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Autore: SHUN DI ANDROMEDA    06/03/2017    1 recensioni
[Angst/HurtComfort/FamilyFluff][PostHades]
Versione riveduta e corretta, divisa opportunamente in capitoli, della mia fic con lo stesso nome.
Quando non si sa se le cose miglioreranno o meno, quando un certo numero di segreti sono talmente dolorosi da rischiare di distruggere una famiglia ancora prima che questa possa muovere i primi passi...
Quando la Guerra Santa porta ferite molto più profonde di quelle fisiche.
Genere: Drammatico, Fluff, Hurt/Comfort | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Pegasus Seiya
Note: Missing Moments | Avvertimenti: Tematiche delicate
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Nei Giardini Che Nessuno Sa'
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CAPITOLO 13

LACRIME NELLA NOTTE

Andiamocene da qui!”


Le voci concitate e le grida delle persone in fuga dal vicolo buio attirarono l'attenzione dei pochi a passeggio per quella zona della città a quell'ora così tarda, i testimoni che la polizia interrogò successivamente dissero di aver sentito delle grida e poi di aver visto un gruppo di ragazzi scappare, travolgendosi e passandosi sopra gli uni agli altri.


Qualcuno era sicuro di aver visto anche un lampo di luce ma successivi sopralluoghi non avevano rivelato niente.


Chiunque fosse stato, e qualunque cosa avesse fatto, era già scomparso da tempo assieme alle prove delle sue azioni.


§§§

La giovane donna, stretta al massiccio ragazzo, camminava nervosamente attraverso quelle stradine nascoste poco illuminate, preoccupata dagli sguardi che li circondavano dalle pieghe delle ombre.


“Tieni lo sguardo basso.” la avvertì il suo compagno, parandosi davanti a lei come a proteggerla.


Lei obbedì senza proferire verbo, la borsetta stretta al petto come ad un salvagente, e in breve uscirono alla luce dei lampioni, in una strada tranquilla e poco trafficata, rassicurante nella sua normalità notturna: poco lontano da loro, i neon di un distributore automatico invitavano a prendersi una pausa.


Senza domandarle alcunché, il ragazzo la afferrò per un polso e la trascinò fin lì, lasciandola andare solo dopo averla fatta sedere sulla panchina lì affianco; fu solo in quel momento che ella poté finalmente vederlo in viso. E qualcosa nei suoi lineamenti le era fin troppo familiare.


“Non ti sei fatta niente, vero?” chiese all'improvviso lui, scrutandola con attenzione, quegli occhi grandi e scuri le davano una strana sensazione a metà tra il rassicurante e lo spaventoso: “S-Sì, sto bene.” rispose lei, respirando profondamente per calmarsi, “G-Grazie di essere intervenuto.” aggiunse, cercando di sorridergli con riconoscenza.
Questi scrollò le spalle con noncuranza, poggiandosi al macchinario rosso brillante: “Ho sentito un grido.” disse semplicemente, incrociando le braccia al petto, “La prossima volta, ti conviene non passare da quel vicolo, almeno non a quest'ora.”.


Piena di vergogna, lei abbassò lo sguardo: “Ho finito di lavorare tardi, quella strada di solito non è così pericolosa…” confessò.


“Di giorno le cose sono molto diverse. Quando cala il buio, i mostri restano in agguato per aggredirti.”


Il tono freddo e cupo del ragazzo la colpì profondamente, un simile cinismo, un pessimismo del genere… non era abituata a reazioni come quelle.
D'istinto, ella cominciò a frugare nella borsetta, estrasse il portamonete e da esso tirò fuori una manciata di spiccioli prima di alzarsi e dirigersi verso il distributore: “Cosa posso offrirti?”.


“Non l'ho fatto per una ricompensa.”.


“Lo so, ma voglio offrirti qualcosa.”.


“Sei testarda.”.


“Lo so.”.


Con un sospiro, il giovane andò a sedersi al posto da lei occupato poco prima: “Del caffè.” disse soltanto, incrociando le braccia dietro la nuca.
Lei armeggiò qualche minuto con i pulsanti poi, con le due lattine di caffè saldamente tra le dita, lo raggiunse e gliela consegnò: “Comunque io sono Satsuki.” si presentò lei con un sorriso.


Lui non rispose, limitandosi a bere lentamente.


“Posso chiederti come ti chiami?”.


“Puoi farlo ma non è detto che ti risponderò.”.


“E perché?”


“Il mio nome non è importante.”.


“Mi piacerebbe comunque saperlo. Vorrei poterti ringraziare adeguatamente.”.
Il silenzio che ne seguì durò qualche minuto, minuti durante i quali nessuno – neppure una macchina – passò nei paraggi, una tranquillità quasi innaturale rispetto al caos della città; infine, dopo aver svuotato la lattina, il ragazzo la accartocciò tra le dita: “Ikki.” disse soltanto, prima di lanciarla nel cestino lì accanto, “Il mio nome è Ikki.”.


Dire che il cuore di Satsuki perse un battito è poco: era un nome così poco comune e quello sguardo così familiare e caldo… Non poteva avere dubbi.
“M-Mi sembrava di conoscerti, infatti.” rispose lei con voce tremante: “Ci siamo già visti. Io lavoro  alla clinica della Fondazione Graude, s-sono l'infermiera di tuo fratello.”.


Ikki non rispose, teneva lo sguardo ostinatamente rivolto verso un punto lontano, concentrato su qualcosa che forse vedeva solo lui.
“Non ti ho riconosciuto subito perché era da un po' che non ti vedevo.” ammise lei, stringendo la lattina semivuota tra le dita: “Stavi tornando a casa?” domandò.
Il ragazzo annuì appena, senza però spostare lo sguardo di un millimetro.


“Tra qualche settimana comunque dovrebbero dimetterlo, non so se Makishima-sensei te lo abbia detto.”.


“Non ho parlato con nessuno.”.


Il tono freddo e cupo del giovane la fece trasalire, dandole una spiacevole sensazione di gelo: “N-non importa. Probabilmente non lo hai incontrato durante le tue visite, è sempre molto impegnato. Però è una buona notizia, no?”.


“Non mi sono spiegato bene.” disse all'improvviso Ikki, voltandosi di scatto e guardandola fisso in viso, lo sguardo gelido come il ghiaccio: “Non ho visto nessuno e non ho parlato con nessuno.”.


Fu in quel momento che Satsuki comprese.


“Intendi dire che non hai più fatto visita a tuo fratello da quando si è svegliato?” chiese lei con un filo di voce, non lo aveva più visto in clinica ma non pensava che fosse questa la verità.


Con un gesto stizzito, Ikki si ravvivò i capelli prima di mettersi le mani in tasca: “Fai attenzione sulla strada di casa.” disse soltanto, prima di allontanarsi a passo svelto nella direzione opposta alla quale erano venuti; interdetta, Satsuki ci mise qualche istante prima di realizzare che, no, non poteva lasciarlo andare via così', doveva capire, doveva parlarci.


Raccolta rapidamente la giacca e la borsetta, la giovane infermiera gli andò dietro, guardandosi febbrilmente attorno nella speranza di prevenire qualunque aggressione: una le era bastata; lo raggiunse dopo una lunga camminata, trovandolo appoggiato, con gli occhi chiusi, come concentrato in una profonda meditazione, al muro di cinta di un signorile edificio che ella riconobbe all'istante come la residenza di Lady Saori e, a quel punto, doveva esserlo anche di quei ragazzi che della giovane nobile erano i fratelli.


Satsuki non aveva mai razionalizzato del tutto quel legame familiare, li aveva sempre visti muoversi nel fin troppo a lei noto ambiente della clinica e non si era mai del tutto soffermata sulla questione, ma vedere quel ragazzo lì, in quel momento, le diede una nuova consapevolezza dei fatti.


“Perchè mi hai seguito?” chiese Ikki all'improvviso, sollevando di scatto le palpebre.


“Voglio capire.” replicò lei con assoluta fermezza nella voce: “Ti ho visto stare accanto a Seiya-kun, non posso pensare che tu non sia più andato a trovarlo dal suo risveglio, è assurdo e impossibile.”


“Non sono cose che ti riguardano.”.


“Invece sì, dal momento che Seiya-kun è un mio paziente.”.


“E questo cosa c'entra?”


“Non posso permettere che qualcosa – o qualcuno – lo ferisca, ritardandone la guarigione.”.


Tra loro cadde il silenzio.


“Cosa vuoi da me, esattamente?”


La voce di Ikki suonava furiosa mentre le si rivolgeva ma Satsuki non si dava per vinta: sarebbe andata a fondo di quella storia.
“Io non ti sono nemica.” disse lei con un sospiro: “Voglio capire e aiutarti.” aggiunse, muovendo un passo in avanti, “E' di tuo fratello che stiamo parlando, se tra voi è accaduto qualcosa, vale la pena distruggere un legame per questo?”
Ikki restò in silenzio, chiuso nel suo mutismo testardo ma, nei suoi occhi, Satsuki leggeva una profonda tristezza che riverberava attraverso ogni fibra del suo corpo: “Ho visto come e quanto ti sei preso cura di lui in questi mesi.” proseguì lei, gli occhi lucidi che le pungevano per le lacrime in agguato, “Ti ho visto asciugargli con pazienza la fronte, cambiargli il pigiama, parlargli e tenergli la mano, ti vedevo anche quando, di notte, forse credevi che nessuno potesse vederti. So che tu gli vuoi bene e anche per questo la tua reazione mi pare incomprensibile.”


“Non sai niente.”


“Spiegami allora. Cosa è accaduto? E poi, perché quelle ferite? Come ve le siete procurate?”


“Basta.”


“Ma posso...”


“HO DETTO BASTA!”.


Il grido di Ikki suonava come rotto da un pianto a stento trattenuto mentre il pugno stretto andava a colpire con violenza il muro, facendo al contempo sobbalzare la giovane donna per lo spavento, la quale chiuse istintivamente gli occhi, temendo l'arrivo di uno schiaffo che però non giunse.


Ikki, dinanzi a lei, la fissava con espressione sbarrata, gli occhi che mandavano fiamme, la osservò con apparente disprezzo per alcuni istanti prima di scappare via, nel buio della notte che diventava sempre più fitta.


La sua furia cieca e incontrollabile lasciò la giovane prostrata, ella cadde in ginocchio sull'asfalto, respirava affannosamente come dopo una lunga e interminabile corsa, un rivolo di sudore freddo le correva lungo la schiena ed ella tremava inconsultamente come se la temperatura si fosse improvvisamente abbassata senza che se ne fosse accorta.


Un primo singhiozzo eruppe dalla sua bocca, poi un secondo, un terzo, fino a diventare una sequela ininterrotta tra le lacrime di un dolore che sapeva non appartenerle ma che era conscia fosse quello che Ikki stava provando, aveva sentito qualcosa di tremendo defluire come un veleno dalle parole del ragazzo, qualcosa che il suo cuore aveva assorbito come una spugna, emozioni talmente forti e violente da esserle estranee ma che fin troppe volte si era accorta di aver notato nelle persone accanto a lei, con loro condivise in virtù di un'empatia talmente forte da averle reso, in passato, la vita difficile.


Ikki stava soffrendo, di questo ne aveva la più assoluta certezza.


Ma capire come aiutarlo… era un problema forse troppo grosso per affrontarlo lei da sola.


Aveva bisogno di aiuto.



§§§

«Sì, Saori... Non è ancora uscito e la porta è chiusa. Non ha neppure toccato cibo.»
La voce preoccupata di Shun fu la prima cosa che Ikki sentì dopo essere rientrato nella propria stanza-prigione, passando per la finestra che dava sul parco deserto della proprietà.


Nessuna guardia, nessun allarme, e se anche ci fossero stati, non gli avrebbe comunque dato la minima importanza.


In piedi e immobile nell'oscurità, tese l'orecchio per afferrare stralci di discorsi e parole dette a mezza voce attraverso la porta chiusa, quelle scarne conversazioni telefoniche che riusciva a sentire erano il solo mezzo che aveva per ricevere notizie, per restare ancorato a quella realtà che non riusciva, ora più che mai, a percepire come 'giusta', una realtà che gli pareva fin troppo crudele e avvolta in un buio del quale - in tutta serietà - non riusciva a vedere la fine.


Non era come l'oscurità  a cui era abituato, quella del male e dell'odio che aveva giurato di combattere, piuttosto era qualcosa di più sottile, qualcosa che non aveva percepito subito, un malessere che - almeno all'inizio - aveva imputato alla paura con cui, ormai da tempo, aveva imparato a convivere; il suo coraggio era però venuto meno, incapace di sopportare oltre quella pressione emotiva che minacciava di farlo a pezzi, le sue difese erano troppo scarne e si sentiva confuso: gli sembrava come se fosse stato aperto un vaso accuratamente nascosto che conteneva ogni singolo frammento della sua umanità e che lui non riusciva a richiudere.


L'unica risposta che era riuscito a trovare era stata quella di rinchiudersi, isolarsi, lontano da qualunque forma di sentimento ed emozione che avrebbe potuto farlo precipitare ancora di più nel baratro, forse troppo orgoglioso per chiedere un aiuto che non gli sarebbe stato negato, non dalle persone che vivevano al di là della sua porta e che ormai avevano assunto la forma di voci e ricordi, non più fisiche e non più palpabili.


«Vorrei che si aprisse con noi, Seiya non fa che chiedere di lui, non posso continuare a mentirgli, Saori-san. Ne soffrirebbe. No, credo che Ikki-niisan gli voglia... ci voglia bene, forse questa situazione ha chiesto troppo a tutti e lui non sa come comportarsi. Sì, forse ha bisogno di tempo, credo dorma. Lo lascerò riposare, allora... Domattina passerò assieme a Nachi e Shiryu a portarle un cambio di vestiti. Buonanotte, Saori-san.»


La conversazione s'interruppe bruscamente e cadde il silenzio, che venne rotto dopo qualche secondo da un rumore di passi svelti che si allontanavano verso le scale.
Esausto, Ikki si lasciò cadere sul letto sfatto e coprì gli occhi col braccio che gli doleva: aveva cercato volontariamente la rissa di poco prima, in un modo assurdo di scendere a patti con quel malessere che gli stava avvelenando la vita e il fatto di aver aiutato quella ragazza era stato solo un risultato secondario rispetto all'obiettivo principale.


Tutto gli appariva senza senso e, mentre si preparava a una nuova nottata d'inferno, maledisse in cuor suo quello in cui si stava a poco a poco trasformando.
Cercava la distruzione, l’anelava e la vedeva sempre di più come l’unica via d’uscita da quella prigione che non voleva riconoscere come costruita da lui stesso.
Nervosamente, allungò la mano a cercare il lenzuolo semi-strappato da convulsi scatti di rabbia che sfogavano la propria potenza distruttiva su ciò che li circondava – e anche per questo aveva preferito nascondersi, in uno sprazzo di lucidità si era reso conto che non avrebbe mai potuto perdonarsi se, nel buio in cui era perduto, avesse ferito, o peggio , uno dei fratelli.


In una maniera contorta, stava cercando di proteggerli.


Col pugno stretto al petto, coperto dai brandelli della biancheria, Ikki si lasciò sfuggire un singhiozzo rabbioso, le lacrime scendevano bollenti lungo le guance graffiate, acuendo il bruciore che sentiva ma era un dolore che portava catarsi e una pace spirituale che da troppo tempo gli mancava, attenuava un altro tipo di dolore, più sottile e subdolo – quello della solitudine e dell’impotenza -, che lo confondeva e lo precipitava sempre più nel baratro.


Sarebbe bastata anche solo una parola, una debole richiesta d’aiuto mormorata a mezza voce, e di sicuro l’avrebbero udito, circondandolo di quell’amore totalizzante che solo un legame come il loro – forgiato da sangue e battaglie – poteva plasmare, eppure il solo pensiero gli stringeva la gola come una morsa, gli strappava il cuore dal petto e lo lasciava agonizzante e senza respiro, non avrebbe permesso a nessuno di avvicinarglisi: in un moto di orgoglio, quella situazione l’avrebbe gestita da solo; tra quelle quattro mura – le sole che stavano assistendo impotenti al suo lento tracollo – Ikki abbassò le palpebre, esausto e rassegnato agli incubi che il sonno gli avrebbe portato.


   
 
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