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Autore: Roscoe24    30/05/2017    1 recensioni
Le piaceva la sua vita? Certo. Ma la sentiva incompleta. Non si sentiva del tutto parte di quel family business a cui in casa sua si dava tanta importanza.
Genere: Generale, Introspettivo, Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna, Het | Personaggi: Bobby, Castiel, Dean Winchester, Nuovo personaggio, Sam Winchester
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Nessuna stagione, Contesto generale/vago
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“Volete davvero fare un costume di gruppo?”
Quella era la voce di Zoe Penderghast, amica nonché compagna di vita di Max. Le due si erano conosciute all’asilo e non si erano più separate. Gli antenati di Zoe erano africani ed erano emigrati negli stati del nord per sfuggire alla schiavitù durante la guerra di secessione. Il bene che Max voleva a quella ragazza partiva dalle viscere del suo animo. Si trovava bene con lei, era una specie di forza della natura con la testa piena di treccine, lunghe e spesse, che si agitavano come tanti tentacoli ogni volta che lei muoveva la testa.
Sono una Medusa di colore. I miei capelli, in realtà, sono piccoli serpenti. Fatemi arrabbiare e vi pietrifico!
Le piaceva raccontare quella storia, forse perché proprio come Medusa, anche Zoe aveva un lato mistico, o misterioso. Sicuramente epico. Lei era epica.
“Beh, perché no??”
James Otterton Junior, chiamato dagli amici JJ. Rosso naturale e cinefilo incallito, lavorava nel cinema della città nei weekend e ogni volta che c’era qualcosa di bello, invitava i ragazzi a passare la serata insieme. Un film con lui si doveva guardare in assoluto, religioso silenzio perché l’arte va assaporata con la bocca chiusa e, puntualmente, alla fine di ogni film, JJ raccontava in quanto tempo era stato montato, girato e messo a punto, sapeva tutto sul regista, sugli attori e sugli aneddoti riguardanti quel film. Era un’enciclopedia bipede. A Max piaceva ascoltarlo, visto che anche a lei piacevano i film. Suo padre, il signor James Otterton Senior, possedeva mezza Boston e, per questo, non era quasi mai in città. JJ passava la maggior parte del tempo con sua madre, Camilla Otterton, nata e cresciuta nel South Dakota. Come abbiano fatto i signori Otterton a conoscersi rimane ancora oggi un mistero, nonostante Max conosca JJ dalle elementari. Il ragazzo, semplicemente, non amava parlare della lontananza del padre e quindi non lo nominava quasi mai – evitando così di raccontare particolari riguardanti la sua vita e le sue figure genitoriali. In questo, Max lo sentiva molto vicino. Nemmeno lei sapeva come si erano davvero conosciuti i suoi e, soprattutto, sentiva la mancanza di sua madre, come James sentiva quella del padre. La differenza, stava nel fatto che, almeno periodicamente, il ragazzo poteva vederlo. Lei doveva scovare delle fotografie nascoste per casa per riuscire a vedere il volto di sua madre. Dean, infatti, non teneva nessuna foto esposta per la casa, piuttosto le teneva nei suoi posti segreti, che ormai a Max non erano più tali. Non voleva dimenticarsi il viso di sua madre. Non si sarebbe mai perdonata se l’avesse fatto. Le foto, dunque, l’aiutavano più di chiunque altro in casa sua a far si che ciò non accadesse. Abigail, in casa Singer, era un tabù. Lo sapevano tutti e per questo nessuno si azzardava a nominarla.
“Perché Halloween è stasera e non ci siamo organizzati in tempo? Santo cielo JJ, a volte mi chiedo se sei stupido o semplicemente la fai apposta!”    
“Io direi che è stupido!”
Aaron Walsh, capitano della squadra di football, ricci castani e già in lizza per entrare a far parte di squadre professioniste. L’anno scorso un consulente dei Dallas Cowboys aveva assistito ad una partita dei Dakota Rangers – la squadra del liceo – e, colpito dalle abilità di Aaron aveva detto che se i suoi voti fossero migliorati l’anno successivo avrebbero potuto parlare di un provino serio con i Cowboy di Dallas. Aaron aveva chiesto a Max un aiutino (“Per favore, Max, ho bisogno di qualcuno che mi aiuti a concentrarmi!”) e si era impegnato tanto per raggiungere i risultati richiesti. Questo, diceva Aaron, era l’anno della speranza.
Speriamo non si siano dimenticati di me.
Speriamo si ricordino.
Speriamo che la mia media adesso gli basti.
Speriamo eventualmente di essere all’altezza dei Cowboys.

E cose del genere.
Speranza. Aaron sperava senza rendersi effettivamente conto che aveva tutto ciò che un atleta deve avere: fisicità, talento, gioco di squadra. La cosa a cui dava più importanza erano i suoi compagni: Spiegami perché giocare in squadra, se non dai importanza ai tuoi compagni. Se vuoi fare l’atleta individuale impari a boxare. In quel caso, sei solo tu. Nel football il gioco individuale non ti porta da nessuna parte!
Aaron era un ragazzo buono. Max gli voleva bene. Per dirla tutta, Max voleva bene a tutti i ragazzi seduti a quel tavolo con lei, in mensa. Stavano in cerchio come i cavalieri della tavola rotonda e ogni volta che li guardava a Max veniva in mente ciò che le aveva insegnato Bobby: la famiglia non finisce con il sangue. Loro erano la sua seconda famiglia. E non avrebbe rinunciato a quei ragazzi per nulla al mondo.
“Stupido sarai tu, scimmione palestrato!”
Zoe scoppiò a ridere. Gli insulti gratuiti tra JJ e Aaron ormai erano all’ordine del giorno.
“Ragazzi…” si intromise Benji, “piantatela.”
Max gli lanciò un’occhiata divertita e contrasse le labbra all’interno della bocca per trattenere un sorriso. Benji scosse la testa. Sapeva che trovava divertente il fatto che cercasse sempre di fare da paciere tra i due ragazzi. Ti da un’aria molto matura, diceva e lui gonfiava il petto come un gallo orgoglioso.
“Ci serve un’idea,” continuò Ben, attirando l’attenzione su di se. Il gruppetto si lanciava occhiate, alcuni aprivano la bocca, come se avessero avuto un’idea, ma poi la richiudevano senza aver detto una parola, scacciando a priori quell’idea nata nella loro testa e mai venuta alla luce.
“Ecco perché ci siamo trovati all’ultimo,” brontolò Zoe, appoggiandosi malamente allo schienale della sedia e incrociando le braccia al petto, “facciamo schifo a trovare idee.”
“Non proprio schifo,” Max si protese sul tavolo, tendendo le braccia e ficcandoci la testa nel mezzo, come se fosse semi sdraiata a pancia in giù, “forse direi più schifetto.” La sua voce, nonostante suonasse ovattata dalla sua posizione, risultò chiara ai suoi compagni.
“Schifetto non si può sentire, Max.” la rimproverò Zoe che le ficcò un gomito tra le scapole, giusto per infastidirla e farla rizzare, dritta come un fuso che ha appena preso una scossa elettrica.
Max la fulminò: “Sai che detesto quando lo fai!”
“E secondo te perché mi piace tanto farlo?” Le fece l’occhiolino, sorridendo con la lingua tra i denti.
Max alzò gli occhi al cielo, ma stava ridendo.
“Ragazze, concentratevi!”
“D’accordo, coach Walsh! Vuoi che facciamo anche delle flessioni?”
“Non sei divertente, Zoe. Lo sai?”
La ragazza per tutta risposta gli fece una linguaccia.  
Le loro interazioni vennero interrotte dal suono della campanella che segnava la fine dell’ora di pranzo e la ripresa delle lezioni. Intorno al loro tavolo, un centinaio di studenti si stava alzando per uscire da quella stanza, formando un ammasso che assomigliava ad una nuvola di persone. O un mucchio di formiche. Ma Max scacciò quell’ipotesi in quanto le formiche quando si spostano lo fanno in fila, seguendo un ordine ben preciso e dettagliato. Gli studenti, con i loro passi pesanti, il loro modo sgarbato di spostare le sedie – che graffiavano sul pavimento con i loro quattro piedini – e il loro vociare che andava aumentando sempre di più via via che qualcuno si aggiungeva ad una conversazione, ricordavano sicuramente una nuvola disordinata.
“Che palle, ho storia adesso!” lagnò JJ, tirando indietro la testa e sbuffando sonoramente. “Dovrebbero vietarle materie così noiose dopo aver mangiato. Nessuno ha mai sentito parlare di abbiocco post-pranzo?”
I suoi amici risero e lui si sentì un tantino meglio, come se avesse tratto da quella risata la forza necessaria per affrontare una lezione così pesante.
“Ci vediamo dopo, ragazzi!” li salutò e sparì nella folla. Ad uno ad uno lasciarono quel tavolo: Zoe aveva laboratorio di chimica, Aaron matematica, Benji biologia e Max letteratura. I cinque ragazzi legati da un filo invisibile si persero nella folla. Se qualcuno avesse guardato dall’alto e avesse, per caso, evidenziato quel filo di rosso, avrebbe visto chiare le linee che univano cinque persone diverse. E poteva vederli chiaramente formare una stella.
O un pentacolo. Quello dipende dai punti di vista.

                                                                             ***

Mancavano dieci minuti alla fine della lezione. Max guardava fuori dalla finestra in preda a pensieri che ormai le giravano in testa da un po’. Non ne aveva ancora parlato con suo padre perché non era sicura nemmeno lei ci ciò che veramente voleva fare. Si chiese fino a che punto, per una nata in una famiglia come la sua, sarebbe stato possibile alternare la caccia alla normalità senza finire totalmente inglobata dagli affari di famiglia. Cominciava a chiedersi, raggiunta questa età dove non si è più bambini, se fosse il caso di cominciare a far parte di quello che la sua famiglia chiamava cacciare. Chiunque si immaginerebbe la caccia al cinghiale, o ai fagiani. E magari storcerebbero anche il naso perché una ragazza che imbraccia un fucile e si reca da sola nei boschi per uccidere delle bestie più o meno grandi non è proprio così ordinario. Chissà cosa penserebbero quelle stesse persone sapendo che la ragazza, impugnata una pistola carica di pallottole d’argento, si recherebbe sola nel bosco per uccidere un lupo mannaro che, sopraffatto dalla luna piena e dal suo istinto bestiale, fosse colpevole di aver strappato il cuore dal petto di un ragazzino innocente.
Chissà.
Il fatto è che non è il pensiero della gente, il problema.
Il problema era il pensiero di una sola persona: suo padre.
Dean Winchester era sempre stato piuttosto chiaro su come sua figlia sarebbe cresciuta. E questo, ovviamente, implicava stare lontana da qualsiasi tipo di attività familiare che comprendesse, appunto, andare nei boschi con una pistola per uccidere una creatura alta due volte lei e forte come quattro uomini. Ma lei non sapeva più se tutto ciò le andava bene. Finché era una bambina e non si rendeva conto appieno di ciò che volevano dire i discorsi tra papà e zio Sam, poteva vedere le sessioni di allenamento come un gioco, ma una volta cresciuta… una volta cresciuta le cose erano diverse.
Parole come assassinio, carneficina, possessione demonica, mutilazione, sacrificio divennero estremamente reali e pesanti. Trasudavano tutta la loro natura crudele e sanguinolenta. Tutta la violenza intrinseca dentro al significato di quelle parole si manifestava, nella sua testa, con una concretezza fin troppo chiara, fin troppo limpida. La loro oscurità era chiara ai suoi occhi come se si fosse mostrata alla luce del sole con l’arroganza tipica della malvagità – che non teme giudizio alcuno, consapevole del terrore reverenziale che provoca negli esseri umani. Quanto ancora poteva andare avanti? Quanto ancora poteva conficcare la testa nella sabbia per paura di perdere la parte normale della sua vita (per paura di perdere Benji)?
Quanto ancora poteva fingere di non appartenere a quel mondo in cui suo padre sguazzava ormai da quando era un bambino?
Certe cose, lei, ce le aveva impiantate nel DNA. Impresse, scritte a caldo con una penna indelebile  che le avrebbe sempre ricordato le sue origini, la sua eredità.
Ma aveva paura.
Temeva quel promemoria costante perché era terrorizzata dall’idea di non essere all’altezza. Suo padre era Dean Winchester, l’uomo che era stato all’inferno ed era tornato. L’uomo che aveva resistito a Michele, ribellandosi alla volontà divina.
E poi c’era zio Sam.
Sam Winchester, l’uomo che aveva vinto il Diavolo. L’uomo che era stato posseduto da Lucifero, ma che amava così tanto suo fratello e questa Terra, da riuscire a trovare la forza dentro di se per riuscire a contrastare la potenza dell’arcangelo ribelle.
I Winchester erano conosciuti da tutti i cacciatori, rispettati e ammirati. Si raccontavano storie su di loro che venivano tramandante come le leggende, quasi come se fossero racconti sacri da cui prendere spunto.
Erano i due uomini che avevano sventato l’Apocalisse e si erano ribellati a quel destino celeste (e demoniaco) che era stato scritto per loro e avevano salvato il loro mondo.
Come avrebbe mai potuto competere lei, che fino ad ora aveva solo letto libri e tradotto testi latini?
Sarebbe mai stata all’altezza del cognome che portava? Sarebbe mai stata all’altezza del sangue che scorreva nelle sue vene?
Non ne era sicura.
“Winchester, cosa trovi di tanto interessante fuori dalla finestra?”
Sussultò e la realtà la avvolse come una coperta, o meglio, avvolse i suoi pensieri, nascondendoli in un angolo della sua testa e ricordandole che non era il momento adatto per perdersi nei meandri del suo cervello.
“Niente, signor Dempsey, mi scusi.”
In quel momento si rese conto che l’aula era vuota e lei non aveva sentito il suono della campanella. Il suo professore di letteratura la guardava con curiosità.
“Di solito non ti perdi nemmeno un minuto delle mie lezioni, Max.” il suo tono si addolcì, mentre si incamminava dalla cattedra al banco della ragazza.
“Mi piacciono le sue lezioni.” Confessò, timida.
Il professore sorrise, soddisfatto.
“Ti ringrazio.” Fece  una pausa, guardando dove poco prima stava guardando Max. Vide il cortile, i tavoli sistemati sull’erba verde per poter mangiare, o studiare, all’aperto. Vide gli alberi che oscillavano lievemente trasportati dal venticello leggero e vide il sole, che forte e caldo illuminava quella limitata distesa d’erba rendendola brillante come tanti piccoli smeraldi messi assieme.
“C’è qualcosa che ti preoccupa, Max?”
Lei pensa che potrò mai essere all’altezza del cognome che porto?
“No, signor Dempsey.”
“Sei sicura?” alzò un sopracciglio, come se così facendo riuscisse meglio a scavare nella testa della ragazza.
“Sicurissima.” Annuì con vigore.
Il signor Dempsey annuì a sua volta: “Bene, allora. Penso tu debba andare, il signor Jones ti sta aspettando impaziente fuori dalla porta.”
Non appena Max e il signor Dempsey volsero lo sguardo alla porta, Benjamin si ritirò di scatto, come se volesse nascondersi.
Max ridacchiò e, dopo aver sistemato la sua roba dentro alla zaino, si alzò dal suo banco.
“Arrivederci, professore. E mi scusi per prima.”
“Troverai tutto sul libro di testo. Ma rimani concentrata, la prossima volta.”
“Lo farò.”
Il professore la salutò con un ultimo cenno del capo che lei ricambiò e poi Max uscì dall’aula, dove trovò immediatamente Benji appoggiato al muro che faceva finta di niente.
Gli si piazzò davanti. Si era tolto il cappellino e aveva raccolto i capelli in un ciuffo morbido e anche un po’ disordinato. Lo trovava ancora più bello pettinato in quel modo.
“Mi stai fissando, Maxie.”
“Lo so.”
“E perché lo fai?”
Perché mi piaci, stupido.
“Perché pensavo a quanto faresti schifo come spia!”
“Io.. io..” alzò l’indice per darsi un tono e gonfiò il petto, ma poi si accasciò di nuovo e rise di gusto, “..hai ragione. Farei proprio schifo come spia!” si staccò dal muro e si affiancò a Max, circondandole le spalle con un braccio. Il cuore di lei sussultò, ma non sgusciò da quella presa. In quel modo, riusciva a sentire meglio il profumo di Ben.
E Ben sapeva di normalità. Di sicurezza. Era un elisir che le sgomberava la mente e le faceva credere che tutto era possibile.
Anche far combaciare le sue due vite.
O forse era più appropriato dire la sua vita e quella che una parte di lei si sentiva in dovere di vivere. La cacciatrice che viveva latitante in lei sarebbe venuta fuori, prima o dopo. Di questo era quasi certa. Il problema era capire se era in grado di gestire quel lato della sua vita.
“Andiamo da Zoe, adesso.”
“Ah, sì?”
“Mh-mh. L’ho incrociata prima, mentre venivo da te. Ha detto che andiamo a casa sua per discutere di stasera.”
“Va bene, mi sembra una buona idea.”
Ben annuì e insieme uscirono da scuola. Era tutto così normale che Max decise di accantonare i suoi pensieri per un po’.

                                                                                ***

Rumore.
Rumore assordante, vociare chiassoso.
Persone.
Persone che premono, che saltano, che urlano. Una marea inquieta, quasi violenta, accatastata, prorompente, irruenta.
E Max era parte di questa marea. Era una delle correnti che rendeva agitato il mare di studenti che riempiva la palestra della scuola superiore.
E tutto ciò si tramutava in rumore.
Un rumore sordo. Che ossimoro, ma non avrebbe saputo dirlo meglio. Il suono era così forte che ormai le sue orecchie si erano abituate, cominciando a non sentirlo più, quasi come se fosse diventato silenzioso. Sordo. Ovattato.
Ma era il modo migliore per scacciare i pensieri: bombardarli di musica che li disintegrasse. Vicino alla cassa, Max saltava insieme a Zoe, ballando con l’amica senza seguire dei passi ben precisi, ma lasciandosi solo andare. Era tanto che non lo faceva. Era tanto che non svuotava la testa.
Tutto ad un tratto, i pensieri che le riempivano la mente e le facevano avere l’impressione che dentro di se vivesse almeno una folla di duemila persone tutte intente a dire la propria, tacquero. Nella sua testa non c’era più niente: era sgombra, tranquilla. Si sentiva così leggera. Ci si sentiva così tanto che aveva l’impressione di volare ogni volta che spiccava una saltello cercando di seguire l’insensato ritmo della canzone che il dj aveva messo. Non sapeva nemmeno il titolo, ora che ci pensava.
“Zoe!!” urlò nell’orecchio all’amica.
La ragazza si avvicinò ancora di più per sentire meglio cosa Max avesse da dirle.
“Come si chiama questa canzone?”
Zoe la fissò e Max ebbe l’impressione che sulla sua faccia si fosse formato un enorme punto interrogativo: nemmeno lei conosceva quella canzone.
“Non ne ho idea!” e riprese ad agitare le braccia senza un senso logico.
Max, per un momento, rimase immobile. Non ballava più, adesso. Era spettatrice di qualcosa a suo parere meraviglioso: la spensieratezza che solo gli adolescenti possono avere. Vide facce più o meno conosciute mischiarsi tra di loro in una tavolozza di musica e colori e pensò che non sarebbero mai più stati sereni come lo erano in quel momento. Si trovò a pensare che ognuno di loro con l’avanzare dell’età avrebbe ripensato a quella sera con un sorriso nostalgico, con la malinconia dei giorni passati, giorni in cui potevano permettersi di non farsi sopraffare dalle quotidiane preoccupazioni della vita.
“Sei l’unica che non si muove.” 
Max sussultò, sentendo invadersi l’orecchio di un sussurro caldo e ravvicinato. Si voltò, incrociando la figura di Benji, che si era chinato alla sua altezza per farsi sentire. Le sorrise e lei ricambiò. Avevano optato per mascherarsi come i ragazzi del Breakfast Club e a Benji era toccato il personaggio di John Bender. Aveva lasciato i capelli sciolti e liberi da ogni costrizione (fosse essa un cappellino, o un elastico), indossava un giubbotto di jeans, una camicia a quadri neri e rossi, un paio di pantaloni scuri e degli anfibi neri. Era il più bel John Bender che si potesse vedere. Meglio di quello di Judd Nelson.
“Ho preso una pausa.”
“Andiamo a sederci, allora?”
Max lanciò un’occhiata in direzione di Zoe e notò che JJ e Aaron l’avevano già raggiunta. Tutti e tre si stavano dimenando come dei pazzi. Zoe era vestita da Allison Reynolds, Aaron, per ovvi motivi, era Andy Clark, anche se suo padre non aveva mai trovato nulla da ridire sul suo modo di giocare a football, e JJ era Brian Johnson. A lei era toccata Claire Standish.
Claire la devi fare tu, aveva detto Zoe quando si erano ritrovati a casa sua, sei o non sei Rapunzel? Aveva lanciato un’occhiata divertita a Ben, l’unico a chiamarla in quel modo. Il ragazzo aveva alzato il dito medio all’amica, ma aveva concordato con lei. La principessa del Club deve farla chi assomiglia ad una principessa, aveva aggiunto guardando Max.
Quell’affermazione l’aveva messa parecchio a disagio, ma non le dispiaceva quella scelta. In questo modo, almeno per una sera, avrebbe potuto immaginare che tra lei e Ben sarebbe finita proprio come tra Claire e John alla fine del film.
Magari anche lei gli avrebbe donato un suo orecchino e, forse, anche lui avrebbe alzato il pugno al cielo sulle note di Don’t you forget about me dopo aver avuto la certezza di aver conquistato il suo cuore.
“Mi sembra si divertano.” Commentò e Ben, che era al suo fianco, annuì sorridendo.
“Staranno bene anche senza di noi,” allacciò le dita della sua mano con quelle di Max e la trascinò fuori dalla folla. Il cuore della ragazza aveva cominciato a galoppare, selvaggio e inarrestabile.
Mi verrà un infarto, pensò. Ben non l’aveva mai presa per mano. Erano amici, certo, e si abbracciavano spesso, ma prendere per mano qualcuno in quel modo era un gesto così… intimo. Di certo lo faceva per comodità e non rischiare di perderla nella mischia, questo lo sapeva, non era certo un’illusa, ma si trovò comunque a pensare a quanto fosse inequivocabile quel gesto: se per strada si notano due persone che si stringono la mano in quel modo, automaticamente si pensa che siano una coppia. Non si da altra spiegazione, altro significato, a quel gesto se non quello di immaginare i due come degli innamorati.
Il cuore le accelerò. Adesso sembrava un tamburo impazzito. Ma poi Ben sciolse la presa, lasciandole un senso freddo di assenza. Tra le dita passava di nuovo aria ed era più gelida di quanto non le fosse mai sembrata.
“Qui va bene?” indicò le scalinate. Era un posto all’angolo della palestra, lontano da tutti. A quella distanza non serviva alzare troppo la voce per parlare con chi si aveva vicino.
“Perfetto!”
Ben si mise a lato degli alti gradini e le fece cenno di passare, “Prima le signore”. Max scosse la testa, divertita, e salì per prima. Si accomodò in alto dove riusciva a vedere ogni cosa: le luci che riflettevano i loro colori sul pavimento di parquet, che prima era giallo, poi azzurro, poi verde e poi fucsia; i ragazzi che ballavano, gli insegnati ai bordi della palestra che facevano da supervisori, il tavolo delle bevande.
Ben si sedette vicino a lei, stravaccando le gambe e appoggiando la testa al muro. Chiuse gli occhi un momento. I capelli gli ricadevano sulla fronte, le labbra leggermente dischiuse gli davano un’aria rilassata, quasi serena. Sembrava sul punto di addormentarsi, ma poi i suoi grandi occhi neri come il carbone incrociarono quelli di Max.
“Mi fissi, Maxie.”
L’aveva già detto, durante la giornata. Lui notava i suoi sguardi, ma lei non poteva fare a meno di contemplarlo, di tanto in tanto. E poco le importava che lui se ne accorgesse e glielo facesse notare. Guardarlo in viso era come guardare un faro che illumina l’oscurità. Studiare i suoi lineamenti era come ammirare il più bello dei tramonti. Perdersi nel colore dei suoi occhi, così diverso dal suo, era un modo per ritrovare quella parte di se stessa che, volente o nolente, sentiva di avergli donato e che gli sarebbe appartenuta, probabilmente, per sempre.
“Sembrava stessi per crollare in un sonno profondo, Bella Addormentata. Mi stavo preoccupando.”
“Pensi sia narcolettico?”
“Lo sei?”
“Lo sapresti, se lo fossi.” Si sistemò i capelli dietro alle orecchie, “Ci sono poche cose che non sai di me, dopotutto.” I suoi occhi caddero sulle mani che teneva incrociate in grembo. Cominciò a roteare lentamente i pollici, facendoli collidere tra loro. Li fissava, mentre li faceva girare lentamente.
“Lo dici quasi come se la cosa ti desse fastidio..”
Abbozzò un sorriso, continuando a fissarsi i pollici, “Al contrario, Maxie..”
“E allora che c’è?”
“Niente, pensavo solo che..” trasse un profondo, profondissimo respiro, “..che il liceo non durerà per sempre e non voglio perdervi, ne tu negli altri.” Lanciò un’occhiata in direzione della folla, pensando a JJ, Zoe e Aaron che ancora si stavano dimenando come pazzi.
“Non ci perderai, Benji.”
“Non lo puoi sapere..”
“Invece lo so. So che non ci perderemo mai perché noi siamo legati da qualcosa di speciale, indistruttibile. Siamo come fratelli.”
“I fratelli litigano.”
“Ma sono legati da qualcosa di più forte della morte.”
E il suo pensiero andò a suo padre e suo zio. Dean e Sam Winchester, coloro che avevano letteralmente attraversato l’inferno pur di tornare dal proprio fratello. Pensò a quando papà fronteggiò Morte in persona pur di riavere indietro l’anima di zio Sam. Pensò alle mille volte in cui avevano litigato, più o meno pesantemente, ma erano tornati ogni volta per riappacificarsi. Il loro legame era qualcosa di ultraterreno, qualcosa di sovrannaturale, proprio come ciò a cui davano la caccia. Ma, a differenza delle creature che facevano loro vittime, il loro legame era immortale. Si rafforzava ogni giorno di più, calcificandosi, inspessendosi.
“Devi stare tranquillo, Benjamin Jones. Avrai a che fare con noi per il resto della tua vita.”
Le sorrise, avvicinandosi e appoggiandole la testa su una spalla.
“Lo spero,” disse, “lo spero con tutto me stesso.”
Questa volta fu lei ad allacciare la propria mano alla sua. Fu un gesto spontaneo, delicato. Cominciò con il pollice ad accarezzargli il dorso della mano, con movimenti lenti e rassicuranti: “Da cosa nasce questa preoccupazione?”
Lui sbuffò dal naso, come a cercare un modo per prendere tempo e trovare le parole giuste: “Da queste serate. Dai pomeriggi a casa di Zoe, noi seduti in camera sua a mangiare schifezze per decidere se vestirci a tema. Vederci uscire da casa sua per andare a comprarci la roba che manca, tu che ti provi la blusa rosa che porti addosso, Zoe che si prende quella gonna lunga fino in fondo ai piedi. JJ che si lamenta che vestito in quel modo sarà più che altro scambiato per Steve Jobs. Aaron che fa le facce stupide nello specchio del camerino. Noi cinque strizzati dentro ad una minuscola macchinetta per farci una fototessera. Mi mancherà tutto questo.”
Max gli appoggiò la guancia alla testa: “Sembra quasi che tu stia per andartene e non trovi il modo per dirci addio.”
“Non vado da nessuna parte, testina spiumata. Però prima o poi ci allontaneremo e io…” alzò la testa, cercando gli occhi di Max, “..io non voglio.”
Lei lo fissò, leggendo nel pozzo scuro che erano gli occhi di quel ragazzo, una determinazione accesa dalla fiamma della volontà. Vedeva la fermezza della sua voce riflessa nei suoi occhi, che erano stati posseduti da una ferrea convinzione che loro non sarebbero stati amici solo fino alla fine della scuola, ma fino alla fine della loro vita.
“Ascoltami,” gli disse, afferrandogli entrambe le mani, “abbiamo cambiato varie scuole, no? Eppure ci siamo sempre ritrovati insieme. Elementari, medie e superiori. Così anche dopo la scuola. Prenderemo percorsi diversi, vivremo vite separate, ma saremo sempre una costante nella vita degli altri.”
Lui sorrise. Il suo viso, adesso, era più rilassato. Le strinse le mani e la tirò a se per abbracciarla.
“Come farei senza di te, Winchester.”
“Te la caveresti benissimo lo stesso.”
“No, non credo.”
Rimasero in quella posizione per un po’, intrecciati l’uno nell’altra in silenzio, protetti dalla bolla invisibile che era la loro amicizia. Era un luogo a parte, quello in cui si trovavano Max e Ben, un mondo parallelo alle loro vite, dove loro vivevano e non facevano entrare nessuno. Non lo facevano di proposito, tra di loro c’era la complicità tipica di chi è fatto della medesima sostanza. Era come se le loro anime fossero state estratte dallo stesso materiale e fossero state plasmate per incontrarsi, un giorno. Si appartenevano come mai nessun’altro avrebbe potuto fare. Sapevano che un giorno entrambi avrebbero trovato qualcuno da amare, ma sapevano anche che quel qualcuno non sarebbe mai stato all’altezza di ciò che avevano loro. Per questo Max non si era mai aperta con Ben, riguardo ai suoi sentimenti: aveva paura di perderlo, aveva paura di rompere quel mistico legame che li univa e rovinare tutto.
Non voleva rischiare di buttare via ciò che avevano solo perché aveva capito di amarlo. Se lui non avesse ricambiato, l’avrebbe perso per sempre. Se, invece, fossero rimasti amici, non l’avrebbe perso mai. Sarebbero sempre stati legati da quel filo speciale che unisce i loro cuori e li fa battere all’unisono.
“Maxie, che ne dici se torniamo dagli altri?”
“D’accordo.”
Si alzarono in piedi, Max aggiustò la gonna marrone a pieghe che indossava: le arrivava fino al ginocchio, ma essendosi seduta le si era alzata un poco. Le piaceva, quella gonna. L’aveva comprata con papà l’anno scorso e lui, vedendola uscire dal camerino del negozio, aveva detto: Ti si vedono troppo le gambe. A seguito dell’occhiataccia che Max gli aveva lanciato, però, aveva ritirato quel commento, dicendo invece che le stava molto bene. Era a vita alta e per l’occasione ci aveva infilato dentro la blusa rosa chiaro che aveva comprato quel pomeriggio stesso.
Ben la fece di nuovo passare per prima, ma a metà scalinata le luci si spensero. Max e Benjamin rimasero immobili, sopra agli spalti. Il silenzio regnava e il buio la faceva da padrone. Non volava una mosca e questo era parecchio strano. A Max fece rizzare i capelli dietro alla nuca. Poi un urlo squarciò il buio e ruppe il silenzio in modo così acuto che a Max diede l’impressione che il silenzio stesso stesse sanguinando, come se avesse subito una ferita improvvisa e profonda. Una lacerazione che avrebbe continuato a perdere sangue finché il silenzio non fosse morto.
Da quel momento, cominciò il caos.






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Ciao a tutti e ben ritrovati! :) 
Innanzitutto, ringrazio chiunque abbia letto la storia e l'abbia messa tra i seguiti/preferiti, lo apprezzo molto! 
Venendo al capitolo, è un po' più corto del precedente, questo perché ha una funzione di passaggio e, proprio per questo, all'inizio si apre con una sorta di elenco. Questo perché volevo inserire gli altri personaggi e presentarli dentro ad una conversazione già avviata, mi sembrava il modo più semplice per farlo senza far risultare la lettura troppo pesante. Questa, comunque, era la mia idea, non so se è riuscita bene come speravo xD (nel caso, mi scuso). 
Spero comunque che vi sia piaciuto! :D
A presto <3 


 
   
 
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