereo di nuvole, e i dardi del sole giungevano pallidi e freddi sulla terra. Da quell’incontro, sette interi giorni erano periti, trascinando via le riflessioni di un giovanissimo lavoratore – il quale, invece di prestare la dovuta attenzione al proprio compito, riavvolgeva la memoria su di un preciso ricordo – e i tristi pensieri di un derelitto – amareggiato dalle sue stesse azioni e dall’assenza dell’amore estinto decenni fa –.
Poco prima dell’ennesimo arrivederci della luna, il sedicenne uscì di casa, cercando di non lasciar dietro alcun rumore, e si avviò verso una destinazione specifica. Oltrepassò la città intera, percorse una via solitaria fino ad addentrarsi nella campagna desolata. E al termine del suo cammino, il giovane scorse una figura sulla copertura in tegole della chiesa: era il biondo, seduto in cima senza alcun timore, a rimirare un fiore dalla corolla un po’ avvizzita – era un ciclamino, i cui petali conservavano ancora rosee e bianche sfumature –; successivamente, però, egli s’alzò, aprì la mano, e lo stelo precipitò dalle sue dita. Anche il ragazzo cadde sotto gli occhi dell’altro, che pietrificato lo osservò atterrare e risollevarsi senza affanno, per poi rivolgergli lo sguardo.
«Sei tornato…» mormorò, flebile come il tocco di una brezza, ed accennò qualche passo nella sua direzione. «Tu sei –».
«Perché diamine sei saltato!?» sbottò il sedicenne, interrompendolo.
Mikaela lo fissò, stupito dalla sua reazione e dal fatto che le prime parole che sentì pronunciare da lui fossero state quelle, e non un saluto che desiderava ricevere, anche distaccato – gli sfuggì una risata contenuta, ma radiosa, che placò l’animo del secondo, spirando nel suo petto un po’ di serenità –.
«Scusa» rispose allora il più grande, senza celare il meraviglioso sorriso che gli arricciò le labbra.
«Scemo» lo pizzicò, ma il viso si rabbuiò l’attimo dopo. «Devo dirti una cosa» rivelò il moro e, avvicinatosi a lui, si sedette fra l’erba, vicino al muro dell’edificio, e l’altro lo imitò.
Yuuichiro fletté la gamba destra e posò il braccio sul ginocchio. «Confesso di essere stato rude e scortese, quel giorno» ammise; guardò il ragazzo e abbozzò un timido sorriso. «Io non posso obbligarti a rivelare ciò che preferisci tenere nascosto, tuttavia…» tentennò al fiorir della reminiscenza nella mente e, abbassando il capo, socchiuse gli occhi. «Alla visione del tuo sguardo così avvilito… ho voluto scoprire cosa fosse successo per trovare al meglio una soluzione». Il corvino mantenne la testa china; si sentì stupido per ciò che gli aveva appena detto – l’ingenuo desiderio di soccorrerlo, fino ad annullare ogni sua pena –. «Sappi che sarò lieto di ascoltarti» aggiunse poi con un sorriso sì ampio, ma fragile, poiché si incrinò quando, sollevato lo sguardo, notò Mikaela affondare il viso tra l’incavo delle braccia allacciate sulle ginocchia. Allungò timidamente la mano verso di lui, lo chiamò, preoccupato dalla sua reazione, ma il derelitto non si mosse neppure al dispiacere che si amalgamò al suono del proprio nome.
Soltanto, sospirò, e con fioca voce rivelò: «Pensavo che sarebbero svaniti, appena ti avessi ritrovato».
Il giovane scivolò morbidamente sull’erba e si inginocchiò al suo fianco. «Cosa?».
«Il dolore» egli rispose. «E il fardello della colpa».
Nessuno fiatò, né per domandare chiarimenti, né per proseguire, raccontando senza veli la storia tutta. Delicatamente, Yuuichiro scostò una ciocca aurea dal viso del ragazzo, divenuto nuovamente esangue come la notte in cui lo aveva conosciuto – no, ritrovato, le sensazioni apparivano ancora ingarbugliate e confuse –.
«Guardami» soffiò dunque, ma non giunse alcuna risposta. Ed egli lo circondò con le braccia, lo condusse verso di sé e lo strinse con delicatezza, posando il mento sulla sua testa – il vampiro sgranò gli occhi a tale gesto e in esso avvertì il nostalgico e commovente senso di protezione infusegli dalle tenerezze di quel giovane, quando era ancora umano e il tempo si dipanava in lui come in ogni essere vivente –. «Non devi temere il passato» mormorò affabile, inspiegabilmente lieto di sentire il tepore e la presenza del suo corpo fra le proprie braccia. «Mi hai ritrovato, oramai. È tutto finito».
Mikaela sussultò alle sue ultime parole, che nella loro semplicità riuscirono a sconvolgerlo. Strinse forte le palpebre e si morse il labbro inferiore, arcuato tristemente all’ingiù; cercò di acquietare il proprio animo ascoltando il suono rassicurante proveniente dal petto di lui e, infine, cedette con docilità a quella visione fiduciosa, che un’elegante risata, sfuggita dal baratro della memoria, sbeffeggiò crudelmente.
Lo aveva cercato per tre, ansiose albe; l’aveva ritrovato il giorno seguente, in un velo di raggi policromi, per poi abbandonarlo l’attimo successivo. E una settimana dopo, stringendolo fra le proprie braccia nel freddo mattinale, Yuuichiro fece un giuramento, libero dalla vergogna o dall’esitazione: gli promise con voce inudibile, così fievole da parer il fruscio delle dita fra il crine dorato di lui, che lo avrebbe sostenuto in ogni attimo di incertezza od angoscia con idiozie, racconti quotidiani, addirittura favole, pur di infondergli vigore e pace. Sempre.

«Sai, i miei genitori hanno scoperto le mie evasioni mattutine».
Richiamato dalla sua voce, morbida ed ovattata, serena come l’atmosfera in cui stavano placidamente annegando, Mikaela rivolse lo sguardo al ragazzo seduto alla sua sinistra, che nel mentre fendeva l’erba tra loro con il palmo della mano, affascinato da quelle soffici carezze e dai colori limpidi che nella città parevano oramai estinti – e nuovamente, come spesso capitava quando era al suo fianco, il biondo si smarrì nella contemplazione della sua espressione, della veridicità di quel viso che per decadi custodì gelosamente nella memoria –. «Cos’è successo?» chiese, e il corpo si tese istintivamente verso il moro, avvicinandosi appena in un fruscio vellutato d’erba.
«Beh…» cominciò, sfiorando la candida corolla di una margherita. «Mia madre ha esatto delle spiegazioni».
«Per questo sei giunto più tardi, stamani… giusto?» chiese, flettendo e intrecciando le gambe, e subito notò un sorriso affiorare tenue sul viso rilassato di Yuu.
«Sì» affermò il secondo, e le sue labbra si arcuarono maggiormente. «E sai cosa ha risposto mio padre alle sue domande?» disse, ricambiando lo sguardo dell’altro che, ignaro e interessato dal breve racconto, scosse appena il capo, smuovendo la morbida chioma.
«“Starà di certo corteggiando una fanciulla!”» ripeté a gran voce, imitando perfino il tono basso e possente del capofamiglia, e ridacchiò appena l’altro, vinto dall’imbarazzo, volse la testa a destra per fuggire dal suo sguardo.
«E sai cosa gli ho detto io?» chiese in un mormorio leggero, divertito, e in esso Mikaela colse l’inarrestabile voglia di proseguire anche ad un suo possibile rifiuto. Sospirò e, senza girare il capo nella sua direzione, puntò gli occhi verso di lui. «Ho paura…» confessò, posando il mento sulla mano destra.
Yuuichiro sorrise. «“Hai azzeccato!”» rivelò, incrociando le braccia al petto, ma la scherzosa serietà del suo gesto svanì l’istante dopo, portata via dalla risata che gli sfuggì appena il grido acuto del biondo increspò la tranquillità del luogo.
«Tu cosa!?» urlò, guardandolo sconvolto, dimentico del rossore che gli tingeva graziosamente le guance. L’altro annuì con vigorosi cenni della testa e continuò a ridere deliziato – il vampiro affondò il viso nei palmi, sbuffando pesantemente, e il sedicenne trovò la sua reazione esagerata, tenera –.
«Sai cosa ho aggiunto?» proseguì, ma in risposta gli giunse soltanto un mugolio dolente.
E con voce gentile, soffusa d’amabile affetto, concluse: «“Adoro i suoi capelli”».

Yuu adorava ascoltare i racconti sul passato di Mika – sui momenti trascorsi insieme, quando era al suo fianco nella precedente esistenza –, poiché la distanza irreale che egli percepiva fra sé stesso e il biondo si indeboliva. Inoltre, al moro piaceva chiedere nuovi aneddoti oppure quelli già condivisi – visto che l’altro non cominciava mai di suo spontaneo desiderio – perché la sua reazione lo divertiva. Sbuffava, oppure sollevava gli occhi verso il cielo, quasi a supplicare pietà o pazienza ad un essere superiore, per poi rivolgergli un sorrisetto sghembo e vivace – allora si chiedeva se Mikaela, da fanciullo, avesse mai sorriso in quel modo dispettoso –. Si sedevano sul prato, sulle panche lignee, o perfino sugli scomodi coppi del tetto della chiesa – grazie all’aiuto dell’altro e ad un’instabile rampa, creata da lui con i pochi mobili ritrovati nell’edificio sacro – e la storia iniziava. Egli rimaneva silente fino alla conclusione, assetato ed attratto dalle sue parole, guardandolo incantato.
Sfortunatamente, il ragazzo continuava ad assentarsi per un motivo ancora ignoto. Il sedicenne scoprì che avveniva in maniera regolare: egli rimaneva nel suo rifugio per due giorni continui, trascorrendo insieme a lui quel magico momento composto dagli ultimi attimi della notte e dai primi dell’alba, e svaniva il dì successivo, raramente anche quello seguente ancora – e Yuuichiro temeva quelle giornate gonfie di preoccupazione e d’attesa, in cui sarebbe rimasto nel loro angolo di realtà fino al suo ritorno, ma l’irritante nenia di un pendolo immaginario gli ricordava il dovere, costringendolo ad andare via –. Il giovane disapprovava il suo comportamento taciturno, la testarda volontà di non rivelargli alcunché, ma soprattutto, egli detestava i momenti in cui lo sconforto intorpidiva il raro colore dei suoi occhi.
Quando l’altro mancava, il sedicenne rimuginava sui suoi segreti – l’identità del presunto benefattore, la natura del suo dono e la ragione delle sue partenze –, cercando possibili chiarimenti in ogni dove, dalle vecchie storie che i bimbi solevano temere, alle chiacchiere dei mercanti che ultimamente, notò Yuu, s’erano colorate di sfumature cupe e funeste.

Era seduto sulla cima della chiesa, chiuso timidamente in sé come un bocciolo acerbo, solo ed inerme e spaventato nella quiete del crepuscolo morente. Sembrava che volesse scappare, Mikaela, sfuggire a qualcosa, uno spettro o la sua ombra, svanire dalla realtà per riapparire soltanto con nuova forma. Tremava appena i soffi e i giocosi sbuffi della frescura vespertina lambivano la sua epidermide scoperta, gelando all’istante il sudore e il respiro – non la sete e le sue zanne e le sue fiamme, che avide divoravano il corpo –. Cercava di non pensare, di assorbire la calma della natura e rinchiuderla in sé stesso, ma un dolore sordo continuava a vibrare nei suoi denti, divenuti inspiegabilmente più aguzzi, bestiali. La fiera gli bisbigliava con suono di zucchero di sfogar la voglia nella caccia, ma una voce lo intimava a restare fino all’alba successiva, inquietata da un presagio nefasto. Mikaela sospirò e si prese il capo fra i palmi, angustiato dall’ansia che avvertiva. Ed il gelo improvviso lo colse e lo strinse, fermando il respiro nel petto.
Egli acuì l’udito al mormorio del vento, il quale portò il frastuono di grida e voci iraconde, di villanie e degli strilli penosi dei bambini. S’alzò ritto in piedi, ben stabile sulle tegole tintinnanti, e volse la sua attenzione verso la città. E nel suo ventre notò palpitare un bagliore sinistro, da cui una serpe di fumo si innalzava fino ad amalgamarsi con la nebbia tossica prodotta dalle fabbriche.
Il terrore lo assalì, penetrando facilmente nelle membra, nelle ossa, e giù, nel profondo del suo essere, facendo tremare la sua anima.
«Yuu…» mormorò, disorientato da quel terrificante preludio che stava formandosi di fronte a lui. Fletté le gambe, balzò, atterrò agilmente sul terreno. Cominciò a correre con falcate ampie e celeri verso l’agglomerato industriale, gli occhi ben fissi su ciò che gli parve pericolosamente un incendio – la debolezza insita nella sete annegò all’istante in un’emozione che gli infuse un vigore fittizio nei muscoli, arrestando così il tremore, ma il petto continuava a dolergli e il cuore a contrarsi con veemenza –.
Aveva paura, Mikaela. Temeva che lo spettacolo si deformasse nella peggiore delle disgrazie, in un epilogo non così dissimile da quella lontana, maledetta notte in cui il mondo si frantumò nell’indifferenza di tutti. Ti prego – disse, rivolgendo il pensiero a qualcuno di indefinito come cent’anni addietro – Se non di me, abbi pietà di lui. Non permettere agli altri di privarlo della vita.
Serrò con violenza le mani, fino a rendere evanescente la pelle e nette le ramificazioni delle vene azzurre, e si rimproverò, dandosi dello sciocco con un sussurro rotto dall’affanno. Avrebbe trovato e protetto Yuuichiro con la sua sola determinazione, impedendo a chiunque di avvelenare la sua candida anima o di incrinare il suo meraviglioso, spensierato sorriso, capace di purificare con semplicità anche il suo essere immondo, lottando fino allo stremo per conquistare la libertà di entrambi – poiché il biondo sapeva, lo aveva compreso durante il limbo di solitudine racchiuso tra le due vite di Yuu: essa non era un diritto, ma una pregiata ricompensa che levitava sopra una voragine scarsamente riempita da milioni di carcasse ed innumerevoli ossa –.
Un fragore reboante scosse il suo equilibro, spezzandogli l’andatura in passi lenti ed incerti; fu colpito dai successivi ululati che udì affiorare dall’eco del boato come gemiti dalle acque del Cocito, e il maledetto riprese velocità, impossessandosi finalmente della periferia. Sollevò lo sguardo e con ribrezzo osservò nuvole scure spandersi sopra gli edifici.
Nella mente del ragazzo, le strade presero a cambiare, assottigliandosi in vie secondarie, oppure circondando altre, familiari costruzioni, per poi tornare alla normalità – come neve, i ricordi della sua città originaria si posarono su quella presente, trasformando la realtà catturata dai suoi occhi in una visione spettrale –.
Luci aranciate bagnarono ogni superficie su cui si ritrovarono a danzare, oscillando ed affievolendosi, o acquistando nuove sfumature, dal cremisi al dorato. Soltanto allora Mikaela intravide falci di persone emergere dalle porte e dalle finestre tenute volontariamente socchiuse, così da spiare, stando al sicuro nelle proprie abitazioni. Le grida si fecero più intense, dolorosamente affilate, ed il giovane incontrò gli sguardi terrorizzati delle donne, oppure quelli increduli e lucidi dei bambini, sperduti nel tumulto o strattonati via da un genitore per salvarli. Individui dal volto anonimo si diressero verso di lui e lo superarono, pietrificandolo con il loro terrore. Farfugliò qualcosa, il povero derelitto, frastornato dal chiasso, dai rantoli del suo respiro e dalle percosse assordanti del cuore, e rabbrividì appena nuovi scoppi, questa volta brevi, secchi, penetranti, squarciarono la sera. Errò tra la folla, subendo passivamente colpi e spinte violente senza emettere neppure un lamento: il fiato era soltanto per lui, come l’attenzione e le pene, mentre lo cercava in quella marea di sofferenza; lo chiamò, ma la voce uscì fragile, troppo debole per sovrastare gli altri rumori, dunque strinse le mani, inspirò, ma il grido fu rubato prima di sfociare da una persona che, afferrandolo per l’avambraccio, lo trascinò, guidandolo lontano dall’origine di quel putiferio. E nel profilo dell’umano, il biondo scoprì Yuuichiro – le sopracciglia si tesero all’insù, le labbra tremarono visibilmente e le gambe si fecero deboli sotto la sensazione di sollievo che placò l’anima –.
Fu spinto nella bocca di un vicolo che si rivelò essere morto e fissò l’altro appostarsi all’angolo per ispezionare la situazione – sorrise quando lo vide tendere un braccio in sua direzione, quasi a volerlo proteggere da ogni minaccia –.
«Cos’è successo?» gli chiese, addossando il peso del proprio corpo contro la parete e scrutando la figura del giovane.
«Rivolta» rispose lui, aggrottando la fronte. «Gli operai di un’industria tessile hanno incendiato le macchine e le fiamme si stanno propagando ovunque». Gli lanciò un’occhiata. «Tu, piuttosto? Non dovevi essere chissà dove?» chiese, scoccandogli un sorriso indisponente.
Mikaela sollevò le braccia. «Eccomi qui, invece».
«Volevi fare una sorpresa?» lo punzecchiò, riuscendo ad ottenere soltanto uno sbuffo e nessuna spiegazione; rise comunque, brillando di gioia nonostante fossero circondati da tutto quell’odio, dall’angoscia, felice di avere l’amico al proprio fianco, ma ruggiti ed ingiurie sovrastarono la sua ilarità, strappandogli anche una sommessa imprecazione.
«Stanno arrivando!» lo avvisò, voltandosi completamente verso di lui. «Non possiamo rimanere qui!».
Il biondo asserì con un cenno della testa: gli prese la mano e si tuffò nella calca, in cui uomini sputavano le proprie amarezze insieme ad acerrime parole, colpendo o facendo ruzzolare altre persone. Dovevano immediatamente lasciare quella strada per una via minore e più sicura, che Yuu presto indicò ed intimò l’altro a seguirlo, ma quest’ultimo gli cinse le spalle con un braccio e lo condusse in una stretta improvvisa. Sorpreso, il corvino tentò di scostarsi dal suo petto, ma un botto, l’ennesimo di quella sera tormentata, lo raggelò all’istante: lo sparo di una pistola, seguito da un gemito trattenuto in gola. Sollevò gli occhi sbarrati, pregni dell’ansia e del panico che fu incapace di nascondere, di racchiudere ancora in una piccola parte di sé, e un placido sorriso lo accolse, dolce ed irreale come la sua espressione; il più piccolo lo fissò sciogliere il caldo rifugio in cui l’aveva trascinato, girarsi iracondo e colpire con un pugno la guardia della fabbrica, la quale perse la propria arma nella massa palpitante. Soltanto allora Yuuichiro si accorse del taglio che sfregiava la sua carne, appena sotto la spalla sinistra.
«T-ti ha ferito» pigolò, guardando il sangue sporcargli a poco a poco la stoffa della camicia. «Il proiettile…».
«Mi ha solo sfiorato» reagì. «Ora va’!» e lo spinse con leggera forza, riuscendo a strapparlo dal torpore dello sgomento.
Serpeggiarono piano tra i corpi vinti dalla furia, tentando di decifrare ogni rotazione o movimento per difendere sé stessi e l’amico di sventura, restando vicini ed avanzando insieme – allacciarono le mani in una stretta vigorosa, bisognosi di percepire il tepore confortante dell’altro per non smarrirsi e, infine, annegare –.
Altre persone rianimarono l’insurrezione, giungendo dalla direzione verso cui i due ragazzi erano rivolti, stringendo ed innalzando armi povere – bastoni, oppure arnesi per la terra – contro i nemici.
Il pensiero ripugnante di essere intrappolati tra la gentaglia e l’incendio abbatté il più grande, che rafforzò istintivamente la stretta sulle dita del giovane, il quale portò l’attenzione su di lui.
«Usciremo da qui» dichiarò il sedicenne, il tono duro ed inflessibile, l’espressione decisa. Mikaela annuì, così sorpreso ed affascinato dalla sua risolutezza da non accorgersi di una sagoma nera: un uomo che, persa la stabilità a seguito di un gancio, rischiò di travolgerlo, se il giovane non fosse intervenuto, dando una poderosa spinta allo sconosciuto.
«Stai bene?» lo sentì proferire, il tono alto a causa del trambusto, dell’apprensione, ma lo vide irrigidirsi l’attimo seguente e Mikaela avvertì la colpa rodergli il cuore e i polmoni, poiché intravide il ricordo dello sparo nelle iridi di preziosa giada. Non attese alcunché, il corvino, né un gesto, né una risposta, seppur il secondo bramasse dall’innocente desiderio di sfiorargli la mascella contratta, pregandolo di non caricarsi sbagli inesistenti; lo agguantò per l’avambraccio e riprese a camminare, urtando le persone e scoccando loro delle gomitate. Il derelitto posò gli occhi sulla sua stretta e li fece scorrere lungo il braccio, sulla sua figura, come una morbida e lenta carezza. Si sentì incredibilmente debole, fiacco.
Dopo, catturò un brillio inquietante.
Lesse il pensiero nei movimenti che esso generò.
E rabbrividì all’immagine che invase la mente.
Era stanco, Mikaela, stordito dalla voglia che gli artigliava e graffiava la gola, ma riuscì a porsi tra il suo amato e l’essere.
Il mondo intero sembrò perdere i suoi rumori fino a sbiadire penosamente, poiché l’urlo straziante di Yuuichiro riuscì a cancellare ogni cosa, gli schiamazzi, le esplosioni. Il biondo rimase immobile come il tempo intorno a lui, persino quando il balordo si ritrasse, levando con una roteazione del polso qualcosa di sottile e dannatamente freddo dal suo ventre. Un coltellaccio.
Percepì l’olezzo del sangue, il proprio, pizzicargli le narici e il liquido bollente cominciò a rovesciarsi fuori dallo squarcio; colse il ruggito del sedicenne e con orrore lo vide avventarsi contro l’umano, oramai pazzo d’ira. Tentò di chiamarlo, di catturare la sua attenzione, dandogli dell’idiota o dello sprovveduto, ma tutte le parole affogarono in un gorgoglio della gola. E quando lo stolto allontanò il braccio con la volontà di affondare nuovamente la lama nella carne, Mikaela scattò fulmineo e gli conficcò il pugno nell’alto addome senza alcun remore – un sorrisino compiaciuto balenò sul suo viso appena sentì le costole vibrare e sfasciarsi contro le proprie nocche –. Lo sconosciuto rovinò a terra e non si mosse più sotto gli occhi gelidi del maledetto, il quale gemette subito dopo per via della fitta che infine lo trafisse, penetrando l’indifferenza nata dal sentimento di protezione. E prima di cascare dolorosamente sulle ginocchia, avvertì qualcosa cingergli il busto con fermezza e guidarlo piano sulle pietre della strada, trascinandolo così in un piacevole calore.
«Y-Yuu…» mormorò, scoprendosi nel suo tremante abbraccio, e un singulto rispose al richiamo – il suo profumo l’avvolse, mitigando i sensi con la propria dolcezza fino a stordirlo piacevolmente –. Il più grande catturò un respiro colmo di lui e lo trattenne per alcuni secondi, quasi con gelosia, mentre il moro continuava a chiedergli scusa. E raggelò appena comprese l’inquietante interrogativo che sussurrò nella sua coscienza, riducendogli le iridi in fragili anelli: che sapore avrà mai la sua vita?
Si conficcò i denti nel labbro, preferendo bagnarsi il palato con la sua immonda essenza, piuttosto che con quella sconosciuta ed intrigante, voluttuosa e proibita del suo amore.
«Vattene…» riuscì a dirgli, premendo le mani contro il suo petto ansante, ma il giovane lo strinse maggiormente a sé – entrambi persero un singhiozzo, tutti e due si domandarono cosa fare per salvare il compagno –.
«Ascoltami» lo rimproverò, ma la voce parve piegarsi più in una supplica. «Rimani nella chiesa per qualche giorno» ansimò, nonostante il corvino scuotesse la testa con vigore ad ogni sua parola. «Nasconditi finché la città non tornerà tranquilla».
«No!».
«Ti prego».
Yuuichiro serrò le palpebre, si piegò in avanti e pianse il suo dolore nell’orecchio dell’altro.
«N-non posso» guaì e, ignorando le sue proteste, i colpi e le spinte lanciategli contro il costato, il moro s’alzò, svelando al secondo il viso graffiato dalle lacrime.
«Non… morirò» tentò di convincerlo, ma sapeva quanto grande fosse il terrore del ragazzo – preferì tenere il capo basso, così da strappare il proprio sguardo dal suo, e chiuse le mani intorno ai polpacci, affondando le unghie nei muscoli tesi, impedendo ad esse di protrarsi in avanti, verso la sua figura –. «Semplicemente, non posso. L’avrai capito».
Boccheggiò, sperando nella sua comprensione, ma un lamento gli sfuggì appena il sedicenne, chinatosi fra le sue gambe, se lo caricò sulla schiena, per poi sollevarsi e cominciare ad avanzare, a barcollare verso una via di fuga.
Il dannato non si ribellò, non lottò contro la decisione del compagno, bensì s’oppose alla belva e ai suoi desideri illeciti che gli scuotevano lo spirito e il corpo. Cominciò a piangere, Mikaela, a tremare, e si coprì il volto con la mano lercia di rosso, addolorando inconsapevolmente il giovane, il quale si morse il labbro per non lasciar volare neanche un piccolo suono, mentre il sangue rovente dell’amico gli bagnava la camicia, fino a penetrarla e ad ustionargli l’epidermide.
«Lasciami…» farfugliò debolmente, avvertendo l’istinto rodergli le viscere. «Ti prego» ripeté piano, più volte, una nota dolente riprodotta ciclicamente da un elegante carillon guasto, ma Yuu gli rivolgeva altre preghiere – «Andrà tutto bene», «Smettila, ti supplico» –, promesse di un futuro sereno e migliore, giusto, in cui avrebbero ripercorso quei bui attimi con dei sorrisi amari su visi ormai adulti, ma dei singhiozzi squarciarono le parole già fragili, tradendo la sicurezza delle sue affermazioni.
«Yuu…» lo chiamò fra gli ansiti, e il citato ribatté stringendolo maggiormente a sé, proseguendo a camminare e ad ignorare le sue inaccettabili richieste.
Tra percosse ed urti violenti contro i muri, fra imprecazioni e reazioni frenate dagli sguardi raccapriccianti del più grande, i due sventurati riuscirono a scivolare via da quell’infernale disordine, conquistando finalmente una minuscola vittoria e diversi, troppi lividi; vagabondarono per le vie isolate, mute come la pietà delle persone che li fissavano dalle loro abitazioni, fino ad abbandonare il paese ancora illuminato dalle fiamme del disastro.
Vagò per la campagna desolata, affondando leggermente i piedi nel terreno impreziosito di brina, ed ogni qualvolta il terrore l’aggrediva, rendendo ancora più incerti i suoi passi, invocava l’amico con un bisbiglio, e si acquietava soltanto al suo mugolio ovattato – il citato non poteva rivolgergli una vera rassicurazione, un rimprovero, qualcosa, perché, se avesse smesso di affondare e serrare le zanne nel palmo lacero della propria mano, avrebbe replicato non con delle affermazioni, bensì con un’azione atroce –.
Si arrestò dinanzi al portone della chiesa e, con un folle calcio, il sedicenne riuscì a spalancare l’entrata; perse l’equilibrio l’istante dopo e cadde sulle proprie gambe, ma riuscì a reggere e tenere il secondo sopra di sé, il quale parve liberarsi dal velo di silenzio sotto cui si era nascosto.
«Lasciami…» ripeté ancora, e l’altro replicò con uno sbuffo. Si rialzò, barcollando leggermente, e camminò in direzione del tabernacolo con l’intento di deporre il più grande sull’altare, meno sporco rispetto alle panche o al pavimento, ma il secondo si agitò e, premendo contro la schiena, si liberò dalle catene della sua stretta, facendo cadere entrambi.
Il giovane ringhiò, infastidito dal quel gesto privo di senno, ma appena si voltò nella sua direzione si zittì; l’osservò tremare ad ogni difficile respiro come una creatura indifesa, leggermente piegato a sinistra, le gambe flesse e l’intero peso sorretto dal braccio.
«Mika…».
L’interpellato rabbrividì, ma levò la testa, attratto inesorabilmente da lui; e nel mondo confuso, acquerellato dalla stanchezza e dal desiderio, Mikaela osservò l’amato deformarsi in un essere umano dall’aspetto ignoto, analogo a tutti gli altri. Si odiò per questo.
«Allontanati…» ansimò, volgendo lo sguardo lontano. «Per favore, vattene da qui» e gemette appena il corvino scosse violentemente il capo.
«Non ti lascerò per la seconda volta!» gridò. Si mosse, ignorando la sua volontà o la mano sollevata in una muta richiesta di ascolto, e cadde nello sbaglio peggiore che potesse commettere: si chinò e legò i loro corpi in un doloroso abbraccio, facendo collidere la propria spalla con la sua fronte – il dannato fremette e i suoi respiri divennero rochi e celeri contro il collo squisitamente sottile dell’umano –.
«Andrà tutto bene…» ribadì per l’ennesima volta, la voce incredibilmente fragile, gonfia d’affanno, di ansia e della sua irrazionale, consueta ed ingenua fiducia. «Ti medicherò e tutto tornerà come prima…» proseguì, ma il biondo non era più capace di intendere alcunché – percepiva le parole dalle ammalianti vibrazioni della sua gola segnata appena dal pomo d’Adamo, ma non le comprendeva, erano soltanto dei suoni particolati ed armoniosi –.
Yuuichiro deglutì; aprì la bocca per regalare conforto alle anime di entrambi, ma sgranò gli occhi e un verso strozzato sibilò fuori dalle labbra socchiuse.
L’aveva azzannato, Mikaela, oltrepassando la trama della camicia: dapprima un morso incerto, trattenuto, dato sull’unione della spalla con il collo, ma appena il sangue, dolce come la polpa della prima mela, gli bagnò leggermente il palato, i denti affondarono nella pelle, dilaniandola con fin troppa facilità. Il giovane cercò di liberarsi, ma l’altro gli conficcò le unghie nei bicipiti. E rabbrividì appena dei singulti cominciarono a vibrare nella morbida carne – la sua coscienza non si era ancora spenta e, seppur debole, il ragazzo era in grado di assimilare ogni azione commessa, senza però riuscire a fermarsi, a ribellarsi, a smettere di ferire la sua gioia più grande. Era diventato uno spettatore, e piangere era l’unica cosa rimastagli –.
«Sei un vampiro…» gli disse. «Q-questo… ti ha permesso di vivere per cento anni…» e un gorgoglio fuoriuscì dalla sua bocca. Alzò le braccia per allacciarle intorno all’altro, ma fallì, la sua piccola volontà non commosse nessun dio, ed esse scivolarono fino a cascare, inermi. «Tu sparivi per cacciare lontano, perché non volevi che io lo scoprissi». Serrò le palpebre, digrignò i denti. «Per non farmi sentire responsabile».
Avvertì il gelo pizzicargli la pelle delle mani, delle gambe, e capì di star per svenire. Cercò di sorridere, arcuando le labbra tremanti; affondò le dita nelle ciocche auree e gliele accarezzò con struggente delicatezza, come avrebbe voluto fare giorni e giorni addietro. «La prossima volta raccontami tutto, stupido» gli sussurrò nell’orecchio e provò a ridere, ma ciò che uscì fuori somigliò più a un lamento colmo di rimpianto. E le lacrime emersero dagli ultimi crepitii della sua anima quando gli chiese: «Perdonami».
Mikaela non colse né le sue parole, né i rintocchi finali del suo cuore. S’accorse della sua dipartita soltanto quando la sete ingorda lo abbandonò di fronte alla crudele conseguenza della sua debolezza. E la follia più nera lo intossicò. Urlò, il maledetto, nel fissare inorridito il corpo esanime del suo amato scivolare via dalle sue braccia. Si portò le mani tremanti al capo, affondò gli artigli nella pelle e si graffiò, più e più volte, deturpando i suoi bei lineamenti, ferendosi la gola e il petto. Pianse, dondolandosi secondo la nenia creata dai suoi gemiti, dai singhiozzi e dagli urli strazianti, sbattendo i pugni contro il legno del pavimento, anche dopo essersi spezzato le ossa. Perché, in fondo, il suo corpo si sarebbe rigenerato, cancellando ogni ferita senza lasciare cicatrici. Le palpebre lacere si aprirono, scoprendo gli occhi nella loro orripilante interezza. Un pensiero ributtante turbinò nella sua mente, e una risata sgorgò dalla sua gola, dapprima bassa e vibrante, poi tagliente e acuta e disperata.
Qualcuno l’aveva udito – ipotizzò, facendo stridere l’aria con malsana ilarità – mentre correva disperatamente verso la città. Un essere aveva accolto la sua richiesta, salvando così Yuuichiro dai perfidi umani. E si era impossessato della sua forza come saldo per il gesto misericordioso, lasciandolo impotente al cospetto dell’impulso ferino.
Lacrime apparvero e scivolarono delicate sul volto sfigurato, percorrendo i solchi dei graffi come i letti dei fiumi e tingendosi di vaghe sfumature rossastre.
«Tu non puoi morire» cinguettò candidamente una voce, ed un’ombra si innalzò vicino al suo defunto amore. «Puoi soltanto impazzire».

Per alcune settimane, fu possibile avvertire delle urla tuonare in una chiesetta poco lontana dalla città, abbandonata dalla gente insieme alle loro precedenti vite per adattarsi alla realtà nuova. Scoppiavano all’improvviso, sia nella maturazione che nella caduta del dì, squarciando con angosciosa veemenza quel sacro torpore che spirava fra le mura in pietra grezza. Erano grida orripilanti, atroci come gli ululati di un’anima dannata, e si levavano nel vecchio monumento per istanti lunghissimi, quasi eterni, fino a sfumare in pianti incontrollati di un fanciullino.
E quando ciò accadeva, quando l’echi giungevano ovattate fin nel borgo, le persone interrompevano i loro lavori per alcuni istanti, raggelati nell’ascolto.
Una mattina, spinto dalla tenera e smisurata curiosità, un bambino zampettò intrepido verso l’edificio, malgrado le innumerevoli ed uggiose raccomandazione materne, per scoprire l’identità del padrone di quelle tremende urla – era forse l’ombra di un giovane, perito senza adempiere al suo desiderio, oppure un nobile solitario, addolorato dalla scomparsa del proprio amore –. Ciò che l’accolse non fu una scena favolosa, ma l’intreccio pietoso di due corpi malandati.
Il bimbo non fece più ritorno, sordo alle preghiere disperate della madre, che lo implorava di tornare; rimase placidamente steso tra i fili d’erba, il viso incredibilmente pallido, la gola insozzata di vermiglio, e i suoi occhi vitrei, ciechi, scrutarono la volta e i suoi lenti mutamenti finché Natura, impietosita, non li chiuse con il tempo.
E da quel triste pomeriggio, una belva parve destarsi, simile ai mostri dipinti nelle favole, e ad ogni notte rubava implacabile la vita di un malcapitato. L’unico sopravvissuto, un soldato novizio mandato dalla città vicina per slegare il mistero, raccontò che, uccisi i suoi compagni d’armi, il demone fuggì via appena la foresta pianse insieme a lui: «Qual è la nostra colpa, mostro?».

















And all the people say
You can't wake up, this is not a dream
You're part of a machine, you are not a human being

*le lanciano un Timcanpy indemoniato in testa*

Ok, ok! Lo so, sono una persona orribile, ho aggiornato dopo quasi un anno con un coso enorme il testo netto è di 6000-e-katsudon parole, ho scritto robe bruttissime e mi sento in colpa per ciò. E, credetemi, questo capitolo è stato difficilissimo da scrivere: continuavo a ripetermi mentalmente parole di incoraggiamento, per poi allontanarmi un po’ con la sedia e cominciare a dire cose del tipo “Non posso farcela”. E vi giuro che ho pianto, e più di una volta – appena aprivo la pagina, quando scrivevo la parte finale o mentre rileggevo tutto –. Son due, le cose: o sono troppo sensibile, o la mia idiozia è sconfinata quanto l’universo.
Inoltre, ho aggiornato soltanto grazie a quella dea di Niv che si è offerta di leggere il capitolo per strapparmi dalla testa i miei soliti dubbi – ne ho ancora qualcuno, ma ho deciso comunque di buttarmi –.
Eeeee non so, davvero… vi ringrazio per aver letto la storia fino a questo punto, e spero attenderete la fine.



Alla prossima,
Cloud~



  
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