CAPITOLO 13
LACRIME NELLA NOTTE
“Andiamocene da qui!”
Le
voci concitate e le grida delle persone in fuga dal vicolo buio
attirarono l'attenzione dei pochi a passeggio per quella zona della
città a quell'ora così tarda, i testimoni che la
polizia interrogò
successivamente dissero di aver sentito delle grida e poi di aver
visto un gruppo di ragazzi scappare, travolgendosi e passandosi sopra
gli uni agli altri.
Qualcuno
era sicuro di aver visto anche un lampo di luce ma successivi
sopralluoghi non avevano rivelato niente.
Chiunque
fosse stato, e qualunque cosa avesse fatto, era già
scomparso da
tempo assieme alle prove delle sue azioni.
§§§
La
giovane donna, stretta al massiccio ragazzo, camminava nervosamente
attraverso quelle stradine nascoste poco illuminate, preoccupata
dagli sguardi che li circondavano dalle pieghe delle ombre.
“Tieni
lo sguardo basso.” la avvertì il suo compagno,
parandosi davanti a
lei come a proteggerla.
Lei
obbedì senza proferire verbo, la borsetta stretta al petto
come ad
un salvagente, e in breve uscirono alla luce dei lampioni, in una
strada tranquilla e poco trafficata, rassicurante nella sua
normalità
notturna: poco lontano da loro, i neon di un distributore automatico
invitavano a prendersi una pausa.
Senza
domandarle alcunché, il ragazzo la afferrò per un
polso e la
trascinò fin lì, lasciandola andare solo dopo
averla fatta sedere
sulla panchina lì affianco; fu solo in quel momento che ella
poté
finalmente vederlo in viso. E qualcosa nei suoi lineamenti le era fin
troppo familiare.
“Non
ti sei fatta niente, vero?” chiese all'improvviso lui,
scrutandola
con attenzione, quegli occhi grandi e scuri le davano una strana
sensazione a metà tra il rassicurante e lo spaventoso:
“S-Sì, sto
bene.” rispose lei, respirando profondamente per calmarsi,
“G-Grazie di essere intervenuto.” aggiunse,
cercando di
sorridergli con riconoscenza.
Questi scrollò le spalle con
noncuranza, poggiandosi al macchinario rosso brillante: “Ho
sentito
un grido.” disse semplicemente, incrociando le braccia al
petto,
“La prossima volta, ti conviene non passare da quel vicolo,
almeno
non a quest'ora.”.
Piena
di vergogna, lei abbassò lo sguardo: “Ho finito di
lavorare tardi,
quella strada di solito non è così
pericolosa…” confessò.
“Di
giorno le cose sono molto diverse. Quando cala il buio, i mostri
restano in agguato per aggredirti.”
Il
tono freddo e cupo del ragazzo la colpì profondamente, un
simile
cinismo, un pessimismo del genere… non era abituata a
reazioni come
quelle.
D'istinto, ella cominciò a frugare nella borsetta,
estrasse il portamonete e da esso tirò fuori una manciata di
spiccioli prima di alzarsi e dirigersi verso il distributore:
“Cosa
posso offrirti?”.
“Non
l'ho fatto per una ricompensa.”.
“Lo
so, ma voglio offrirti qualcosa.”.
“Sei
testarda.”.
“Lo
so.”.
Con
un sospiro, il giovane andò a sedersi al posto da lei
occupato poco
prima: “Del caffè.” disse soltanto,
incrociando le braccia
dietro la nuca.
Lei armeggiò qualche minuto con i pulsanti poi,
con le due lattine di caffè saldamente tra le dita, lo
raggiunse e
gliela consegnò: “Comunque io sono
Satsuki.” si presentò lei
con un sorriso.
Lui
non rispose, limitandosi a bere lentamente.
“Posso
chiederti come ti chiami?”.
“Puoi
farlo ma non è detto che ti
risponderò.”.
“E
perché?”
“Il
mio nome non è importante.”.
“Mi
piacerebbe comunque saperlo. Vorrei poterti ringraziare
adeguatamente.”.
Il silenzio che ne seguì durò qualche
minuto, minuti durante i quali nessuno – neppure una macchina
–
passò nei paraggi, una tranquillità quasi
innaturale rispetto al
caos della città; infine, dopo aver svuotato la lattina, il
ragazzo
la accartocciò tra le dita: “Ikki.”
disse soltanto, prima di
lanciarla nel cestino lì accanto, “Il mio nome
è Ikki.”.
Dire
che il cuore di Satsuki perse un battito è poco: era un nome
così
poco comune e quello sguardo così familiare e
caldo… Non poteva
avere dubbi.
“M-Mi sembrava di conoscerti, infatti.” rispose
lei con voce tremante: “Ci siamo già visti. Io
lavoro alla
clinica della Fondazione Graude, s-sono l'infermiera di tuo
fratello.”.
Ikki
non rispose, teneva lo sguardo ostinatamente rivolto verso un punto
lontano, concentrato su qualcosa che forse vedeva solo lui.
“Non
ti ho riconosciuto subito perché era da un po' che non ti
vedevo.”
ammise lei, stringendo la lattina semivuota tra le dita:
“Stavi
tornando a casa?” domandò.
Il ragazzo annuì appena, senza
però spostare lo sguardo di un millimetro.
“Tra
qualche settimana comunque dovrebbero dimetterlo, non so se
Makishima-sensei te lo abbia detto.”.
“Non
ho parlato con nessuno.”.
Il
tono freddo e cupo del giovane la fece trasalire, dandole una
spiacevole sensazione di gelo: “N-non importa. Probabilmente
non lo
hai incontrato durante le tue visite, è sempre molto
impegnato. Però
è una buona notizia, no?”.
“Non
mi sono spiegato bene.” disse all'improvviso Ikki, voltandosi
di
scatto e guardandola fisso in viso, lo sguardo gelido come il
ghiaccio: “Non ho visto nessuno e non ho parlato con
nessuno.”.
Fu
in quel momento che Satsuki comprese.
“Intendi
dire che non hai più fatto visita a tuo fratello da quando
si è
svegliato?” chiese lei con un filo di voce, non lo aveva
più visto
in clinica ma non pensava che fosse questa la verità.
Con
un gesto stizzito, Ikki si ravvivò i capelli prima di
mettersi le
mani in tasca: “Fai attenzione sulla strada di
casa.” disse
soltanto, prima di allontanarsi a passo svelto nella direzione
opposta alla quale erano venuti; interdetta, Satsuki ci mise qualche
istante prima di realizzare che, no, non poteva lasciarlo andare via
così', doveva capire, doveva parlarci.
Raccolta
rapidamente la giacca e la borsetta, la giovane infermiera gli
andò
dietro, guardandosi febbrilmente attorno nella speranza di prevenire
qualunque aggressione: una le era bastata; lo raggiunse dopo una
lunga camminata, trovandolo appoggiato, con gli occhi chiusi, come
concentrato in una profonda meditazione, al muro di cinta di un
signorile edificio che ella riconobbe all'istante come la residenza
di Lady Saori e, a quel punto, doveva esserlo anche di quei ragazzi
che della giovane nobile erano i fratelli.
Satsuki
non aveva mai razionalizzato del tutto quel legame familiare, li
aveva sempre visti muoversi nel fin troppo a lei noto ambiente della
clinica e non si era mai del tutto soffermata sulla questione, ma
vedere quel ragazzo lì, in quel momento, le diede una nuova
consapevolezza dei fatti.
“Perchè
mi hai seguito?” chiese Ikki all'improvviso, sollevando di
scatto
le palpebre.
“Voglio
capire.” replicò lei con assoluta fermezza nella
voce: “Ti ho
visto stare accanto a Seiya-kun, non posso pensare che tu non sia
più
andato a trovarlo dal suo risveglio, è assurdo e
impossibile.”
“Non
sono cose che ti riguardano.”.
“Invece
sì, dal momento che Seiya-kun è un mio
paziente.”.
“E
questo cosa c'entra?”
“Non
posso permettere che qualcosa – o qualcuno – lo
ferisca,
ritardandone la guarigione.”.
Tra
loro cadde il silenzio.
“Cosa
vuoi da me, esattamente?”
La
voce di Ikki suonava furiosa mentre le si rivolgeva ma Satsuki non si
dava per vinta: sarebbe andata a fondo di quella storia.
“Io
non ti sono nemica.” disse lei con un sospiro:
“Voglio capire e
aiutarti.” aggiunse, muovendo un passo in avanti,
“E' di tuo
fratello che stiamo parlando, se tra voi è accaduto
qualcosa, vale
la pena distruggere un legame per questo?”
Ikki restò in
silenzio, chiuso nel suo mutismo testardo ma, nei suoi occhi, Satsuki
leggeva una profonda tristezza che riverberava attraverso ogni fibra
del suo corpo: “Ho visto come e quanto ti sei preso cura di
lui in
questi mesi.” proseguì lei, gli occhi lucidi che
le pungevano per
le lacrime in agguato, “Ti ho visto asciugargli con pazienza
la
fronte, cambiargli il pigiama, parlargli e tenergli la mano, ti
vedevo anche quando, di notte, forse credevi che nessuno potesse
vederti. So che tu gli vuoi bene e anche per questo la tua reazione
mi pare incomprensibile.”
“Non
sai niente.”
“Spiegami
allora. Cosa è accaduto? E poi, perché quelle
ferite? Come ve le
siete procurate?”
“Basta.”
“Ma
posso...”
“HO
DETTO BASTA!”.
Il
grido di Ikki suonava come rotto da un pianto a stento trattenuto
mentre il pugno stretto andava a colpire con violenza il muro,
facendo al contempo sobbalzare la giovane donna per lo spavento, la
quale chiuse istintivamente gli occhi, temendo l'arrivo di uno
schiaffo che però non giunse.
Ikki,
dinanzi a lei, la fissava con espressione sbarrata, gli occhi che
mandavano fiamme, la osservò con apparente disprezzo per
alcuni
istanti prima di scappare via, nel buio della notte che diventava
sempre più fitta.
La
sua furia cieca e incontrollabile lasciò la giovane
prostrata, ella
cadde in ginocchio sull'asfalto, respirava affannosamente come dopo
una lunga e interminabile corsa, un rivolo di sudore freddo le
correva lungo la schiena ed ella tremava inconsultamente come se la
temperatura si fosse improvvisamente abbassata senza che se ne fosse
accorta.
Un
primo singhiozzo eruppe dalla sua bocca, poi un secondo, un terzo,
fino a diventare una sequela ininterrotta tra le lacrime di un dolore
che sapeva non appartenerle ma che era conscia fosse quello che Ikki
stava provando, aveva sentito qualcosa di tremendo defluire come un
veleno dalle parole del ragazzo, qualcosa che il suo cuore aveva
assorbito come una spugna, emozioni talmente forti e violente da
esserle estranee ma che fin troppe volte si era accorta di aver
notato nelle persone accanto a lei, con loro condivise in
virtù di
un'empatia talmente forte da averle reso, in passato, la vita
difficile.
Ikki
stava soffrendo, di questo ne aveva la più assoluta certezza.
Ma
capire come aiutarlo… era un problema forse troppo grosso
per
affrontarlo lei da sola.
Aveva
bisogno di aiuto.
§§§
«Sì,
Saori... Non è ancora uscito e la porta è chiusa.
Non ha neppure
toccato cibo.»
La voce preoccupata di Shun fu la prima cosa che
Ikki sentì dopo essere rientrato nella propria
stanza-prigione,
passando per la finestra che dava sul parco deserto della
proprietà.
Nessuna
guardia, nessun allarme, e se anche ci fossero stati, non gli avrebbe
comunque dato la minima importanza.
In
piedi e immobile nell'oscurità, tese l'orecchio per
afferrare
stralci di discorsi e parole dette a mezza voce attraverso la porta
chiusa, quelle scarne conversazioni telefoniche che riusciva a
sentire erano il solo mezzo che aveva per ricevere notizie, per
restare ancorato a quella realtà che non riusciva, ora
più che mai,
a percepire come 'giusta', una realtà che gli pareva fin
troppo
crudele e avvolta in un buio del quale - in tutta serietà -
non
riusciva a vedere la fine.
Non
era come l'oscurità a cui era abituato, quella del
male e
dell'odio che aveva giurato di combattere, piuttosto era qualcosa di
più sottile, qualcosa che non aveva percepito subito, un
malessere
che - almeno all'inizio - aveva imputato alla paura con cui, ormai da
tempo, aveva imparato a convivere; il suo coraggio era però
venuto
meno, incapace di sopportare oltre quella pressione emotiva che
minacciava di farlo a pezzi, le sue difese erano troppo scarne e si
sentiva confuso: gli sembrava come se fosse stato aperto un vaso
accuratamente nascosto che conteneva ogni singolo frammento della sua
umanità e che lui non riusciva a richiudere.
L'unica
risposta che era riuscito a trovare era stata quella di rinchiudersi,
isolarsi, lontano da qualunque forma di sentimento ed emozione che
avrebbe potuto farlo precipitare ancora di più nel baratro,
forse
troppo orgoglioso per chiedere un aiuto che non gli sarebbe stato
negato, non dalle persone che vivevano al di là della sua
porta e
che ormai avevano assunto la forma di voci e ricordi, non
più
fisiche e non più palpabili.
«Vorrei
che si aprisse con noi, Seiya non fa che chiedere di lui, non posso
continuare a mentirgli, Saori-san. Ne soffrirebbe. No, credo che
Ikki-niisan gli voglia... ci voglia bene, forse questa situazione ha
chiesto troppo a tutti e lui non sa come comportarsi. Sì,
forse ha
bisogno di tempo, credo dorma. Lo lascerò riposare,
allora...
Domattina passerò assieme a Nachi e Shiryu a portarle un
cambio di
vestiti. Buonanotte, Saori-san.»
La
conversazione s'interruppe bruscamente e cadde il silenzio, che venne
rotto dopo qualche secondo da un rumore di passi svelti che si
allontanavano verso le scale.
Esausto, Ikki si lasciò cadere
sul letto sfatto e coprì gli occhi col braccio che gli
doleva: aveva
cercato volontariamente la rissa di poco prima, in un modo assurdo di
scendere a patti con quel malessere che gli stava avvelenando la vita
e il fatto di aver aiutato quella ragazza era stato solo un risultato
secondario rispetto all'obiettivo principale.
Tutto
gli appariva senza senso e, mentre si preparava a una nuova nottata
d'inferno, maledisse in cuor suo quello in cui si stava a poco a poco
trasformando.
Cercava la distruzione, l’anelava e la vedeva
sempre di più come l’unica via d’uscita
da quella prigione che
non voleva riconoscere come costruita da lui stesso.
Nervosamente,
allungò la mano a cercare il lenzuolo semi-strappato da
convulsi
scatti di rabbia che sfogavano la propria potenza distruttiva su
ciò
che li circondava – e anche per questo aveva preferito
nascondersi,
in uno sprazzo di lucidità si era reso conto che non avrebbe
mai
potuto perdonarsi se, nel buio in cui era perduto, avesse ferito, o
peggio , uno dei fratelli.
In
una maniera contorta, stava cercando di proteggerli.
Col
pugno stretto al petto, coperto dai brandelli della biancheria, Ikki
si lasciò sfuggire un singhiozzo rabbioso, le lacrime
scendevano
bollenti lungo le guance graffiate, acuendo il bruciore che sentiva
ma era un dolore che portava catarsi e una pace spirituale che da
troppo tempo gli mancava, attenuava un altro tipo di dolore,
più
sottile e subdolo – quello della solitudine e
dell’impotenza -,
che lo confondeva e lo precipitava sempre più nel baratro.
Sarebbe
bastata anche solo una parola, una debole richiesta d’aiuto
mormorata a mezza voce, e di sicuro l’avrebbero udito,
circondandolo di quell’amore totalizzante che solo un legame
come
il loro – forgiato da sangue e battaglie – poteva
plasmare,
eppure il solo pensiero gli stringeva la gola come una morsa, gli
strappava il cuore dal petto e lo lasciava agonizzante e senza
respiro, non avrebbe permesso a nessuno di avvicinarglisi: in un moto
di orgoglio, quella situazione l’avrebbe gestita da solo; tra
quelle quattro mura – le sole che stavano assistendo
impotenti al
suo lento tracollo – Ikki abbassò le palpebre,
esausto e
rassegnato agli incubi che il sonno gli avrebbe portato.