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Autore: Panenutella    23/02/2017    1 recensioni
Sara Vitali è una che scappa: ha lasciato l'Italia, ha cambiato cognome e numero di telefono pur di sfuggire al suo stalker, e si è nascosta a Belfast nella speranza che lui non la trovi mai. Non si fida di nessuno e sente il disperato bisogno di sentirsi al sicuro, protetta e non più sola. E' in questo stato che una sera in un anonimo bar incontra Kit Harington, appena uscito dalla sua relazione con Rose Leslie e nel pieno delle riprese del Trono di Spade. Sara non pensa che da quell'incontro possa cambiare qualcosa, ma scoprirà presto di sbagliarsi.
Nota: il primo capitolo è identico alla prima parte della mia One-Shot "Two stories in the night". Se siete curiosi di leggere anche la seconda, fateci un salto! Grazie in anticipo a chi leggerà.
Genere: Generale, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Kit Harington, Nuovo personaggio, Un po' tutti
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Take Me to Church
 
Take me to church
I’ll workship like a dog
At the shrine of your lies,
I’ll tell you my sin
So you can sharpen your knife.
Offer me that deathless death
Good God, let me give you my life.
- Hozier
 
***
Pinna
 
Amo Dio, ma odio la Chiesa.
Dio ha sempre detto di amare il prossimo come se stessi, persino il proprio nemico, senza eccezioni, senza dire quale genere di amore è giusto e quale è sbagliato, sempre che ce ne sia uno da considerarsi tale: “Amerai il Signore Dio tuo con tutto il cuore, con tutta l'anima e con tutta la tua mente. Questo è il più grande e il primo dei comandamenti. E il secondo è simile al primo: amerai il prossimo tuo come te stesso”. Matteo 22, 37-40.
La Chiesa ha sempre travisato le sue parole: punta il dito contro gli omosessuali, condannandoli all’Inferno, definendoli contro natura, e per cosa? Per amare il prossimo. E chi crede nella parola della Chiesa segue le sue indicazioni.
Avevo diciotto anni quando mio padre mi ha cacciato di casa, dopo aver scoperto chi amavo.
 
Sono nato il 4 dicembre ’88, figlio di Isabella e Giorgio Pinnarotti e fratello maggiore di Maria, bella come il Sole. I miei genitori sono proprietari di un’importante farmacia genovese, e condividono una fede così cieca nella Chiesa da sfociare ampiamente nel bigottismo. Credo di aver imparato i dieci comandamenti a memoria ancora prima di saper leggere decentemente.
Nonostante siano stati entrambi molto severi per quanto riguarda l’educazione e l’istruzione, mia madre mi ha sempre fatto meno paura rispetto a mio padre: i lineamenti gentili del suo viso e la dolcezza del sorriso, nonché la sua inclinazione a mostrare l’affetto verso me e mia sorella molto di più di quanto facesse mio padre, hanno fatto sì che mi rivolgessi a lei ogni volta che avevo un problema.
Mio padre, per quanto si sforzasse di essere un buon padre e ci leggesse una favola tutte le sere, sembrava sempre essere un pesce fuor d’acqua. Anzi, si irrigidiva quando gli correvo incontro e lo abbracciavo alle ginocchia quando tornava dal lavoro, e raramente aveva tempo di giocare con me e Maria. Comunque, ha sempre creduto che una sberla ben piazzata educhi molto meglio di mille parole, e in casa nostra vigevano regole ben precise che se non rispettate implicavano chiaramente una punizione.
Impossibile rigare storto, con Giorgio Pinnarotti.
 
Il primo bacio a un maschio l’ho dato a cinque anni.
Non lo ricordo molto bene, in realtà. Ho invece bene impresso nella memoria la sgridata che mi fece la maestra. “Non devi baciare i bambini, ma le bambine”, diceva.
Io non ho mai voluto baciare le bambine.
Ricordo bene la prima volta che mi innamorai. Avevo dieci anni, e lui si chiamava Alberto. Fu lì che capii che per tutti, tranne che per me, amare un altro maschio era sbagliato.
Non che avessi mai provato a far capire ad Alberto i miei sentimenti. Sono andato a tanto così dallo spedirgli il bigliettino “Vuoi essere il mio fidanzato? Sì/No”, la più grande prova di coraggio richiesta a ogni innamorato sotto i dodici anni, ma alla fine non l’ho fatto. Nel profondo ricordavo ancora quello che la maestra mi aveva detto, e ricordavo l’espressione di disgusto sul volto di mio padre quando poco tempo prima, al centro commerciale, vedemmo due ragazzi intenti a baciarsi nascosti dietro un angolo. E a frenarmi c’era anche la tensione di Alberto ogni volta che lo sfioravo, e il modo in cui filava via più veloce del vento. Non mi sembrava che facessi qualcosa di strano con lui, volevo solo stargli vicino più tempo possibile, ma lui diceva continuamente che ero strano… per me era un motivo in più per tacere.
Non ho mai detto niente a nessuno, tranne che a una persona: Sara. Di lei sapevo già allora che mi potevo fidare.
Credevo seriamente che un fulmine mandato dal Signore mi avrebbe colpito in testa, quando le dissi “Mi piace Alberto”. Per quello che mi avevano insegnato, era un peccato anche solo pensarci.  Invece Sara mi guardò con un sorriso e disse: “Mamma dice che l’importante è volere bene alle persone”.
Ancora mi ricordo il sollievo che provai quando vidi che Sara non mi avrebbe giudicato.
Solo ora, a venticinque anni, mi rendo conto di quanto già allora il suo cuore fosse sconfinato.
Osai dirlo al prete, in confessionale.
Dissi che mi piaceva un altro ragazzo, anche se sapevo che il Signore non voleva.
Lui sospirò, pensò per un attimo, mi disse di recitare dieci Ave Maria e dieci Padre Nostro ogni sera, per una settimana.
“Così quando morirai andrai in Paradiso”.
Ero pronto a prostrarmi ai piedi dell’altare, pur di ottenere il perdono di Dio.
 
Non era vero.
Non era vero niente.
Per anni ho sperato che sarebbe passata, che in realtà non mi piacevano i ragazzi, che il problema era nella mia testa. Per anni mi sono sforzato di farmi piacere le ragazze, anche se dentro di me non provavo assolutamente niente se non una punta di disgusto. Per anni ho odiato me stesso per non riuscire a essere il buon cristiano che veniva celebrato a messa.
Ogni volta che mettevo piede in chiesa la domenica mattina mi assalivano un’ansia e un’angoscia tale di finire all’Inferno per i miei pensieri traviati, da farmi venire quasi idee suicide. Sicuramente il mondo sarebbe stato meno sporco senza di me e le mie idee perverse. Mi sentivo continuamente la bocca dell’Inferno sotto ai piedi, pronta a spalancarsi in ogni momento e a inghiottirmi in un sol boccone.
Solo la danza classica mi distraeva.
Io e Sara abbiamo iniziato a danzare nello stesso corso a otto anni. Mio padre fece un putiferio quando venne a sapere che mia madre mi ci aveva iscritto, dicendo che la danza classica è roba da bambine.
“A farlo stare in piedi sulle punte diventerà FROCIO!”.
Per fortuna mia madre non ritirò mai la mia iscrizione, nonostante l’ira di suo marito.
 
Io e Sara ci siamo conosciuti all’asilo. Non ricordo assolutamente il nostro primo incontro, ma ricordo tutte le litigate che facevamo per decidere chi dei due doveva guidare la spedizione della nave dei pirati (la casetta di plastica nel giardino) nei Sette Mari. Il suo atteggiamento da maschiaccio e la sua grinta smisurata da teppistella, coi capelli scuri tagliati a caschetto e le ginocchia sempre sbucciate, la faceva sempre vincere. Così io ero Spugna, e lei Capitan Uncino.
Sara è stata la prima a sapere la verità su di me e a darmi il conforto che non trovavo né in Chiesa né nei miei genitori, ovviamente. È stata lei a farmi capire che non c’era niente di male a essere gay, e che Dio non mi avrebbe mai mandato all’Inferno per questo.
Me lo disse la prima volta durante la ricreazione di un lunedì di scuola alle medie, quando eravamo entrambi due tredicenni brufolosi, dai capelli unti e strafatti di ormoni della crescita. Avremmo avuto lezione di danza quella sera, ma il sermone del prete e la lettura al catechismo serale della distruzione di Sodoma e Gomorra mi avevano gettato in un profondo senso di inquietudine. Come mai prima di allora mi sentivo pendere sopra la testa l’immensa condanna del Giudizio Universale.
Le confessai che, nel profondo del mio cuore, desideravo non essere mai nato piuttosto che vivere con quel continuo senso di nausea nei miei confronti.
Ricordo che lei mi abbracciò forte, a lungo. Lo spigolo della montatura quadrata dei suoi occhiali da vista premeva contro il mio sterno mentre cercava di consolarmi.
“Secondo me Dio non ti manderà all’Inferno. Lì ci vanno solo le persone cattive, e tu non hai mai rubato né ucciso nessuno. Non hai mai infranto nessuno dei dieci comandamenti”.
“Non bestemmiare!”, le dissi spalancando gli occhi.
“Scusa, pensaci un attimo” continuò. “Quali sono i comandamenti?”.
“Non avrai altro Dio all’infuori di me. Non nominare il nome di Dio invano. Ricorda del giorno del riposo, per santificarlo. Onora tuo padre e tua madre. Non uccidere. Non commettere adulterio. Non rubare. Non dire falsa testimonianza. Non desiderare la casa del tuo prossimo. Non desiderarne la sposa”.*
“Dove sta scritto ‘Non amare altri uomini’?”.
Non seppi rispondere, fino a quando non mi tornò in mente la lettura serale.
“E Sodoma e Gomorra?”.
“Pinna, io so che nessuno ha mai detto quale peccato i Sodomiti abbiano commesso”.
“Alcuni dicono che sia proprio l’omosessualità”.
“Hai detto bene”.
“Cosa?”.
Lei sorrise. “Alcuni dicono”.
 
Le sue parole mi fecero pensare, così quella sera presi la Bibbia e rilessi l’episodio della distruzione delle due città.
A catechismo mi avevano spiegato che il peccato dei Sodomiti fosse proprio l’omosessualità perché gli abitanti chiesero a Lot di far uscire i due angeli per poterli conoscere sessualmente. Rileggendone le righe con sguardo meno condizionato, riuscii però a capire che niente di tutto ciò è specificato nel testo, che anzi sembra riferirsi all’offesa verso gli ospiti, gli angeli del Signore.
Chiusi il libro con stizza. Che ne poteva sapere Sara? I suoi genitori non erano credenti e lei non era cresciuta nel timore di Dio. Non è stata nemmeno battezzata, e non ha mai messo piede in una chiesa. Come poteva sapere che cosa diceva la Bibbia?
Ma qualcosa era successo.
Sara aveva impiantato il seme del dubbio.
Passai la notte a leggere il Vangelo, per la prima volta senza l’intercedere del prete, per la prima volta con la mia testa e il mio cuore.
E finalmente vidi.
In nessuna parte della Bibbia, nessuna, vengono espressamente condannate le persone omosessuali.
Solo nel Levitico, libro dell’Antico Testamento, ci sono due passaggi su di loro.
“Non avrai con un uomo relazioni carnali come si hanno con una donna: è cosa abominevole. Se uno ha con un uomo relazioni sessuali come si hanno con una donna, tutti e due hanno commesso una cosa abominevole; dovranno essere messi a morte; il loro sangue ricadrà su di loro”.
Ma, come mi era già stato spiegato più volte, il Levitico non è applicato all’interno del Cristianesimo.
Quella notte piansi lacrime di sollievo, improvvisamente liberato dal peso che mi opprimeva il cuore e grato a Dio per avermi fatto capire la verità.
Capii quindi che tutto ciò che sta scritto nella Bibbia viene interpretato dagli uomini di Chiesa, che spingono i credenti a seguire le loro parole e non il testo. Quindi capita molto spesso che il messaggio che arriva ai credenti sia molto diverso da quello del Libro Sacro. Come avviene proprio per il tema dell’omosessualità.
 
Il mattino dopo vedevo il mondo con gli occhi diversi, come se fossi tornato a respirare.
Scoppiavo di gioia, ed ero grato a Sara per avermi fatto capire che potevo essere me stesso senza farmi schifo, e senza andare all’Inferno.
Fu accettando me stesso che tre anni dopo mi innamorai e mi misi con Emanuele, un compagno di scuola. Era biondo con gli occhi chiari, giocava a calcio e suonava il basso.
Fu lui a baciarmi, alla festa di fine anno, quando lo accompagnai a fumare una sigaretta fuori dal portone della scuola. La strada era vuota e soffiava una brezza fredda che faceva venire brividi di freddo. A un certo punto gettò la sigaretta per terra e mi guardo dritto negli occhi.
“Senti, non voglio tenermelo più dentro. Mi piaci, Andrea. Non scappare, ti prego. Se non mi vuoi capirò, non sarebbe la prima volta”.
Per un attimo temetti seriamente che sarei svenuto. Poi, non so come, riuscii a balbettare che anche lui mi piaceva.
E così mi baciò.
Fu il momento più bello della mia vita, il momento in cui tutto era perfetto. Avevo trovato qualcuno come me, qualcuno a cui piacevo per come ero veramente.
 
I primi due anni insieme a Emanuele furono un idillio e una tortura insieme.
Facevamo di tutto per vederci il più possibile ed eravamo follemente innamorati l’uno dell’altro. Con lui ho scoperto anche la sessualità, e anche se per un po’ quel senso di nausea nei confronti di me stesso per paura della punizione di Dio tornò, con lui riuscii a superarlo. Ci vedevamo il più possibile, ma dovevo prestare la massima attenzione per non venire scoperto dai miei genitori. Organizzavo tutto nel minimo dettaglio per non dover correre il rischio di farci scoprire ed essere costretto a rompere con lui.
I suoi genitori sapevano che lui era gay e li avevo anche conosciuti. Erano due persone molto solari e dalla mente aperta, che non giudicava. Tutto il contrario dei miei genitori.
Le poche volte in cui Emanuele veniva per studiare a casa mia faceva finta di essere un compagno di scuola bisognoso di ripetizioni di matematica. In un’occasione mia madre borbottò un “Quand’è che ti trovi una ragazza? Sara è diventata così carina!” davanti a lui, creando grande imbarazzo tra di noi e dando il via alla prima vera discussione di coppia.
Pensava che avessi già fatto coming out.
Il giorno del mio diciottesimo compleanno decisi di raccogliere tutte le mie forze, e chiesi a mia madre e a Maria, che aveva quattordici anni, di raggiungermi in salotto. Mio padre era andato a comprare il panettone e le bibite per i festeggiamenti di quella sera, perciò approfittai della sua assenza. Temevo che, omofobico com’era, avrebbe scatenato un putiferio e non volevo assolutamente che lo scoprisse. Mi riproponevo di passare la vita fingendo di essere eterosessuale, per non suscitare sospetti in lui.
Ma Maria doveva sapere, e anche mia madre. Lo dovevo a loro, a me stesso, e a Emanuele.
Ci misi un quarto d’ora a cercare le parole e il coraggio di dirglielo. Poi lo sputai fuori.
Mia madre rimase impietrita, come una statua di sale, per qualche minuto. Mia sorella, invece, si mise a ridere e mi abbracciò.
“Come sono contenta, fratellone! Prima o poi devi presentarmi il tuo ragazzo!”.
La abbracciai sollevato e felice della sua reazione, ma con la coda dell’occhio osservavo mia madre.
La sua espressione era un misto di delusione, terrore e rassegnazione. Da qualche parte, nella mia mente, avevo sperato che non la prendesse così.
A un certo punto lei si alzò dalla poltrona, si avvicinò, mi mise una mano sulla spalla e disse:
“E’ soltanto una fase. Passerà”.
 
Intanto io e Sara continuavamo a frequentare le lezioni di danza, e iniziammo a gareggiare a dei concorsi prima cittadini, e poi regionali. Eravamo – e siamo ancora – molto affiatati, e vincevamo.
Usavamo ogni pausa dallo studio, ogni ricreazione, e ogni giorno alla villa dei miei a Camogli per ballare insieme su qualunque tipo di base, non solo classica ma anche moderna, samba, valzer, persino il tango. Ballare era il nostro modo di evadere dal mondo che ci circondava, e sembravamo fatti per stare nelle braccia l’uno dell’altra nella danza.
Quella sera, in camera mia, mi sfogai con lei sulla reazione di mia madre.
“Prima o poi se ne farà una ragione. Non preoccuparti, Pinna”.
“Non mi sorprenderà se non vorrà più far entrare Emanuele in casa”.
“Beh, casa mia è libera. I miei sono sempre a lavorare e io sarò molto felice di fare una passeggiata, ogni tanto.”.
Riuscì a farmi sorridere.
Ma pochi giorni dopo tutto crollò.
 
Era il 13 gennaio e c’erano cinque gradi. Il fiato mio e di Emanuele si condensava nell’aria mentre camminavamo mano nella mano nei pressi di casa mia. Stavamo tornando da un pomeriggio invernale in riva al mare a Boccadasse e in quel momento, come ogni altro passato in sua compagnia, tutto era perfetto.
Avevamo appena accordato che ci saremmo visti il giorno dopo per studiare insieme a casa sua, e una volta usciti i suoi genitori progettavamo di divertirci insieme.
Ci fermammo sotto il mio portone, sapendo che i miei erano a Camogli per il weekend non mi preoccupavo di mio padre.
Lo baciai per salutarlo, appassionatamente, come piaceva a noi.
Quando si voltò per andarsene e io guardai oltre le sue spalle, lo vidi.
Mio padre ci guardava disgustato, in piedi accanto alla portiera aperta della macchina.
Mentre Emanuele si voltava per salutarmi di nuovo, sul diviso di mio padre si dipinse un’espressione furibonda e nauseata.
Mi voltai e spinsi via Emanuele, gridandogli di andare via, di scappare.
Sapevo che la tempesta stava arrivando, la distruzione di Sodoma e Gomorra.
Ema comprese il pericolo e se la svignò.
Mio padre mi fu addosso in pochi secondi e mi assestò un manovrescio da farmi girare la testa, gridando ogni insulto inimmaginabile.
Sempre urlando mi trascinò su per le scale fino alla porta di casa. La spalancò e mi gettò dentro.
“FAI SCHIFO! SEI LA FECCIA DELL’UMANITÀ! DEVI MARCIRE ALL’INFERNO, FROCIO!”.
Non ricordo se stessi piangendo o meno, ma in ogni caso cercavo di fermarlo.
In tutta risposta, Giorgio prese un vaso da una mensola e me lo lanciò.
“NON TI VOGLIO IN CASA MIA, FECCIA! NON HAI RICORDATO NEANCHE UNA PAROLA DEL SIGNORE, DEL LEVITICO!”.
Maria, sentendo tutto quel trambusto, uscì da camera sua e in una semplice occhiata comprese. Si mise tra me e mio padre, facendomi da scudo, ma lui la spinse via.
“Non toccarlo, Maria! È un animale, è un sodomita!”.
“PAPÀ, SMETTILA!”. Gridò lei.
Lui attraversò il corridoio ed entrò in camera mia.
“CHE COSA HAI FATTO CREDERE DI ESSERE A ME E TUA MADRE? UNA PERSONA NORMALE? VA’ ALL’INFERNO, FROCIO! SEI CONTRO NATURA! NON TI VOGLIO IN CASA MIA!”.
Prese dall’armadio tutti i miei vestiti in una sola bracciata, riattraversò il corridoio, e li gettò nel pianerottolo. Poi tornò di nuovo, nonostante io cercassi di fermarlo fisicamente e Maria gridava isterica.
Prese i libri di scuola sparsi sul letto e li cacciò dalla finestra.
“FUORI!”.
Mi rifiutai.
“FUORI DA CASA MIA! NON TI VOGLIO QUI!”.
Di nuovo, scossi la testa.
Mi colpì ancora e mi trascinò per un braccio fuori dalla porta, buttandomi nel pianerottolo come un sacco dell’immondizia nonostante tutta la forza che mettevo nel fare resistenza, e chiuse sbattendo la porta. Lo sentì gridare contro mia sorella, furioso perché lei cercava di riaprire la porta per farmi entrare.
Maria aveva soltanto quattordici anni.
Se ci fosse stata mia madre, forse le cose sarebbero andate diversamente.
Se lui fosse andato davvero a Camogli come mi aveva detto, non l’avrebbe mai scoperto.
Distrutto e con la faccia gonfia dalle botte, non potei fare altro che raccogliere le mie cose e cercare di raggiungere un posto dove dormire.
Solo una persona mi avrebbe sicuramente aiutato senza fare domande, capendo alla prima occhiata.
Non Emanuele.
Sara.
Lei mi accolse e mi aiutò a curare le ferite, mentre i suoi genitori chiamavano mio padre e mia madre per tentare di farli ragionare. Speravamo tutti in mia madre, che potesse far ragionare Giorgio ancora una volta.
Ma l’unica cosa che lei fece fu trovarmi un monolocale.
Nemmeno lei mi voleva in casa.
Nemmeno lei mi voleva come figlio.
Da allora, l’unico contatto che ho avuto con la mia famiglia è stata Maria.
Niente più compleanni, Natale, Pasqua. E non sono andato mai più a messa.
 
Ho finito il liceo e ho cominciato a lavorare come agente immobiliare, riuscendo a essere ammesso al corpo di ballo del Carlo Felice insieme a Sara.
Intanto lei aveva anche superato il test d’ingresso a Fisioterapia, e non vedeva l’ora di cominciare a studiare all’università, anche se con qualche dubbio sul suo futuro.
Poi, a ventun anni, conobbe Matteo.
Non mi è mai piaciuto, sin dalla prima occhiata. Avevo visto che c’era qualcosa che non andava in lui. Una scintilla malvagia nei suoi occhi, quasi folle.
Quando Sara cominciò a presentarsi al Carlo Felice con i lividi sulle braccia, iniziai a farle domande pur conoscendo benissimo la risposta. Sapevo che quel figlio di puttana la picchiava, anche se lei faceva di tutto per non dare la colpa a lui. Matteo però era inarrivabile, lei lo proteggeva irrazionalmente persino da me, così cercai di far ragionare lei. Le dissi più e più volte che non era quello giusto per lei, che la trattava di merda, che non la meritava, che quello non era amore.
Ma invece di ascoltarmi, lei andò a conviverci.
E i suoi lividi e le sue ferite peggioravano.
Usavo tutti i mezzi che avevo per convincerla a lasciarlo, ma lei non mi ascoltava. Insistetti tanto da perdere il fiato, ma in tutta risposta lei si allontanava sempre di più. Quando mi offrii di accompagnarla in un centro per donne maltrattate, lei fece una scenata e mi disse che non voleva vedermi mai più.
Poi sparì di punto in bianco: lasciò il corpo di ballo, e svanì dalla circolazione.
Passai intere settimane a cercare di ritrovarla, un costante senso di perdita sul cuore. Emanuele, in quel senso, non riusciva ad aiutarmi.
E finalmente, dopo tre settimane dalla sua sparizione, riuscii a farmi dire dai suoi genitori che aveva lasciato l’Italia, cambiando cognome e numero di telefono, per sfuggire a Matteo che si era trasformato in uno stalker psicopatico. Non mi dissero dove si era trasferita, né il suo nuovo cognome, né il numero di telefono. La paura di quel pazzo gli impediva di riconoscere i veri amici della figlia.
Impiegai mesi per riuscire a convivere con quel costante senso di abbandono, e quando venni a sapere che Matteo sarebbe andato sotto processo per il tentato omicidio del signor Cerbiatto e che Sara avrebbe testimoniato, mi feci avanti per dire la mia.
Vederla di nuovo in tribunale, dopo quasi due anni di silenzio totale, è stato come vedere tornare i colori del mondo al loro posto. Il lungo abbraccio tra di noi è stata la cosa più bella, dopo il bacio di Emanuele con cui avevo troncato poco tempo prima.
Averla ritrovata così libera, profondamente cambiata e fidanzata con un attore di fama mondiale, mi è sembrato più un sogno che la realtà.
Da quanto è ripartita per l’Islanda abbiamo continuato a sentirci, per fortuna. Non voglio mai più stare senza di lei.
 
Qualche giorno fa, durante la festa per il ventunesimo compleanno di Maria nella nostra villa a Camogli, ci siamo ubriacati tutti quanti e mi sono portato a letto uno dei suoi amici. Non sono del tutto sicuro di aver chiuso a chiave la porta, mentre lo facevamo.
All’alba Maria mi ha tirato giù dal divano, dove ero collassato, e mi ha detto che “io e quell’altro cretino di Vincenzo” l’abbiamo fatto proprio davanti alla finestra e i miei ci hanno visti.
Maria mi ha suggerito tra le righe che sarebbe meglio se sparissi dalla circolazione fino all’anno prossimo, per non rischiare di venir ucciso da mio padre. Mi ha già diseredato, uccidermi sarebbe un po’ troppo per lei.
Non ho proprio voglia di avere ancora problemi con quei due, che non hanno saputo essere genitri come Dio comanda e invece di affrontare insieme “i problemi” hanno preferito cacciarmi di casa. Ma non mi va neanche di andarmene per colpa loro, sarebbe un comportamento infantile. D’altra parte, però, muoio dalla voglia di rivedere Sara e il lavoro comincia a starmi sulle scatole. Non ho mai preso ferie finora, così ho deciso di prendermi qualche tempo per andare a trovarla e staccare un po’ da Genova. Così ho chiamato Sara per chiederle se lei e Kit potrebbero ospitarmi a Londra per un po’ (a momenti sclero).
Mi ha risposto Kit, e ci è mancato poco a un mio totale collasso. Mi ha detto che Sara stava subendo un’operazione per donare il fegato a una bambina malata di cancro. A parte lo spavento, sono stato fiero di lei.
Kit mi ha ricontattato parecchie ore dopo per dirmi che Sara stava bene, e che sarebbe contenta se io e lui le facessimo una sorpresa e io mi facessi trovare a casa loro a Londra, fra una settimana. Ovviamente ho accettato di slancio.
 
Sono passati tre giorni dal mio ultimo contatto con Kit e sto facendo la valigia per la mia partenza per Londra, fra quattro giorni, quando il mio telefono squilla.
Devo controllare bene lo schermo per cinque volte prima di essere sicuro di non aver visto male il nome del chiamante.
È Matteo.
 
*Esodo 20, 3-17.
   
 
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