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Autore: Briseide12    06/05/2017    0 recensioni
Dare voce a chi non può...entrare nella sua mente, capire e conoscere il suo dolore
Genere: Drammatico, Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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Sento il vento che fischia fuori dalla mia finestra e le imposte sbattono senza freni. Il sole entra a spiragli dalle fessure che qualcuno nella dimenticanza ha avuto la pigrizia di lasciare. Apro gli occhi forzatamente, non vorrei aprirli.
Ho sempre amato riposare, sdraiato per ore ed ore fissando il soffitto ed immaginando il mio brillante futuro, avventuriero o timoniere di navi da guerra. Il vento non la smette e il rumore che proviene da fuori, si unisce al bip silenzioso di questa maledetta (o benedetta, dipende i casi) macchina a cui sono collegato, in un’orchestra senza fine.
Il tempo che passavo da ragazzo a meditare steso, adesso mi è forzatamente imposto, sono qui inerme a fissare quel soffitto che prima mi ha dato tanto da sognare, ma ora si presenta come un paesaggio immutabile, eco delle mie paure. Paura, molto spesso mi chiedono se ne abbia. Certo, ho paura, ma non della morte. Ho paura che possa rimanere per sempre in questo purgatorio senza freni, in questo eterno girone di paesaggi identici e giorni che sembrano durare mesi, nella terribile sequela dell’eguaglianza.
In questo periodo, la vita ha voluto insegnarmi molto o almeno è quello che spero. Spero che ci sia un motivo reale per cui sono qui, un motivo per cui sono stato “scelto”. Cerco di aggiustarmi sul cuscino, la nuca mi formicola come sempre, le spalle urlano il loro desiderio di essere mosse e le gambe rinunciano a comprendere di essere inutili. Prendo un profondo respiro e stringendo i denti, forzo me stesso a spostarmi più su, solo 1 cm penso e mi sentirò meglio. Le braccia ripetutamente traforate da accessi venosi, non mi sostengono nella manovra e stupidamente scivolo verso destra con la testa ciondoloni con il mento che preme sulla mia spalla che tanto acclamava a gran voce la libertà. Sospiro di nuovo e ricordo mio nonno che da piccolo mi diceva sempre che se cadevo potevo sempre rialzarmi, adesso vorrei tanto rialzarmi, ma ironicamente non sono mai realmente caduto. Sono immobile, in un universo orizzontale, con una visuale dal basso verso l’alto.
Quello che ultimamente mi ferisce maggiormente è la pietà delle persone, vedere quello sguardo, che ti riporta con un lacerante strappo al presente della tua situazione che magari un antidolorifico poco prima era riuscito a farti “dimenticare”. Ultimamente sto cominciando a notare le diverse flebo che vengono poggiate accanto al mio comodino, vedo che aumentano sempre di più; in fondo spero sempre che un giorno possano liberarmi da questo accesso venoso e finalmente muovere il mio braccio senza problemi.
Inizialmente alla mia situazione era concesso l’utilizzo della pala per i bisogni di prima necessità, ma ora come ora non ho più questo privilegio. Un giorno mi sono svegliato e portavo un pannolino ed un catetere, ho cercato più volte di allontanare il pensiero che in questo modo ciò che prima era la mia santa privacy, qui non esiste. Vorrei gridare che sono ancora un uomo, ho la mia dignità e che vorrei conservare le abitudini che mi rendono umano, qui mi sono tolte. Il sondino naso-gastrico mi infastidisce e mi provoca spesso conati di vomito che poi sono solo simulazioni, sarebbe ironico chiedere al mio corpo di espellere qualcosa che non ha.
 I miei nipotini sono spontanei e a differenza degli adulti non nascondono la loro sorpresa a vedermi lì, sempre nella stessa posizione e con niente di fantastico da dire. Ero uno zio attivo e mi piaceva raccontare fiabe, adesso di quello zio è rimasto solo l’involucro, un essere senza speranza che vaga come un’ombra su questa terra di vivi. Sono arrabbiato con tutti, sono arrabbiato con i miei familiari per la loro pietà, con gli infermieri per il loro essere servizievoli e per non disgustarsi di me come invece io faccio ogni giorno. La rabbia maggiore è verso la vita che senza un perché mi ha tolto tutto quello che mi aveva dato e guardo con invidia le ombre dei passanti che osservo dalla mia finestra-prigione.
La sera poi, non è fatta per dormire, ma per continui prelievi e bip provenienti dalle stanze accanto dove forse qualcun altro sta subendo le mie stesse pene. Allora, comincio a fantasticare sull’identità del vicino della stanza accanto e mi chiedo se anche lui/lei stia passando l’incubo mentale a cui la mia psiche mi riporta ogni giorno. La memoria, terribile e orribile memoria, mi narra in immagini nitide e colorate le gioie passate e mi ricorda che prima ero qualcuno, prima ero un uomo. Adesso mi sento come una macchina senza ruote, ferma lì in officina ad aspettare di ricevere le riparazioni che il meccanico non è in grado di darmi.
Fidatevi ho provato a pensare a Dio, ho provato ad affidarmi alla fede, ma è difficile guardare con gioia verso qualcuno che credi ti abbia condannato. Condannato senza spirito di misericordia, in un Dio così differente da quello che la tua mente in cerca della via di fuga alla pazzia, cerca insistentemente di trovare.
Adesso, non so perché, ma sento il mio cuore come se mi battesse in gola ed un terribile dolore alla nuca accompagna i miei movimenti. Penso di aver perso conoscenza, adesso sotto di me sento qualcosa di diverso ed il viso sorridente di un’infermiera dai capelli rossi, mi dice che adesso ho un nuovo materasso anti-piaghe da decubito. Cerco di ricambiare quel sorriso sfavillante e vitale, ma la mia è più una smorfia che imita un sorriso, quando si perde l’abitudine è difficile riacquistarla.
Mi ritrovo senza sosta in questo vorticoso giro di persone che mi ripetono le stesse cose e mi chiedono le stesse cose, portando la mia situazione verso livelli d’ineffabile rassegnazione. Avrei tanto bisogno di poter non pensarci, vorrei liberarmi di questa spada di Damocle pendente, o almeno più ragionevolmente delle volte, vorrei pensare a me stesso senza che nel pensiero sia sempre associata la mia malattia.
Vivere senza catene mentali è questo che vorrei, delle volte mi capita di concentrarmi talmente tanto sul mio abituale soffitto che finisco per vederci delle immagini, come se guardassi la televisione e nella mia reclusione psichica mi concentro cercando di vedere l’immagine di me che finalmente varco le porte della libertà siano esse in terra o in cielo, poco importa.
Il limbo vive qui e dimora nei costretti a letto, sento spesso il bisogno di cambiare posizione, ma nel momento in cui nasce viene soffocato dall’impossibilità di realizzarlo. Passo diversi giorni in cui il dolore dei miei arti che cercano di riacquistare la capacità di muoversi è talmente forte da farmi dimenticare di essere qualcosa oltre il dolore, divento io stesso il dolore.
Mi sono sempre chiesto come sia possibile che il dolore possa diventare così presente nella propria mente, tanto da spingerti a dimenticare chi sei. In quei momenti in cui ne sono preda, mi sento un uomo torturato da diavoli invisibili che si divertono a trafiggerti con le loro malevoli lance.
I miei sogni stanno diventando sempre più sfocati ed ogni giorno che passa ne ricordo sempre meno parti, temo il giorno in cui non ricorderò più nulla perché vorrà dire che avrò perso anche questo sollievo, ovvero l’abbandonarsi nel dolce oblio della realtà alterata. I sogni però non ci accontentano quasi mai e tra le tante notti qui, ricordo solo una volta di aver sognato di essere di nuovo nel mio appartamento al terzo piano, mentre correvo per le scale con un pezzo fumante di focaccia in mano.
Adesso sento un forte bruciore al braccio e respirare mi diviene sempre più difficile, le fitte lancinanti che attraversano il mio diaframma mi costringono a fare solo respiri rapidi e veloci. Vorrei chiedere aiuto, ma so che nessuno può aiutarmi, devo solo aspettare che finisca. Guardo la flebo che gocciolando instilla antidolorifico nelle mie vene, sperando in qualche modo di accelerare quella tortura gocciolante, ma indifferente al mio dolore non muta il suo lento incedere. Mi concentro sul respiro, ma le fitte lancinanti prendono il sopravvento su di me e ricado nel solo dolore.
Sta entrando di nuovo l’infermiere, mi guarda negli occhi e mi misura la pressione, alza le sopracciglia impercettibilmente. So cosa significa, lo conosco da così tanto; io spettatore non visto e osservatore costretto, conosco quell’uomo e dalla sua espressione posso capire solo che la mia libertà si avvicina. Vedo che si affanna a cambiarmi la flebo con il redivivant, un farmaco che dovrebbe regolarizzare la mia pressione, ma non vede che io non voglio più vivere così, se vita può essere definita questa.
I miei genitori sono venuti subito dopo, i loro occhi ormai infossati dalle lacrime mi guardano cercando di nascondere il loro dolore, mi fissano speranzosi che io mi alzi e dica che è tutto uno scherzo, che ho finto fino ad ora. Lo so, lo vorrei anche io. Anche se non posso parlarvi è tutto qui nella mia mente, so ogni cosa e se potessi vi tranquillizzerei dicendo che non ho paura di terminare questo dolore, non ho paura di porre fine a questa non-vita, non ho paura di quello che mi aspetta…perché non immagino che possa esistere niente di peggio.
Ecco il medico che mi ha seguito dall’inizio delle tribolazioni. Entra dà un’occhiata alla flebo, agli appunti degli infermieri, interroga l’infermiere, corruccia la fronte e mi guarda deluso. Cerca di comunicare con me e finge un monologo nel quale si pone delle domande, dando delle risposte. Strano come le domande che si ponga non siano mai quelle che vorrei porre io.
Fato, destino, oroscopo stupide e inutili sciocchezze. Quale scopo ha un destino del genere.
Finalmente qualcuno del personale medico mi aggiusta il cuscino e mi separa il mento dalla spalla dandomi un po’ del sollievo così tanto sperato. Cerco di chiudere gli occhi e vedo l’oscurità, paesaggio infinitamente gradito rispetto al soffitto grigio. Curioso come da bambino fossi invece terrorizzato dal buio, mentre invece adesso lo bramo con tutto me stesso.
Un raggio di sole fa il suo ingresso nella mia stanza regalandomi lo spettacolo del pulviscolo che volteggia alla luce, mi concentro su quella polvere vorticosa, ruota senza controllo e si sospende verso l’alto e verso il basso cercando di raggiungere un equilibrio in quella caotica entropia. Polvere, particelle, aria anche io mi sento parte di esse e penso che sto solo aspettando che una brezza più forte possa sospingermi verso l’alto o verso il basso e come una boa abbandonata ai flutti non mi oppongo al fato anche perché non potrei, ma mi abbandono ad esso sapendo che non ho via d’uscita.
Stringo forte i denti, il solito dolore sta prendendo di nuovo il sopravvento, spero sempre che questo sia quello definitivo, il dolore che mi finirà del tutto. Lo sento crescere, ogni volta penso che non potrà essere più forte di così ma ogni volta mi sbaglio, il bruciore raggiunge la mia schiena e il sentore che a breve mi spunteranno le ali mi trascina nel buio dell’ignoto, mi ritrovo a fissare gli oggetti senza fissarli realmente. Guardo senza guardare, con la mente occupata ad ascoltare i reclami del corpo che come in una sanguinosa guerra civile si scaglia contro di me, ferendomi a morte in una fine che non è fine.
Mi piace definirmi il sospeso, un epiteto che mi aggrada notevolmente e come tale mi ritrovo sospeso al di fuori della comune realtà corporale a cui sono richiamato forzatamente solo dai dolori che corroborano la materia che altrimenti sfumerebbe di fronte all’irrealtà dei miei viaggi mentali.
Ultimamente ascolto sempre una musica vivace provenire dal corridoio le cui sembianze non ho mai esplorato bene, tranne che sulla barella, direi ad orecchio che si tratta dell’estate di Vivaldi. Così corposa e materialmente viva, così piena di presenza anche nella sua incorporeità, voglio tanto diventare anche io così, una sonora, soffusa e vibrante musica che attraversa come un flusso tutti, senza mai realmente toccarli, al di fuori dello spazio delle emozioni pur essendo essa stessa pura carica emotiva.
  
   
 
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