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Autore: Gazy    08/06/2009    3 recensioni
Questa storia è per tutti, ma sono sicura che pochi l'apprezzeranno. Dimenticate l'Edward dolce e premuroso della Meyer. Il mio è un'Edward oscuro... un'Edward dannato. Bella vi sembrerà la solita imbranata, ma scoprirete quanto sia diversa dall'originale solo se mi seguirete. Non parlo di sfacciataggine, di malizia o aggressività... la mia Bella ha la chiave di questa storia. Ci saranno nuovi personaggi e totali stravolgimenti. Se siete sicuri che questo possa piacervi, allora leggete! ^.^ ...[Improvvisamente sentii lo schiocco metallico di un accendino a benzina e, subito dopo, una fiammella galleggiò nel buio. Alla mia destra, infondo al bancone, una bocca espirò un soffio di fumo. Smisi di respirare, il corpo indurito dall’aspettativa mentre distinguevo una sagoma nera seduta su uno sgabello, perfettamente mitizzata dalle tenebre. Mi resi conto che, se avesse voluto, avrebbe potuto farmi credere che il locale fosse deserto restando semplicemente immobile]...
Genere: Romantico, Sovrannaturale, Suspence | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Edward Cullen, Isabella Swan
Note: Alternate Universe (AU), OOC | Avvertimenti: nessuno
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(Lesson n.1): Il passato prima o poi torna a tormentarti
Ieri…

“Ti amo”
Due parole dall’immenso significato, sottovalutato quando non si conosce, trascurato dal mio modo convinto di vivere. Non avrei mai immaginato di poter essere manipolata così, come cera calda, malleabile tra le mani di quel sentimento crudele. Mi parve improvvisamente di aver lottato una vita intera una guerra contro di esso, di aver resistito fino all’ultimo, fino a quel momento, che mi vedeva vinta.
Avevo perso. Ed ora, eccomi qui… che offrivo il mio cuore e la mia anima ad una persona che credevo di conoscere. Il suo aspetto – soprattutto i tratti del suo viso e i suoi splendidi occhi – l’avrei potuto riportare su tela con la minuzia di un esperto pittore, per quanto allungo l’avevo studiato.
Mi sentivo una stupida ragazzina. Irrazionale e tremendamente fragile come non ero mai stata. In contemporanea, il mio orgoglio mi chiedeva come potevo farmi questo: umiliarmi in un modo che normalmente non avrei mai concepito, se non fossi stata accecata dalla luce di quell’opprimente emozione. C’era dunque  una parte di me che aveva minacciato di implodere ed era stata quella ad obbligarmi! Mi ero esposta per non uccidere il mio cuore in quell’implosione. Avevo sentito il bisogno di liberarmi, come se quello fosse stato un peccato mortale da confessare ad un prete.
Lo guardavo. Sapevo che era molto più alto di me , ma in quel momento mi sembrò un gigante. Probabilmente era lo scalino sul quale rimaneva a farlo tanto imponente. Io avrei voluto portarlo in giardino - l’intenzione di passeggiare mi calmava - però lui si era fermato lì, deciso a non andare oltre.
Pareva avere addosso una gran fretta. Avevo letto preoccupazione nei suoi occhi quando l’avevo chiamato da parte.
“Allora…” non avevo idea di cosa fosse più giusto dire in quelle occasioni.
Mi sembrava di recitare in un film, solo che il mio personaggio era più autentico di tutte le parti mai recitate dalle Star del Cinema. Mentre aspettavo, nel mio petto il cuore pulsava di dolore come la spia di un macchinario guasto. Com’era possibile? Forse era la mia immaginazione! Un dolore generato dalla mia fantasia, tanto vivo e reale da farmi ansimare. Martellava… mi suggeriva di gridare, di piangere, di farmi male. La maschera di cordiale apparenza si era alla fine sgretolata sotto i colpo di un martello fatto di sensazioni. Ero rimasta solo io, nuda, bersaglio facile di prede e predatori.
“Stai calma, respira Bella” mi incitò, con la sua voce squisita, bassa e densa come crema.
Non era rimasto impassibile di fronte alla mia dichiarazione. L’avevo visto accennare un sorriso, nato da chissà quale sentimento, mi chiesi. Forse mi credeva pazza… forse aveva ragione.
 “Non l’ho mai fatto prima, non so cosa mi succede” sussurrai.
In tutta sincerità, ero convinta di essere preda di un incantesimo. Quella non potevo essere io!
Può una persona del tutto razionare impazzire d’amore nell’arco di pochi istanti?
“Calmati” incitò ancora. Voleva rassicurami, tuttavia rimaneva su quello scalino, senza avvicinarsi. Era diverso dalle altre volte, da quei pomeriggi trascorsi insieme.
Pensai che avesse paura, che ci fosse qualcosa che gli impediva di togliere distanza tra noi. Che cosa stupida… Era come vedere un lupo impaurito dal belato di un agnellino.
Ma poi mi venne in mente qualcosa di infinitamente peggiore…
“Io non ti sto chiedendo nulla, sai?!” mi affrettai a dire “Mi basta rimanerti accanto, come sempre. Se tu decidi di restare, sarebbe il massimo per me!”.
Lo stavo pregando! Patetica. L’avevo mai fatto? Cercai di ricordare un momento della mia vita nel quale avessi pregato una persona, anziché il mio Dio. No, era una cosa che mi ero vantata di non aver mai fatto.
“Cosa dici?” gli chiesi fremente.
Mi fissava, lo sguardo fermo e quelle benedette dita appoggiate al corrimano; sembravano pronte ad afferrarlo, per poi aiutare il resto del corpo a risalire la rampa il più velocemente possibile.
“Mi dispiace, ma devo andare” rispose, per poi aggiungere a mezza voce: “Sei così piccola…”
“Non è vero! Farò sedici anni tra qualche mese!”
Insufficiente. Tra me e lui c’era un divario di anni che il mio imminente compleanno non avrebbe risanato. Lo sapevo… ma ora che mi ero buttata, valeva la pena sbattere le ali per provare a volare.
“Mi dispiace” disse di nuovo. Osservai come scuoteva piano la testa, con un’espressione rammaricata, ma non troppo. Gli occhi tristi, ma non abbastanza. Il corpo rigido, ma non immobile.Era il secondo protagonista di quel dramma, però non emotivamente coinvolto quanto il primo.
“Dispiace più a me, credimi” parlai con amarezza.
Lo sguardo mi era scivolato per un attimo altrove, puntando le scale che mancavano per arrivare al secondo piano. Incredibile come il caso mi avesse suggerito il momento giusto: i corridoi erano del tutto deserti.
Tornai a fissarlo. I miei occhi erano liquidi, tuttavia non avrebbero versato neppure una lacrima di fronte a lui. Mi era rimasta una briciola di dignità da difendere, così sopportai il bruciore in silenzio.
“Stai bene?”
Domanda stupida: non avrei mai pensato che Edward sarebbe caduto in queste banalità.
Comunque annuii, per assecondarlo.
Con la coda dell’occhio vidi le sue dita staccarsi dal legno scadente del corrimano, indugiare verso di me e…  tornare indietro. Per una frazione di secondo avevo sperato che quelle dita incontrassero la mia guancia, che mi dessero un po’ di conforto. Lui lo faceva! L’aveva sempre fatto quando ero triste! Perché ora era diverso?
“Adesso torniamo dagli altri. Ci staranno cercando” disse, sorridendomi.
Non era l’Edward che avevo conosciuto. Si era allontanato da me.
…era colpa mia.
 “Si”.
Salii le scale come un automa, tanto da non percepire nulla se non il mio respiro.
Mi sentivo pietra.
“Non ti sei offesa, vero Bella?” mi chiese.
Le scale erano finite. Davanti a noi c’era la sala gremita di gente; festosa, rideva e ballava, scherzava e beveva. Tutta quella vita mi sembrava lontana… irraggiungibile.
“No” mentii ancora una volta. “Infondo, un giorno potresti sempre cambiare idea”.
Silenzio.
Le urla allegre erano svanite, non esistevano nella mia testa.
Lui mi fissò con sguardo profondo, nero e senza speranze, si scontrava col mio…
… vivo, nonostante tutto.
“Già”.

Oggi…
Quella mattina il mondo sembrava avere una strana consistenza lattiginosa, luminoso e sfavillante come il bosco delle fate. Non era spiacevole tuttavia, anzi lo trovavo davvero… bello. Mi guardai attorno con un sorriso largo. Camminai sicura verso le scalinate della scuola: i miei piedi galleggiavano su un paio di tacchi altissimi come se non avessero fatto altro per tutta la vita.
Ero felicissima. Non avevo idea del motivo… ma lo ero davvero.
Guardandomi attorno potevo vedere solo persone che mi fissavano: ammiravano la mia bellezza e la mia eleganza. Si capiva che le ragazze erano gelose del mio raffinato portamento, delle miei gambe perfette messe in bella mostra dalla gonna corta, e della magliettina griffata dalla tinta sgargiante. I miei capelli non erano mai stati tanto curati, svolazzavano leggeri nell’aria e buttavano bagliori accecanti color mogano.
“Bella, posso portarti i libri?” mi chiese improvvisamente un ragazzo. Era basso e portava un paio di occhiali che gli scendevano sul naso.
“No Bella, lascia che sia io a portarti i libri!” si oppose un altro, sbucato dal nulla e decisamente più affascinante.
“Ignora questi mocciosi Bella, sarò io a portarti i libri!”
Questo ragazzo era ancora più bello degli altri due, che aveva spostato bruscamente con uno spintone. Io invece continuavo a sorridere. Il mio era un sorriso abbagliante, che produceva sfavilli sui loro visi adoranti.
“Non litigate per me. Potete sempre dividervi la giornata! Uno mi porterà i libri nelle prime due ore, uno nella terza e quarta, e l’altro alla quinta e sesta.” Dissi soddisfatta, gesticolando con un dito dall’unghia laccata da un brillante rosa confetto.
“Oh certo! Tu sì che sei intelligente Bella!” elogiarono in coro.
Mi guardavano come se fossi stata una Dea scesa in terra…
Ero popolare… e bellissima.
… bellissima.
… lissima.
… issima.
“NOOOOOO!!!” gridai senza ritegno nella quiete della mia disordinata stanza.
Per fortuna era stato solo un brutto sogno! Cercai di riprendere il controllo del mio cuore, posando la mano sul petto per consolarlo. Dopo alcuni minuti smise di bussare contro la cassa toracica, così tornai distesa tra i cuscini con un tuffo sgraziato.
“Tutto ok Bella… non è niente” dissi a me stessa. Se qualcuno avesse potuto vedermi in quel momento, mi avrebbe facilmente scambiata per una sopravvissuta ad un disastro aereo. Ero fradicia di sudore, pallida come se avessi visto un fantasma, e le lenzuola si erano avvolte attorno al mio corpo con la tenacia che solo un polipo assassino potrebbe avere.
“BELLA!” sentii gridare di sotto il mio nome.
Sospirai.
“Arrivo papà!”
Strisciai fuori dal bozzolo di coperte e poi ci rovistai dentro per trovare il pantalone del mio pigiama. Si era accartocciato nell’angolo più remoto del materasso, sfuggito dalle mie gambe perché l’elastico si era rotto qualche settimana fa. Primo o poi avrei dovuto sostituirlo…
Recuperati i pantaloni, li indossai prima di correre in bagno.

“Cosa succede? Ti ho sentita gridare…”
“Solo un incubo papà”.
Non lo guardavo: il mio sguardo scrutava i meandri del frigo, alla disperata ricerca di qualcosa di commestibile.
“Hai sognato di nuovo quel chiwawa con i baffi?” mi chiese. Anche con tutto l’impegno possibile, non sarebbe riuscito a nascondere il suo divertimento. Si stava prendendo gioco di me! E dell’incubo terrificante che avevo fatto tre notti prima.
“No, peggio” risposi burbera.
Ora sapevo che un topo-cane con baffi alla cowboy non era più terribile della Bella che avevo sognato. Affascinante, aggraziata, popolare, bellissima, una sorta di alter-ego, quello che non ero e che non avrei mai voluto essere.
“Vuoi uno strappo a scuola?”
“No grazie. Viene Alice a prendermi”.
Chiusi il frigo. Niente colazione. Avrei rimediato a scuola.

Al contrario del mio sogno, quella era una mattinata che rientrava perfettamente negli standard di Forks. Nuvolosa, umida, portava un sentore di pioggia familiare e quasi confortevole. Mi ritrovai per la prima volta ad apprezzare la normalità della mia routine. A pieni polmoni respirai la sottile nebbiolina che galleggiava nell’aria e scesi le scale; arrivata all’ultimo gradino, sentii il rumore di pneumatici sul selciato e un ringhio metallico. Sorrisi. La Porsche gialla di Alice frenò in una nuvola fumosa di terra, per piegare di lato e fermarsi a pochi passi da me. La sua guida, così come la sua precisione, mi sorprendevano sempre.  
“Buongiorno!” mi augurò appena entrai in macchina.
“Giorno”.
Fui abbagliata dalla spontaneità del suo sorriso, talmente aperto da mostrare per intero la sua perfetta dentatura e tanto tirato da raggiungere gli angoli dei suoi incredibili occhi. A renderli incredibili era il color ambra che li riempiva. Un colore formidabile, che contrassegnava lo sguardo di tutta la sua famiglia. Bè… non tutta. C’era un solo membro che vantava una sfumatura leggermente diversa…
“Che succede? Hai avuto un’incontro ravvicinato con BigFoot? Hai due occhiaie spaventose Bella!”
“Mille grazie Alice”. Prima di uscire ero stata tentata di coprirle con un velo di correttore, ma poi la voglia era scemata via via che mi ero avvicinata alla porta.  
“Non ho dormito bene. Dev’essere stato il panino imbottito di ieri sera”.
“Dovresti finirla di ingozzarti con quella roba. Sembra che tu lo faccia per farti del male!” protestò come un’apprensiva sorella maggiore.
Non aveva tutti i torti. Spesso ero mossa da strani impulsi suicidi, che svanivano non appena sentivo di aver fatto qualcosa di abbastanza distruttivo. Questo a volte mi spaventava, mi chiedevo fino a che punto sarei mai potuta arrivare. Ma ero migliorata! Tre anni fa, in un periodo della mia vita durato dodici mesi, ero stata capace di cose peggiori.
“Tu invece sembri felice. E’ successo qualcosa?”
Ricordavo ancora il sorriso enorme con il quale mi aveva accolta. Solitamente ne sfoggiava uno simile quando indossava un abito nuovo, oppure quando c’erano imminenti feste di compleanno.
“Bè, non so se posso dirtelo”.
Aveva un’espressione strana, di chi si è appena ricordata di un particolare non poco rilevante.
Iniziai ad agitarmi e così risi nervosamente, senza che avessi ordinato alla mia bocca di farlo.
“Cosa significa?”
“Quello che ho detto!” rispose, aggrottando le perfette sopraciglia.
“Ho paura di rovinarti la giornata…” mi confessò.
La macchina svoltò con una manovra temeraria, entrando nel parcheggio della scuola in un slalom che evitò le altre vetture con una precisione chirurgica.
Io mi tenni saldamente al cruscotto – come al solito avevo dimenticato di mettere la cintura – e continuai a mantenere lo sguardo fisso su Alice.
“Scherzi? Questa cosa non può essere tanto brutta!” protestai scettica.
Con due botte secche del manubrio Alice parcheggiò la Porsche; il movimento fu tanto improvviso da scaraventarmi contro il finestrino.
“Ahuc!”
Che male!
E fu così che, proprio mentre avevo il naso spiaccicato contro il gelido vetro, mi resi conto di aver parlato troppo presto. Affianco a noi c’era parcheggiata una scintillante Aston Martin. Non ero un’esperta, tuttavia avrei riconosciuto quella macchina tra mille…
In tutta Fronks, c’era solo una persona che poteva permettersi un mezzo tanto sofisticato.
“E’ tornato?”
“Scusami tanto Bella, ma non sapevo proprio come dirtelo”.

“Com’è possibile? Credevo che non sarebbe tornato mai più!” esclamai agitata.
Gli interni in pelle bianca della Porsche mi parvero improvvisamente insopportabili alla vista.
Desideravo trovarmi in un ambiente più spazioso, magari affollato di verde.
“Mai più è davvero molto tempo Bella, però le persone sono diverse e così il significato di una sola parola può risultare polivalente, di conseguenza il Mai Più diventa un lasso di tempo puramente soggettivo”.
La guardai così come si può guardare un malato di mente, non riuscendo proprio ad immaginare cosa volesse significare quel giro di parole. In testa avevo un matassa di ansia e nervosismo che, con infima lentezza, stava intaccando il mio stomaco; ero sicura che, se ci fosse stato qualcosa a riempirlo, non avrei esitato a svuotarlo in pochi istanti.
“Riaccompagnami a casa” dissi. Mi accorsi di aver preso quella decisione solo quando pronunciai l’ultima lettera della parola ‘casa’. Alla Bella codarda piacque tanto quell’idea, così come il suono della parola ‘casa’, che sembrava senza alcun dubbio confortante.
“Cosa?! Hai intenzione di saltarti l’anno per evitarlo?”
La voce acuta di Alice rimbalzò sui finestrini e quando arrivò alle mie orecchie mi sembrò moltiplicata per dieci. Aveva tutta l’aria di essere parecchio sconcertata. Io non trovavo quella conclusione così assurda… se questo significava salvaguardare me stessa, mi risultava molto sensata.
“Ci penserò domani, ma adesso portami a casa”.
“No” rispose.
“No?”
“No!”
La minacciai con il mio sguardo più minaccioso, ma lei sfoderò la sua arma segreta: la faccia-da-muro, che era molto più impressionante della faccia-delle-cose-serie.
Mi sentii il panico alla gola. Non riuscivo a pensare di doverlo rivedere. Era stato via, quanti anni?
Tre? Quattro? Il calendario che tenevo sopra il comodino aveva tutti i giorni segnati da una crocetta rossa, sommato agli altri tre calendari che avevo conservato nell’ultimo cassetto del comò… bè, si… erano quattro anni.
Era passato così tanto tempo? A me sembrava che neppure ventiquattro ore fossero trascorse dalla fatidica e indimenticabile frase di Alice.
“Oh, dimenticavo! Bella, lui è il mio fratello maggiore, Edward”.
L’esatto momento in cui mi girai fu per me un rintocco di campane, una valanga di emozioni che segnarono la mia fine.
Lui era… incredibile. Bellissimo e affascinante così come la Bella che quella notte avevo sognato, però con una marcia in più. Non sapevo per quale motivo, ma la magica bellezza dei Cullen non poteva paragonarsi a nessuna super star, a nessun modello, a nessun essere umano su questa terra.
Edward era il maschio più aitante della famiglia, esattamente come Rosalie, che al contrario, occupava il posto della donna più sensuale. Alto, dalle spalle larghe e la muscolatura accentuata, dotato di uno straordinario charm e buono gusto nel vestire, un viso dai lineamenti gentili, una capigliatura disordinata quanto intrigante, di un mogano speciale e inimitabile, due occhi color caramello… caldi e profondi, tanto da bucarti l’anima. Edward Cullen era tutto ciò che una donna poteva desiderare. Non esisteva sguardo femminile che non si girasse al suo passaggio, catturato dalla sua bellezza. Stranamente però, quegli sguardi resistevano pochi istanti e poi volgevano altrove. Sembrava che Edward portasse su di sé una sorta di scudo repellente, qualcosa che allontanava ogni tipo di attenzione da lui. Infatti, mi ero chiesta spesso come fosse possibile che nessun manager avesse mai notato il suo straordinario aspetto. Quel tipo di bellezza era tutta da ammirare in TV o sulla passerella di un famoso stilista. Eppure... questa fortuna sembrava non essere interessata alla famiglia Cullen, che di fortune ne aveva già troppe.
“Potresti fingere almeno di ascoltarmi Bella?”
La voce indignata di Alice mi riportò al presente. Il flashback che aveva colto la mia mente era stato come uno scoppio, violento e inevitabile.
“E’ inutile scappare! Dovresti imparare questa importante lezione di vita, mia cara”.
Ecco il tono saccente che tanto odiavo. Ma cosa ne sapeva lei? C’era stata una volta nella quale Bella Swan non era scappata, e da quella tragica esperienza ne aveva ricavato solo un cuore spezzato. Alice poteva conoscere quella storia, ma non sapeva cosa era stato per me buttarmi a capofitto nell’amore.
“Stanno per iniziare le lezioni… allora? Cosa vuoi fare? Scappare con la coda tra le gambe, oppure affrontare la situazione a testa alta?”
Fissai la mia amica come una qualunque disperata, mettendo a fuoco la strada dietro di lei, l’ingresso della scuola e i pochi studenti che si attardavano davanti ad esso.
Così presi la mia decisione.
Bella Swan avrebbe camminato a testa alta quel giorno.  

  
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