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Autore: Heihei    08/04/2017    1 recensioni
Bethyl-AU
Quegli stupidi degli amici di Beth sono determinati a rendere il suo diciottesimo compleanno memorabile, peccato che le loro buffonate la faranno restare bloccata in un brutto quartiere di una città sconosciuta, attualmente pattugliato dall'Agente Shane Walsh. Minacciata sia dagli agenti che dai criminali, dovrà rassegnarsi alla compagnia di un gruppo di zotici, tra cui un certo redneck particolarmente scontroso.
**Questa storia NON mi appartiene, mi sono limitata a tradurla col consenso dell'autrice**
Genere: Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Beth Greene, Daryl Dixon, Maggie Greeneunn, Merle Dixon
Note: AU, Traduzione | Avvertimenti: nessuno
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V. She looks good in Greene (*)

 

 

Nella stanza di Nick erano presenti molte tracce del passaggio di una donna. Le lenzuola erano macchiate di mascara e, abbandonati in un angolo, c’erano dei calzini di piccola taglia, ma Beth non aveva sentito parlare di nessuna moglie o fidanzata fino a quel momento. Forse era via.
Si sedette ai piedi del letto, avvolta da un fastidioso tanfo di muffa. Almeno era comodo e abbastanza lontano dalle grida provenienti dalla televisione. E poi, inutile dire che poteva starsene da sola.
Richiamò Maggie, che rispose dopo un solo squillo. Dai rumori di sottofondo, intuì che stava guidando.
“Va tutto bene?”, le chiese sua sorella freneticamente.
“Più o meno. Non sono riuscita a superare gli agenti.”
“Ti hanno presa?”
“Non proprio… è stato...”
Cercò di pensare a una parola adatta a descrivere quello che era successo con Daryl nel bosco, oltre a imbarazzante o mortificante. L’Agente Shane aveva frainteso tutto. Non le aveva chiesto il nome, ma il numero civico della casa. Questo significava che forse più tardi sarebbe venuto a fargli visita, ma era abbastanza sicura di avergli dato il numero sbagliato.
“...Mi hanno fatta tornare indietro.”
Maggie sospirò. “Non avrei mai dovuto permetterti di farlo, avrei dovuto dirti di stare lì finché non sarei arrivata e avrei parlato con la polizia”, disse con una nota di rabbia.
“Non sono sicura che ti ascolteranno.”
“Ma non hanno alcun motivo di tenerti lì! E’ violazione della… beh, non lo so, dovrei chiamare Andrea, lei dovrebbe saperlo.”
Il cuore di Beth saltò un battito. Non voleva che la cosa arrivasse ad altre persone.
“Chi?”
“Andrea, il nuovo avvocato dello studio. Se c’è qualcosa di losco, chiamerà la polizia e lo scoprirà. Le piacciono questo genere di cose.”
“Per favore, Maggie, non chiamare nessuno. Voglio solo tornare a casa. E poi se coinvolgi un avvocato come facciamo a nascondere tutto a mamma e papà?”
Per qualche interminabile secondo, Maggie rimase in silenzio e a tenere compagnia a Beth ci fu solo il rumore del vento.
“Beth, non voglio metterti in pericolo”, disse finalmente, “ma la cosa è seria e il fatto che mamma e papà lo possano scoprire dovrebbe essere l’ultima delle tue preoccupazioni.”
“Possiamo non pensarci, per ora?”
“… Va bene. Proverò a parlare con la polizia, ma non posso garantirti quello che farò se non mi daranno ascolto.”
Beth si sentì male solo al pensiero di quello che sarebbe potuto succedere.
“Maggie, per favore...”
“Non mi hai neanche detto in che situazione ti trovi!”
“Minnie e Karen… volevano prendere qualcosa prima del concerto”, mormorò.
Maggie scoppiò in una risata nervosa. “Sei bloccata e circondata dalla polizia… a casa di uno spacciatore?!”
“In realtà lui è a posto”, tentò di difendere Nick, ma si rese conto di quanto fosse poco credibile. “Beh, voglio dire… non lo so, probabilmente non lo è.”
“Probabilmente?!”
“Voglio dire… non è il peggiore. Minnie e Karen si stanno comportando da stupide, come se tutto questo fosse solo un gioco e come se non ci fosse nulla di cui preoccuparsi.”
“E chi è il peggiore?”
“Non lo so… sono tutti un po’ ambigui. Uno di loro mi ha inseguita quando ho tentato di scappare.”
“Cosa?! Non avevi detto che era stata la polizia a farti tornare indietro?”
“Stava solo cercando di assicurarsi che non attirassi la polizia in casa. Non voleva farmi del male, ma l’Agente Shane ci ha visti e...”
Beth esitò, indecisa se omettere o no quella parte. Si sentiva così in colpa per essere scappata da Daryl. Avrebbe dovuto fermarsi la prima volta che l’aveva chiamata e parlare con lui come due persone civili. Le aveva detto che se voleva andare via l’avrebbe aiutata, ma dopo quello che aveva subito dall’Agente Shane ne dubitava. L’aveva giudicato dall’apparenza, non gli aveva dato modo di parlare e, come risultato, era stato preso a pugni. Ed era tutta colpa sua.
“E’ stato un po’ burbero, ma io non gli ho dato scelta.”
“Chi?”
“Daryl, quello che mi ha seguita.”
“Ok, Nick e D-A-R-R-E-L? Conosci il cognome?”, le chiese Maggie.
Dixon. Ma non voleva dirglielo.
“Non ne ho idea… aspetta, stai guidando, scrivendo e parlando a telefono contemporaneamente?”
“Sì, lo so, è un talento.”
“Perché stai scrivendo i loro nomi?”
Beth si morse il labbro. Forse avrebbe dovuto chiamare Shawn. Era più lontano e sicuramente avrebbe detto tutto ai suoi, ma almeno non conosceva nessun avvocato.
“Hai detto Agente Shane?”
“Sì, Agente Shane Walsh, ma perché stai scrivendo i loro nomi?”
“Potrebbero essermi utili.”
“Maggie, io non voglio denunciare nessuno, voglio solo tornare a casa!”
Maggie sospirò ancora. “Non denunceremo nessuno, voglio solo spaventarli un po’ se sarà necessario. Hai qualche altro nome?”
“Merle, che è il fratello di Daryl. Poi c’è una coppia di cugini, Evan e Jeremiah, e un altro ragazzo, Andy.”
“Ok. Sono ancora lontana, c’è traffico, ma cercherò di essere lì il prima possibile.”
Appena staccarono, Beth si stese sul letto, continuando a pensare agli avvenimenti dell’ultima ora o giù di lì. Avrebbe dovuto restare in macchina con Luke e Leon, o fermarsi quando Daryl l’aveva chiamata.
Non riusciva a capire perché le dispiacesse così tanto per lui, del resto aveva avuto quel che si meritava per averle messo le mani addosso. Forse era per quello che le aveva detto nel bosco, mentre stavano tornando.
“Non avrei dovuto toccarti, avrei dovuto lasciarti scappare.”
Dalla sua voce trapelava un tale disprezzo per se stesso che le scosse il cuore. Lui pensava di essere una cattiva persona e lei aveva contribuito al raggiungimento di quella convinzione.
Beh, forse lo è davvero, pensò, ma c’era qualcosa dentro di lei che le faceva pensare anche l’esatto contrario.
Il suo telefono cinguettò. Senza spostare la guancia dal cuscino, lesse il messaggio. Era di un numero sconosciuto.
“Hey Beth, Minnie è ancora arrabbiata?”
“Chi sei?”
“Luke. Karen ha lasciato il telefono in macchina e quindi ho visto il tuo numero. Ora anche tu hai il mio, nel caso ne avessi bisogno ;)”

Beth aggrottò la fronte. Stava davvero cercando di flirtare con lei? Era davvero così stupido?
“Minnie vi ucciderà.”
Luke le rispose in una frazione di secondo.
“Mh… non sono mai stato ucciso, prima d’ora.”
A dispetto di se stessa, le scappò un sorriso.
“...E tu, sei arrabbiata?”, aggiunse poi.
A essere sincera, sì, era arrabbiata con loro. Se solo non si fossero spaventati così facilmente e le avessero aspettate solo per altri sessanta secondi, probabilmente sarebbero rientrate in macchina e se ne sarebbero andati prima che la polizia mettesse su la barricata.
“Per cosa dovrei essere arrabbiata? Perché tu e tuo fratello ci avete lasciate qui con un gruppo di criminali al primo segno di pericolo?”
Stavolta, ci mise un bel po’ di tempo a rispondere.
“Beh, se la metti in questo modo… Non mi aspetto che tu mi creda, ma io non volevo lasciarvi lì. Era Leon a guidare.”
Beth non riuscì a pensare a una risposta adatta, ma voleva trovarla il prima possibile. Aveva imparato tempo prima che i ragazzi in questi casi si fanno un’infinità di film mentali. Ma lui fu più veloce di lei.
“Ancora amici?”
Si erano conosciuti solo poche ore prima, non potevano considerarsi amici. Ma non voleva essere cattiva.
“Certo.”
Rilesse la sua risposta verificando che fosse abbastanza gentile e la inviò, poi mise via il telefono e si stese su un fianco, portandosi le gambe al petto.

 

● ● ●

 

Il sole stava cominciando a tramontare alle sue spalle mentre si avvicinava alla porta sul retro della casa numero 639 di Kelly Jo Ave. Sbirciò gli interni da un paio di finestre e si rese conto che, quella volta, poteva essere fortunato: sembrava che nessuno fosse in casa e, se c’erano, dovevano essere nelle camere da letto.
Controllò la porta che, fortunatamente, non era chiusa a chiave. L’aprì lentamente, cercando di non fare rumore e, prima di entrare, si guardò nuovamente intorno.
La casa era silenziosa e impeccabilmente pulita e ordinata. Il fatto che abitassero a Kelly Jo Ave lasciava intendere che non stessero poi così bene economicamente, ma non lo davano a vedere. Il delicato ticchettio dell’orologio sul camino era l’unico segno di movimento presente. C’erano un paio di foto appese al muro: mostravano un uomo alto e robusto dall’espressione seria accanto a una bella donna dai capelli corti e grigi che rivolgeva all’obiettivo un sorriso un po’ forzato. Avevano una bambina, sembrava la più felice dello scatto. Nelle foto più recenti, invece, era diventata un’adolescente magrissima con l’inequivocabile tendenza a nascondersi dietro i suoi capelli. Forse nessuno dei tre era in casa ed erano rimasti chiusi fuori dalla barricata, ma si mosse comunque con cautela, nel caso fossero semplicemente nelle loro camere da letto. Voleva sentirli prima che loro potessero sentire lui.
Uscendo dalla cucina, in corridoio, trovò una piccola lavanderia. Aprì la lavatrice ma, per sua sfortuna, la vicina di Nick aveva già sbrigato le faccende di casa. Avrebbe dovuto cercare nelle camere da letto. Strisciò sulle scale, dosando il peso ad ogni passo per evitare che scricchiolassero, ma, a differenza di quella di Nick, quella casa era più o meno in buone condizioni.
Una musichetta proveniente da una delle stanze lo bloccò in cima alle scale. Era la suoneria di un cellulare.
“Pronto?… Ed, ma non dovevi essere già a casa a quest’ora?”
Riuscì a sentire anche qualche imprecazione della persona dall’altra parte della cornetta, tanto che stava gridando.
“Non ne so niente!”, si difese la donna, chiaramente in ansia. “No! Io non… stavo solo aiutando Sophia con i compiti… sì, le ho sentite le sirene, si sono fermati qui.”
Daryl identificò la stanza da cui provenivano le voci e s’intrufolò in un’altra che sembrava essere la più grande. Volendo uscire da lì il prima possibile, si fiondò sul primo mobile che vide e prese una maglia dalla torre di vestiti appena piegati. Era un semplice top grigio, ma sembrava della sua taglia.
Si mise la mano in tasca, alla ricerca di quegli otto dollari che gli erano rimasti, evitando volutamente la voce di Merle che nella sua testa continuava a ripetergli quanto fosse stupido pagare per qualcosa che stava rubando. Li poggiò sulla pila di vestiti e richiuse delicatamente il mobile.
“Hai completamente ragione, Ed. Mi dispiace.”
La voce della donna si avvicinava e, visto che quasi sicuramente era diretta proprio in quella stanza, Daryl corse in bagno.
La donna entrò subito dopo che chiuse la porta. La sentì sospirare mentre si sedeva sul letto.
“Che hai detto?”
“Ho semplicemente sospirato, Ed”, rispose lei. Sembrava stanca.
“Ora so che non mi prenderai più per il culo”, disse la voce a telefono.
Daryl strinse i denti e controllò la finestra, ma era troppo alta e non aveva alcuna intenzione di spezzarsi le ossa.
“Scusa”, disse la donna.
La voce di quell’Ed si era abbassata e quindi non riuscì più a sentirla, ma dopo qualche secondo lei disse: “Sto andando a letto. Sophia sta già dormendo.”
Attese qualche secondo, valutando le varie opzioni. Tra farsi beccare nel suo bagno e uscire per provare a spiegarle la situazione, gli sembrò più opportuno uscire allo scoperto. Se poi lei avesse dato di matto, sarebbe scappato. Non sarebbe stata la prima volta.
Rassegnandosi al suo destino, si chiese se l'avrebbero arrestato per violazione di domicilio. Era sicuramente meglio di un tentativo di molestia sessuale, almeno sarebbe stato davvero colpevole.
Lentamente, aprì la porta del bagno senza fare rumore e uscì. La donna, magra e dai capelli grigi, era stesa su un fianco, dandogli le spalle, ma, appena si mosse, la vide irrigidirsi. Un secondo dopo, si voltò con un’espressione impaurita e lo vide. Daryl alzò le mani, nel tentativo di non sembrare minaccioso e approfittò del suo momentaneo silenzio per parlare.
“Ti sto solo derubando.”
Un secondo dopo aver pronunciato queste parole, si rese conto di quanto non fossero rassicuranti.
“Ho bisogno solo di questa, ok?”
Le mostrò la maglietta, ma la donna non disse nulla. Se ne stava lì, con la bocca spalancata, a far oscillare il suo sguardo tra lui e il top che aveva in mano.
“E’ un… c’è una ragazza qui vicino bloccata qui per colpa della barricata. Le si è strappata la maglietta e ha bisogno di qualcosa da mettersi addosso, quindi ho preso questa e ti ho lasciato qualche dollaro.”
“Non potevi chiedere?”, disse la donna, con un’espressione colma di sospetto.
Improvvisamente imbarazzato, Daryl annuì. In realtà, non aveva proprio considerato quella possibilità. Aveva dato per scontato che gli dicesse di no.
La donna si alzò dal letto e riaprì il mobile, prese le banconote, le piegò e gliele rimise in mano.
“Dammi un minuto”, mormorò mentre apriva un armadio più grande.
Tirò fuori una camicetta verde e, con un solo rapido movimento, gli strappò di mano il top grigio.
“Prendi questa, a mio marito non piace.”
Daryl ispezionò il materiale morbido con le sue mani ruvide e annuì.
“Grazie.”
“Andiamo.”
Con un gesto aggressivo, gli fece cenno di uscire dalla stanza.
Ritornati al piano di sotto, lei lo guidò automaticamente verso la porta principale, ma Daryl le indicò la porta sul retro. Questo gli fece guadagnare un’altra occhiataccia.
“Sei troppo a tuo agio a entrare nelle case altrui”, mormorò. “... Ma è quel che mi merito per aver lasciato la porta aperta.”
Si fermò sull'uscio prima di andarsene.
“Grazie ancora...”
“Carol.”
“Grazie, Carol. Solo...”
Non erano affari suoi e neanche cose da lui, ma sentì il bisogno di dirle qualcosa.
“...Prenditi cura della vostra bambina.” Si guardò i piedi. “Portala via di qua, se serve. Quelli come lei hanno bisogno di qualcuno che si prenda cura di loro.”
Carol impallidì.
“Esci da casa mia.”
Daryl annuì e si allontanò senza aggiungere altro. Aveva ragione. Non sapeva cosa l’avesse spinto ad aprire la bocca, non era un tipo loquace. Era già abbastanza essere entrato in casa sua e aver invaso la sua privacy, non doveva immischiarsi. Tra l’altro, non aveva mai visto sua figlia, non poteva sapere come reagiva alla cosa, anche se poteva averne una vaga idea.
Tornato fuori casa di Nick, attraverso una delle finestre, vide Beth stesa sul letto con gli occhi chiusi, anche se non pensava che stesse dormendo davvero. Non mostrava alcun segno di rilassamento: aveva la mascella serrata e le braccia strette con forza attorno alle ginocchia.
Il suo sguardo cadde sulla camicia che stringeva tra le mani, per poi tornare su di lei. Già sapeva che le sarebbe piaciuta.

 

● ● ●

 

Beth non avrebbe mai potuto sentirsi al sicuro ad addormentarsi nel letto di uno spacciatore, ma decise di fingere di poterci riuscire ancora per un po’. Anche se avesse voluto rilassarsi, ogni volta che sentiva un urlo, una risata sguaiata o la televisione, oppure ogni volta che qualcuno passava fuori la porta, s’irrigidiva immediatamente.
Sentiva Nick parlare, probabilmente a telefono. Dato che si era fermato fuori la sua porta da un po’, riuscì a catturare dalla sua telefonata alcune frasi compromettenti. In sostanza, stava informando qualcuno che forse avrebbe potuto fare un mucchio di soldi in breve tempo.
A un certo punto, al piano di sotto, gli altri cominciarono ad alzare i toni e a fare casino. Quando il loro vociare si trasformò in grida, Beth decise che era giunto il momento di uscire e assicurarsi che non fosse successo niente e che le sue amiche stessero bene.
“Vi lascio da soli per venti minuti e cominciate a fare i cazzoni!”, sentì Daryl gridare dalla cucina.
“Oh, andiamo, ci stiamo solo divertendo un po’”, disse Evan, ridendo.
“Perché gliel’hai lasciato fare?”
“Ti sembro un dannato babysitter?!”, si difese Merle.
“Mi sembri uno stronzo che sta per farsi ammanettare, di nuovo!”
Quando si decise a entrare in cucina, Beth trovò Merle e Jeremiah seduti a tavola con delle carte in mano. Evan e Andy erano appoggiati allo stipite della porta del soggiorno e li stavano guardando increduli. Daryl, invece, era dall’altro lato del tavolo, con un gruzzolo di tessuto verde in mano.
“Daryl ha ragione”, disse Jeremiah lanciando ai due ragazzi un’occhiata cupa, “è come se non sapeste che siamo circondati da circa quaranta volanti. Nick s’incazzerà parecchio.”
Passò una carta a Merle.
“Perché piuttosto non vi unite a noi?”
“Ma le ragazze...”, Evan provò a giustificarsi.
“Staranno bene da sole per qualche minuto. Voglio parlare, siediti.”
Jeremiah fu così autoritario che ogni traccia di divertimento sparì dal volto del cugino, che a malincuore prese posto accanto a lui, seguito a ruota da Andy.
“Spera che gli sbirri non vengano a trovarci”, mormorò Daryl.
Stava parlando con lei, senza però incrociare il suo sguardo. Le lanciò quello che aveva in mano e le finì sulla spalla. Beth l’afferrò e cominciò a osservarlo.
“Buon compleanno”, borbottò, sempre senza guardarla.
Era una camicetta verde ed era anche carina. Dove l’aveva trovata?
“Grazie”, gli disse, confusa.
Merle guardò prima lui e poi lei con un piccolo ghigno.
Non vedendo Minnie e Karen, Beth si precipitò nel soggiorno. Quello che i ragazzi avevano detto finora non prometteva nulla di buono.
Infatti, le ragazze erano sedute a terra, con la schiena contro il divano, a ridere come due imbecilli. Riconobbe il rossore dei loro occhi e sospirò profondamente. Erano fatte.
“Sai, Evan, non voglio che tu esca con mia figlia, sembra che tu abbia una brutta influenza su di lei”, sentì Merle sghignazzare dalla cucina.
Esasperata, tornò in camera da letto per cambiarsi e mettersi la camicia che Daryl le aveva preso chissà dove. Era piuttosto sospetto, ma cercò di non pensarci. Era stato molto dolce da parte sua e doveva prenderla semplicemente così. Si fermò davanti allo specchio a sistemarsi le maniche e doveva dire che le stava anche bene.
Quando tornò in corridoio, lo vide appoggiato alla ringhiera delle scale, da solo. Beth esitò un attimo prima di fermarsi di fronte a lui. Aveva un taglio sul sopracciglio sinistro, che forse era il segno più piccolo e meno grave che gli aveva lasciato l’Agente Shane. Non si mosse per guardarla, sembrava assorto nei suoi pensieri.
“Grazie”, gli disse, in un sussurro appena udibile.
Daryl alzò lo sguardo, in parte coperto dai capelli, su di lei e scrollò le spalle.
“Dovevo, sono stato un bastardo.”
Beth scosse la testa. “No, non lo sei stato”, ribatté, “avrei dovuto fermarmi quando mi avevi detto di...”
“No”, la interruppe. La sua voce sembrò quasi un grugnito. Esitò, nel vano tentativo di ammorbidire il tono. “Hai semplicemente fatto quello che dovevi.”
Non era d’accordo con lui, ma rimase in silenzio. Aveva capito quello che stava cercando di dirle.
“Tu… l’Agente Shane… avete fatto bene. L’unico ad aver sbagliato sono io.”
Beth si strinse nelle spalle. “Stavi solo cercando di proteggere gli altri.”
“Non importa quello che stavo cercando di fare”, mormorò, “bisogna prendersi le proprie responsabilità.” La sua voce divenne di nuovo roca. “Dovresti sempre scappare dai figli di puttana, potrebbero farti del male, non vedo perché ti saresti dovuta fidare di me.”
C’era del senso di colpa nel suo sguardo, ma il suo intento era quello di farle capire che era serio.
Beth pensò che era troppo duro con se stesso, ma non riusciva a trovare le parole giuste per rassicurarlo. Il suo sguardo così intenso e fermo sul suo viso la fece arrossire in un nanosecondo. Non riusciva a sostenerlo, così tornò a guardare con insistenza quel taglio che aveva sul sopracciglio.
“Non riesco a credere a quello che ti ha fatto”, gli disse.
Contro ogni aspettativa, Daryl quasi sorrise. “Era la cosa giusta da fare. Dovresti sentirti più al sicuro al pensiero che esistono dei poliziotti come l’Agente Shane, che sanno cosa fare con gli stupratori.”
“Ma tu non lo sei”, sussurrò.
Suonò quasi come una domanda, ma non lo fece di proposito. Le sue guance s’infiammarono per l’imbarazzo. Sapeva benissimo cosa sembrava che le stesse facendo dal punto di vista dell’Agente Shane e non voleva neanche dirlo ad alta voce. Ripensò a quello che era successo, a quando era schiacciata sotto di lui e aveva sentito il suo battito contro la sua schiena. Era lento, quasi calmo. Il suo, al contrario, sembrava impazzito. La prima immagine che le venne in mente fu quella di un uccellino intrappolato in una grande mano, con le ali bloccate.
“Chi pensi che io sia?”, le chiese.
Beth fece le spallucce. “Uno sconosciuto.”
Il suo sguardo la fece sentire di nuovo in trappola, anche se questa volta non l’aveva neanche sfiorata.
“Hai un cognome, Beth?”, borbottò.
“Greene. Mi chiamo Beth Greene.”
“Beth Greene, sappi che non voglio farti del male. Nessuno in questa casa lo vuole. Ti sto solo tenendo d’occhio per impedirti di crearci dei problemi.”
Lei annuì quasi automaticamente.
“E sì, sono uno sconosciuto. E non hai alcun motivo di fidarti di un estraneo, Greene.”
Beth distolse lo sguardo dal suo.
“Credo di non avere altra scelta.”
Daryl non rispose. Continuò a guardarla mentre si allontanava, finché non sparì nel soggiorno.



 

 

(*) Non ho tradotto il titolo perché l’autrice gioca sul fatto che la camicia che Daryl ha preso a Beth sia di colore verde, quindi “green”, e che il cognome di Beth sia “Greene”. Quindi niente, mi sembrava opportuno lasciarlo così.

   
 
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