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Autore: Roscoe24    16/05/2017    0 recensioni
Le piaceva la sua vita? Certo. Ma la sentiva incompleta. Non si sentiva del tutto parte di quel family business a cui in casa sua si dava tanta importanza.
Genere: Generale, Introspettivo, Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna, Het | Personaggi: Bobby, Castiel, Dean Winchester, Nuovo personaggio, Sam Winchester
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Nessuna stagione, Contesto generale/vago
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Ciao a tutti e grazie per aver aperto questa mia nuova storia! La trama seguirà principalmente Max e la sua evoluzione, che non avverrà in moltissimi capitoli, ma avverrà! Il racconto non segue gli eventi della serie, in quanto Bobby è ancora vivo, e gli eventi delle stagioni da 1 a 6 sono già avvenuti (anche alcuni tratti del passato dei Winchester sono un po' diversi. Questo si capirà meglio durante la storia ^^). Inoltre non farò riferimento agli eventi accaduti nelle stagioni da 7 a 12 perché li trovo un po' troppo incompatibili con la vita che ho immaginato per i personaggi. Non so ancora con quanta frequenza potrò aggiornare la storia e questo lo dico non per tirarmela ma perché da una parte non ho molto tempo, dall'altra sono tremendamente insicura e controllerò ciò che scrivo almeno dieci volte! (XD) Per questo, mi farebbe anche piacere sapere cosa ne pensate voi: se vi piace, se non vi piace, se la trovate banale o pensate sia noiosa. Esprimetevi! I consigli e le critiche costruttive sono sempre graditi. 
Vi lascio alla lettura del primo capitolo, 
Alla prossima! <3 




Non devi dirlo a papà – gli aveva chiesto. O meglio: l’aveva supplicato. Max non voleva che suo padre sapesse ciò che aveva fatto quella notte del 31 ottobre, quando i suoi compagni di scuola avevano scherzato con entità con le quali non si deve scherzare mai. Lei lo sapeva molto bene. Come avrebbe potuto non saperlo? Dopotutto era una Winchester, certe cose le sapeva benissimo. E proprio perché le conosceva, tendeva ad evitarle. Max sapeva, ma non cacciava. Suo padre gliel’aveva categoricamente vietato.
Non pensarci nemmeno, signorina! Tu avrai una vita normale! – E Castiel sapeva che ogni volta che Dean pronunciava quella frase avrebbe voluto aggiungerci: quella che non ho avuto io. Lo pensava sempre, ma non lo diceva mai. Castiel lo sapeva. Lo stesso Castiel che Max aveva chiamato quella fatidica notte.
“Cas, è successa una cosa, potresti venire ad aiutarmi?” La voce della ragazza era preoccupata, ma non spaventata. Aveva avuto a che fare con queste cose sin da quando era una bambina e, anche se Dean le aveva categoricamente proibito di partecipare all’azione, l’aveva educata e addestrata per proteggersi. Suo padre era ansioso che lei potesse farsi del male, ma non era certo stupido. Sapeva benissimo che essendo sua figlia non avrebbe mai passato una vita tranquilla come lui avrebbe voluto. Ci sarebbe sempre stato un pericolo in agguato, qualcuno, qualcosa, sempre pronto a farle del male per usarla contro di lui. Per questo era meglio che Max fosse preparata, addestrata al combattimento e abituata ad usare il cervello. Sapeva come si disegnava una trappola del diavolo e aveva imparato gli esorcismi – a dire la verità Bobby le aveva insegnato quasi tutto il latino che conosceva ed era diventata piuttosto brava a tradurlo. All’indice sinistro portava un anello ricavato dall’argento e dal ferro, in modo che se qualcuno non fosse appartenuto alla razza umana, se ne sarebbe accorta dallo sfrigolio che la sua pelle avrebbe fatto a contatto con quel piccolo oggetto e, al tempo stesso, se mai avesse dovuto incontrare un fantasma avrebbe potuto allontanarlo. E, per finire, contro le possessioni demoniache aveva lo stesso tatuaggio di suo padre e suo zio, piazzato dietro la spalla sinistra. Dean era talmente paranoico e ossessionato dalla sua protezione che aveva persino chiesto a Castiel di marchiarle le costole, in modo che gli angeli non potessero trovarla, ma lei si era vigorosamente e fermamente opposta a quella richiesta, avanzando l’osservazione che anche Castiel era un angelo e, in quel modo, nemmeno lui avrebbe potuto trovarla, nel caso lei avesse avuto bisogno di lui o avesse anche solo voluto fare due chiacchiere con l’uomo che ormai reputava uno zio. Quell’obiezione aveva trattenuto Dean dall’insistere e dall’impuntarsi come suo solito. Era impossibile farlo ragionare, certe volte. Se lui pensava che una cosa avrebbe garantito la salvaguardia di chi amava, l’avrebbe fatta ad ogni costo, anche se il diretto interessato (o la diretta, in questo caso) non era d’accordo con lui.
Quella notte, comunque, quando Castiel rispose al telefono e sentì la voce di Max che lo invitava a raggiungerla, lui obbedì senza porsi troppe domande. Era quello che faceva da quando l’aveva conosciuta, dopo tutto: aiutarla in qualsiasi circostanza.

Tutto cominciò la mattina del 31 ottobre. Max si era alzata dal suo letto come ogni mattina: per lei Halloween non era speciale. Come diceva zio Sam per loro tutti i giorni sono Halloween, ma a quanto pare, suo padre subiva il fascino di quella festa e ogni anno le regalava un sacchettino pieno dei dolci che le piacevano di più: cioccolata al gianduia, caramelle gommose, caramelle dal ripieno frizzante – quelle erano talmente forti che la facevano starnutire, ma le piacevano moltissimo.
Per un attimo, il pensiero di trovare fuori dalla sua stanza un percorso, fatto con i post-it gialli attaccati al pavimento, che l’avrebbe condotta al fatidico posto dove avrebbe trovato il suo bottino, la fece andare indietro di moltissimi anni, quando, da bambina, papà le comprava un costume e andavano in giro a fare dolcetto o scherzetto. Ogni anno un costume nuovo. C’era stato l’anno della streghetta, quello della piccola zombie e l’anno in cui era stata un piccolo alieno. E ogni anno, lui le stringeva la manina e la portava in giro per le strade, porta a porta a chiedere dolcetti o, in caso contrario, a fare scherzi – che la maggior parte delle volte consistevano nel lanciare carta igienica appallottolata e bagnata contro le finestre. Non era per niente simpatico, se ci pensa. Chissà quanto hanno dovuto ammattire le persone per togliere la carta secca.
Si divertiva in quelle serate dove stava sola con papà, dove lui era tutto per lei. Erano quelle le uniche serate dove Max non rimaneva a casa con Bobby guardando suo padre uscire in piena notte, seguito dallo zio Sam, senza capirne il motivo.
“Zio Bobby,” aveva chiesto una notte, mentre guardava ancora la porta chiusa, dopo che Dean e Sam erano usciti, “papà scappa da me, quando esce con il buio?”
Ricorda come Bobby si fosse chinato alla sua altezza – quella di una bambina di cinque anni – e, dopo averla presa in braccio, le avesse risposto: “No, tesoro. Papà non scappa da te. Se potesse, starebbe con te ogni momento della sua giornata, ma deve andare a lavorare.”
“Che lavoro fa papà?” aveva chiesto, appoggiando la testina sulla spalla di Bobby per mettersi comoda.
“Beh.. diciamo che è una specie di super eroe. Papà e lo zio Sam salvano le persone, ma deve rimanere un segreto, intesi?”
Aveva annuito, dopo aver rialzato la testolina per guardare Bobby con gli occhi eccitati e pieni di stupore infantile, con il cuoricino che esplodeva di gioia e di quello che da grande avrebbe riconosciuto come orgoglio.
“Segretissimo. Non lo dirò a nessuno!”
“Brava piccola. E ora a nanna!”.
Max riusciva ancora a vedere Bobby che saliva le scale di casa e la conduceva in camera di Dean, dove vicino ad un letto grande se ne trovava uno più piccolo, ornato da tre peluche – un ippopotamo, un cagnolino e un orsetto – che Dean le aveva regalato. Erano i suoi preferiti e senza quelli non riusciva ad addormentarsi.
Le mancano quei giorni, quelli dell’innocenza, quelli dell’ignoranza. Quelli della favola della buona notte. Quelli dove non si accorgeva degli amuleti piazzati vicino al suo lettino perché per lei erano solo giocattoli che non si toccano, altrimenti i sogni scappano. Era così che Dean le diceva. Aveva sistemato pentacoli sopra al suo letto e le diceva di non toccarli, altrimenti non avrebbero potuto intrappolare i suoi sogni belli e, se i sogni belli non si catturano, poi non si realizzano. Non sapeva che il suo lettino giaceva sopra ad una trappola del diavolo. Era all’oscuro del fatto che ogni notte, non appena lei chiudeva gli occhi, Dean faceva un cerchio di sale intorno alla struttura del lettino. Non sapeva. Non vedeva. Era troppo piccola ed innocente per capire, ma poi… poi la verità venne alla luce. Troppo presto, se lo si chiede a Dean, che avrebbe voluto tenerla all’oscuro per molto più tempo.
Max, infatti, scoprì l’esistenza di ciò che viveva nell’oscurità quando, dopo aver visto uscire di casa suo padre, Sam e Bobby, la mattina seguente vide tornare solo gli ultimi due. Papà non era tornato. Papà sarebbe stato via molto tempo. Aveva sette anni. Era rimasta a casa con la signora che viveva in fondo alla strada e portava le torte a Bobby. Non ricorda il suo nome, ricorda solo che lei sembrava non dare peso all’assenza di Dean. Ricorda che la vide uscire di casa come se tutto fosse normale, ma lei non vedeva il suo papà. Il suo papà non era tornato insieme al sole e, di solito, quando Dean usciva con il buio, appena tornava il sole, tornava anche lui. Ma non quella volta. Quella volta c’era zio Sam con gli occhi lucidi, incapace di guardarla negli occhi – gli stessi di Dean. Lo vide fuggire e, per la prima volta, Sam non le sembrò grande e coraggioso, quanto piuttosto piccolo e spaventato, proprio come lei. Ricorda che Bobby si chinò alla sua altezza. Lei stringeva l’ippopotamo forte a se – era il primo peluche che Dean le aveva regalato ed era il suo preferito dei tre. Lo stringeva come se dovesse darle forza, come se così facendo avrebbe fatto sbucare suo padre dalla porta, con gli occhi stanchi, la faccia sporca, ma il sorriso felice. Se avesse stretto quel pupazzo era sicura che le sarebbe corso in contro e l’avrebbe sollevata da terra, le avrebbe baciato la guancia e l’avrebbe abbracciata. Lei avrebbe sentito quello strano odore su di lui, un odore estraneo che si mischiava a quello buono che normalmente aveva la pelle di papà. Sarebbe successo, lo sapeva. Doveva solo stringere quell’ippopotamo un po’ più forte e papà sarebbe apparso. Ma non andò così. Stringere quell’ippopotamo di pezza risultò inutile. E lo capì quando Bobby, chino alla sua altezza, le parlò con voce calma, cercando di non andare in pezzi. Era troppo piccola per capirlo, ma quando fu più grande, capì che quel giorno Bobby stava cercando di rimanere integro per lei. Avrebbe voluto urlare tutta la sua frustrazione, avrebbe voluto piangere e disperarsi – dopotutto, aveva perso un figlio – ma l’unica ragione per cui non lo fece era proprio davanti a lui, con il pigiama, che lo fissava con gli occhi grandi e supplicanti.
“Max, tesoro…”
“Dov’è papà?”
Bobby guardò le lacrime gonfiare gli occhi di quella bambina che amava tremendamente, come se fosse sua nipote, e si costrinse a dire la verità.
“Max..” fece una pausa, cercando di ingoiare il magone formatosi in gola, “papà.. papà non tornerà per un po’.”
“Dov’è andato?”
“Lui.. lui è.. lui è andato in cielo, tesoro.” Di certo, non si sentì di dirle che suo padre era stato spedito all’inferno dopo essere stato divorato da dei segugi infernali. Sapeva che prima o poi avrebbe dovuto dirle la verità, ma non era il momento. Lei era così piccola, una bambina innocente. Mentì, omettendo i particolari e sapendo che in quel modo avrebbe capito.
“Con la mamma?”
Quella domanda fu il colpo di grazia che frantumò il cuore di un vecchio cacciatore con la reputazione di essere un burbero uomo temprato dalle avversità della vita. Niente di quello che aveva vissuto fino ad ora faceva male come la perdita di Dean e la domanda uscita dalla bocca di quella bambina.
“Sì, con la mamma.”
Max non disse niente. Si limitò a gettarsi al collo di Bobby e a stringerlo forte. Pianse. Pianse a dirotto tutte le sue lacrime. Bobby rimase a sentirla singhiozzare, impotente, mentre guardava l’ippopotamo gettato a terra. Max l’aveva abbandonato, insieme  alla speranza. Quel pupazzetto era il simbolo delle loro speranze distrutte, della loro memoria addolorata, della sofferenza. Di Dean, adesso, non rimanevano che il ricordo e dei pupazzi di pezza che Max avrebbe stretto giorno e notte per tre mesi consecutivi.
Se lo ricorda bene. Non voleva dormire nella stanza dove dormiva con papà, quindi aveva portato tutti i suoi giocattoli in camera di Bobby per dormire con lui. Mentre zio Sam… be’, zio Sam in quei mesi si faceva vedere poco e, quando compariva, puzzava di un odore strano, un odore che una bambina di sette anni non conosce, ma che un uomo trafitto dalla sofferenza riconosce come l’unica medicina capace di guarire un cuore ferito: whiskey.
Quello fu un periodo difficile per tutti. Max ha ancora un ricordo estremamente vivido di quel periodo, nonostante siano passati dieci anni. Quelli sono stati i mesi più tremendi di tutta la sua vita. Ha scolpito quella sensazione di smarrimento e sofferenza nel cuore. Ancora oggi, se pensa alla possibilità di perdere di nuovo suo padre, le budella le si contorcono e il respiro le manca a tal punto che riesce a sentire chiara e limpida la sensazione di soffocamento.
Ma poi, papà fece ritorno. Era settembre e l’ultima cosa che si aspettavano era di vederlo davanti alla porta di casa Singer, sporco di terra e disidratato. Max ricorda che era stato Bobby ad aprire la porta, intimandole di stare nascosta, ma lei non aveva resistito: appena aveva riconosciuto la voce di suo padre gli era corsa in contro per farsi prendere in braccio e farsi abbracciare. Ma Bobby l’aveva agguantata al volo dicendole di aspettare. Non capì perché e la cosa divenne ancora più strana quando gli lanciò dell’acqua in faccia. Bobby non era forse felice che papà non era più in cielo?
“Bobby sono io.”
“Ti ho seppellito tre mesi fa. Hai fatto un patto, Dean. Come diavolo hai fatto a tornare??”
L’unica cosa che Dean riusciva a guardare, in quel momento, era la sua bambina. Non sentiva Bobby, sentiva solo lo sguardo di sua figlia addosso. Non era cambiata molto, ma per lui era cambiato tutto. Era grato di poterla guardare di nuovo. Esplodeva di gioia all’idea di poter sentire di nuovo la sua vocina che gli fa domande su qualsiasi cosa – in questo, gli ricordava sempre Sam.
“Non lo so. Ma sono io. E..” si gettò su sua figlia. Bobby lo lasciò fare. La strinse forte a se e pianse. Quella fu la prima volta che Max vide il suo papà piangere.
“Sei triste, papà?”
“No, amore. Sono felice di rivederti. A volte si può anche piangere di gioia.”
“Non tornerai più in cielo?”
Dean lanciò un’occhiata a Bobby che gli fece un cenno d’assenso con la testa. Il giovane cacciatore intuì che le avevano spiegato in quel modo la sua assenza.
“No, tesoro. Rimarrò con te.”
“E la mamma? Anche lei tornerà?”
E quello fu il momento in cui tutto venne a galla. In quel preciso momento Dean Winchester, l’uomo giusto che aveva versato sangue all’inferno e aveva inconsapevolmente rotto il primo dei sessantasei sigilli necessari all’inizio dell’Apocalisse, spiegò a sua figlia che le cose brutte esistono davvero, che i mostri esistono davvero. Le spiegò l’esistenza dei demoni – che sono in grado di fare patti con gli esseri umani – e del male nel mondo. Ma le spiegò anche che non doveva averne paura perché papà sapeva combatterli e le avrebbe insegnato a farlo. Può sembrare una cosa crudele, meschina – lui stesso si trovò a pensare che differenza ci fosse, arrivati a questo punto, tra lui e suo padre, l’uomo che non l’aveva mai trattato come un bambino e che l’aveva privato dell’infanzia da quando aveva quattro anni. Per questo decise che conoscenza non significava necessariamente passare all’azione. Conoscere non significava necessariamente cacciare.
Max, per come la vedeva lei, era una specie di letterata del sovrannaturale: sapeva ogni cosa, ma non aveva mai combattuto contro qualcosa. Sapeva sparare, ma gli unici bersagli che aveva colpito erano lattine vuote di birra. Sapeva a memoria ogni incantesimo e quali ingredienti servissero per fare in modo che riuscisse alla perfezione, ma non ne aveva mai fatto uno. Non era difficile capire in che situazione si trovasse, dopotutto. Era un piccolo topo da biblioteca che non era mai uscito dalla tana sicura.
Non appena quella mattina varcò la soglia della sua camera, dopo essersi lavata e vestita – e dopo aver accantonato per un momento i pensieri del suo passato che le vorticavano in testa – trovò esattamente ciò che si aspettava di trovare: una fila di post-it. La seguì con un sorriso perché sebbene pensasse che per loro fosse Halloween tutti i giorni, quello vero capitava una volta l’anno e papà si impegnava tanto per renderlo un giorno speciale e meno macabro rispetto alla loro quotidianità. Paradossalmente per lei Halloween aveva qualcosa di particolare, ma non perché poteva mascherarsi, quanto piuttosto per il fatto che tutte le cose che conosceva, davanti ad una festa che tendeva a ridicolizzare i mostri, diventavano meno spaventose, meno reali e più leggendarie. Insomma, se dietro alla maschera di un vampiro si trovava il viso di un suo compagno di scuola, quel vampiro diventava automaticamente meno terrificante e più.. familiare.
Arrivò alla fine della fila dopo aver sceso tutte le scale, ritrovandosi in cucina dove sul tavolo c’era la sua colazione: pancake ai frutti di bosco e un sacchettino di dolci. Ai fornelli, con un grembiule verde pastello decorato da un bordino a balzette azzurro legato in vita, c’era Dean Winchester.
“Buongiorno!” esclamò facendo sobbalzare suo padre che immediatamente le rivolse un sorriso non appena i loro occhi – estremamente simili, per non dire identici – si incrociarono.
“Buongiorno a te, fiorellino. Hai fame?”
“Fiorellino? Sul serio, papà?”
“Preferisci crisantemo? O magari cactus? Aspetta, riprovo: buongiorno mio piccolo cactus spinoso, hai fame?” la guardò, alzando un sopracciglio con fare divertito, “Che dici, suona più affettuoso?”
Max rise, incapace di trattenersi. Suo padre aveva uno strano senso dell’umorismo, ma chissà come mai riusciva a farla sorridere comunque.
“Sì, sto morendo di fame!” si sedette e cominciò a mangiare la sua colazione, mentre studiava il sacchettino senza però aprirlo.  
“Guarda che mica ti morde!” intimò suo padre, mentre si sedeva davanti a lei. Nel suo piatto uova strapazzate e bacon. Lei guardò quel contenuto con le sopracciglia aggrottate.
“Smettila di fare quella faccia, Max.”
“Dico solo…”
“Lo so cosa dici e se volessi sentirlo dire andrei da tuo zio Sam.” Infilzò le uova e si portò un boccone alla bocca. L’attenzione di Max, adesso, era tutta per lui. Aveva abbandonato per un momento la sua colazione e il suo sacchetto.
“Mangi troppe uova fritte e bacon, papà…”
Nell’espressione corrugata e preoccupata della figlia, Dean riconobbe Abigail e per un attimo provò una fitta dolorosa al cuore. La fissò come se da un momento all’altro Max potesse parlare con la voce della donna che aveva amato e gli era stata portata via troppo presto.
La guardò quasi con la speranza che si voltasse a cercare appoggio dalla madre, perché Dean sapeva benissimo che se Abigail fosse stata ancora qui le avrebbe dato ragione. Magari un po’ lo faceva per quello. Magari tendeva ad assumere dei comportamenti che sapeva l’avrebbero un poco preoccupata per vedere se si sarebbe manifestata, in una forma o nell’altra, per impedirgli di farsi tappare una vena dal colesterolo. Era possibile, no? Forse Abigail sarebbe potuta tornare sotto forma di fantasma e lui avrebbe potuto vederla un’ultima volta, avrebbe potuto cancellare l’immagine di lei che brucia attaccata al soffitto, proprio come aveva fatto sua madre. Avrebbe potuto cancellare dalla sua mente le grida agonizzanti della sua adorata che non era riuscito a salvare. Avrebbe potuto dimenticare l’odore della sua carne che brucia lentamente e la sua voce che non riesce nemmeno a gridare il suo nome per cercare aiuto, troppo impegnata a squarciarle la gola per via delle urla di dolore.  
Ma ciò non era possibile.
(ABIGAIL
Era la sua voce quella che tentava di sovrastare ogni rumore nella stanza. Perché si sentiva impotente, perché si sentiva un incapace. Ma voleva farle sapere che era lì, che stava tentando di raggiungere il soffitto per impedirle di fare la stessa fine di Mary.
Ma non andò così. Lui era maledetto ed era destinato a guardare impotente le donne della sua vita che morivano per causa sua).
Abigail non sarebbe tornata sotto forma di fantasma perché era in Paradiso. Questo lo sapeva, l’aveva chiesto a Castiel e gli aveva fatto giurare di dire la verità.
Te lo giuro su Max, Dean. Abigail sta bene. È in Paradiso ed è serena.
Lei… lei mi ha perdonato?
Non ti ha mai ritenuto colpevole di ciò che è successo, credimi.

Se Castiel arrivava a giurare su Max significava che stava dicendo la verità. In realtà, gli avrebbe creduto anche se non avesse giurato su sua figlia, ma, conoscendo Cas, sicuramente l’aveva fatto per fargli capire quanto fosse profondamente radicato nella verità ciò che gli stava dicendo.
Abigail stava bene.
Abigail non lo riteneva responsabile.
Abigail gli mancava da impazzire. Ogni giorno, ogni ora, ogni minuto.
Si ricompose, accantonando in un angolo del suo cervello quell’argomento e tornò a concentrarsi su Max.
“Tu mangi pancakes, direi che siamo pari.”
“Bene,” fece lei, allontanando il suo piatto, “smetterò di mangiarli. Tu smetterai di mangiare con così tanta frequenza colazioni simili,” gettò lo sguardo al piatto del padre, “e ci impegneremo a nutrirci di qualcosa di più sano.”
Dean alzò gli occhi al cielo, sentendo ogni fibra del suo corpo che si ribellava a quella richiesta, ma sapeva che era tutto inutile. Non sapeva dire di no alla sua bambina. Se gli chiedeva una cosa che poteva realizzare cercava di impegnarsi per realizzarla.
“Va bene, mangeremo colazioni più sane.”
“Il tuo cuore mi ringrazierà!” sorrise vittoriosa. Quel sorriso era come il suo. Gli angoli della bocca si incurvavano all’insù nello stesso modo in cui lo facevano i propri.
“Certe volte mi domando se tu non sia un mini clone di tuo zio.” Assottigliò lo sguardo, puntandole l’indice contro. Max rise e Dean riconobbe in quel suono la stessa risata di Abigail. Nonostante la nostalgia che gli attanagliava il cuore ogni volta che notava certe somiglianze, era felice di trovare pezzetti di lei nella loro bambina. Ed era ancora più felice quando notava che Max era un perfetto connubio delle loro caratteristiche: gli occhi verdi come i suoi, il naso piccolo di Abigail, la risata della madre e il sorriso di suo padre. Max era la testimonianza della loro unione, del loro amore. Era la perfetta personificazione del ricordo di Abigail, che era scolpita dentro al cuore di Dean in maniera così profonda da fare male. Abigail gli mancava come l’aria. La sua assenza era dolorosa come una costante ulcera perforante. Ma gli bastava guardare Max per sentire il cuore ammorbidirsi. Guardava sua figlia e quel filo spinato che teneva chiuso in un laccio stretto il cuore del cacciatore, allentava la presa e dava pace a quell’organo vitale lasciando che un poco le ferite smettessero di sanguinare. Anche se, purtroppo, non rimarginavano mai. Dean non sarebbe mai guarito, ma amava sua figlia più di qualsiasi altra cosa e non gliel’avrebbe mai fatto capire. Non l’avrebbe mai messa al corrente di quanto profonda fosse la sua sofferenza. 
“Mangia, papà, è meglio!”
Si estraniò (di nuovo) dai suoi pensieri e continuò: “Niente colazione sana?”
“Per oggi no. Faremo i sani domani, ci stai?”
“Brava la mia bambina!”
Max scosse la testa con il sorriso ancora stampato in viso, poi continuò a mangiare la sua colazione.
I suoi occhi tornarono al sacchetto.
“Che fai, quest’anno non lo apri?” Dean alzò entrambe le sopracciglia mentre i suoi occhi rimasero fissi su Max, che indugiava su quel sacchettino.
“Posso?”
“Devi.”
Max sorrise e batté le mani, euforica. La stessa euforia di quando era una bambina. La stessa espressione radiosa di quando era piccola. D’istinto, Dean sorrise.
Non si perse nemmeno un minimo gesto di Max, che scartava il sacchettino con una cura e precisione quasi maniacale. Una volta aperto, rovesciò il contenuto sul tavolo: caramelle di ogni genere e cioccolata.
“C’è quella al gianduia!”
“Perché sembra che la cosa ti sorprenda?”
“Quando smetterai di trattarla come una bambina??” la voce di Bobby interruppe quel piccolo momento padre-figlia. Il vecchio cacciatore entrò in cucina dopo aver lasciato lo studio, dentro al quale stava analizzando gli indizi per un possibile caso. I suoi occhi, notò Dean, erano stanchi e arrossati. La pelle del viso tirata, come se la mancanza di sonno l’avesse fatto invecchiare di cinque anni.
“Mai!”
Bobby alzò un angolo della bocca, in un sorriso intenerito, seppur stanco.
“Ciao, tesoro.” Disse, baciando la testa di Max. Lei chiuse gli occhi, sorridendo. Voleva bene a Bobby, lo reputava il nonno che non aveva mai avuto. Aveva conosciuto suo nonno John, ma era talmente piccola che lei non riesce a ricordarselo. Il loro incontro è testimoniato da una foto che li ritrae insieme, dove Max ha sei, al massimo sette mesi, e John la tiene in braccio – guardando la fotocamera con sguardo impacciato e un sorriso imbarazzato. Avrebbe voluto conoscerlo, nonno John. Così come avrebbe fatto volentieri la conoscenza di sua nonna Mary. Ma chissà, forse se le cose nella famiglia di papà fossero andate diversamente, lei non sarebbe al mondo, in questo momento.
La storia di come si sono incontrati la sua mamma e il suo papà, infatti, gira proprio intorno al lavoro di quest’ultimo. Ma Max non ha mai saputo i dettagli. Quando era piccola e li aveva entrambi con se non le era mai balenata in testa l’idea di chiedergli come si fossero conosciuti e, quando era diventata più grandicella e certe domande le vorticavano in testa, ormai la mamma non c’era più da un pezzo e a papà non piaceva parlare di lei. Max sa che l’argomento mamma è un tabù. È una ferita ancora troppo aperta nel cuore di suo padre e, anche se lui si impegna a non darlo a vedere, Max glielo legge in faccia ogni volta che accenna ad una possibile domanda su di lei, o quando per caso trova in degli scatoloni delle cose che le sono appartenute. Abigail manca anche a lei, vorrebbe sapere di più su sua madre, cercare di avere informazioni su com’era, su ciò che le piaceva, se sapeva cantare o se odiava la musica, cose del genere. Piccoli dettagli che le permetterebbero, in un modo o nell’altro, di conoscere un po’ di più la sua mamma, quella donna che avrebbe dovuto imparare a conoscere nell’arco di tutta la sua vita, ma che, invece, le è stata portata via troppo presto.
Lei non ha avuto tempo per conoscere la sua mamma.
Sentì gli occhi che iniziarono a pizzicare, come succedeva sempre ogni volta che pensava a lei. Di solito quella sensazione era seguita da un groppo in gola e poi da lacrime, che scendevano silenziose e pacate, quasi tranquille. Non facevano mai rumore. Le sue lacrime, discrete e copiose, le dimostravano un devoto rispetto per il dolore che provava pensando alla sua mamma. Era quasi come se la commemorassero con la loro presenza e la rispettassero con il loro silenzio.
Si concentrò sulla conversazione che Bobby e Dean stavano avendo, cercando di scacciare quei pensieri.
“..Dormi troppo poco, Bobby.”
“Vuoi dirmi quante ore dormi tu, ragazzo?”
“È diverso. Tu sei vec-…”
“Non azzardarti a finire la frase o sbatto il tuo sfacciato culo fuori da casa mia!”  
“Non lasceresti mai Max senza una casa!” ribatté il giovane, sicuro di se.
“Infatti, sbatterei solo te fuori di qui!”
L’espressione che si formò sul viso di Dean era dir poco ilare: strabuzzò gli occhi, rischiando di farli uscire dalle orbite, la sua bocca si spalancò, in un chiaro segno offeso. Max si lasciò sfuggire una risata che mise a tacere i malinconici pensieri di poco prima. Sapeva che Bobby non avrebbe mai fatto mancare una casa a papà, ma vederli bisticciare in quel modo le piaceva. Quello era il loro rapporto: entrambi si preoccupavano per l’altro e l’altro, puntualmente, diceva che non c’era nulla di cui preoccuparsi.
“Non lo faresti!”
“Oh, lo farei!”
“..Scusate..” si intromise delicatamente Max, ma nessuno sembrò darle ascolto. I due continuarono a bisticciare sull’importanza che aveva il sonno per un uomo ormai attempato, mentre l’uomo attempato in questione continuava a ripetere che i giovani non sanno più portare rispetto. Max rimase in disparte, finendo i suoi pancakes fino a quando una mano non si posò delicatamente sulla sua spalla. Si voltò, incontrando il viso di zio Sam, che se la stava ridendo di gusto. Max notò che i suoi lunghi capelli erano bagnati. Probabilmente aveva fatto una doccia dopo la sua abituale corsa mattutina perché profumava di shampoo – quello shampoo costosissimo che teneva in un posto segreto, nascosto dalle grinfie di papà(1) perché riteneva che tuo padre ne usa troppo, per avere i capelli così corti. Una volta, prima che Sam imparasse a nasconderlo, Dean gliel’aveva persino finito senza dirgli niente. Quel giorno Sam era stato costretto ad andare fino al supermercato per ricomprarselo, così da potersi lavare i capelli con qualcosa che non glieli facesse assomigliare a del fieno secco.
“Ne avranno ancora per un po’, vuoi che ti accompagni io a scuola?”
“Mmm,” lanciò un’occhiata al piccolo orologio che teneva al polso sinistro, “sì, sarebbe perfetto!”. Erano già le 8.30 e se non fosse partita entro cinque minuti sarebbe arrivata in ritardo.
Raccolse tutto il contenuto del sacchetto, lo chiuse di nuovo al suo interno – aveva intenzione di mangiare qualche dolcetto a metà mattina – e si alzò dal tavolo. Non appena fece cenno di prendere il piatto, ormai vuoto, per portarlo al lavandino i due litiganti tacquero. Entrambi la fissarono.
“Dove stai andando?” le domandò Dean, aggrottando le sopracciglia, come se quel comportamento fosse strano.
“A scuola?” nella punta di sarcasmo usata dalla figlia, Dean riconobbe quella parte caratteriale ereditata da Sam: sarcasmo pungente e intelligenza spiccata. Non che lui si ritenesse uno stupido, intendiamoci, ma la voglia che Max aveva di studiare e la sete che aveva di apprendere non erano certo così radicate in lui, quanto piuttosto in Sam.
“Vuoi andare via senza di me? Devo ricordarti che non puoi ancora guidare?”
“No, ma zio Sam può. E lui non stava litigando con nessuno, perciò…”
“Perciò un corno. Prima che tuo zio guiderà di nuovo la mia piccola passeranno secoli!” si voltò in direzione del fratello, lanciandogli un’occhiata truce. Sam, in risposta, alzò gli occhi al cielo.
“Non fare quella faccia, Sam! Ci vai troppo pesante sui freni(2). Quando la usi poi devo mettermi a sistemarla. Dovresti trattarla con la gentilezza riservata alla più bella e delicata delle donne, invece la tratti come se fosse un miserabile tappeto vecchio da calpestare!”
“Papà….”
“Si, tesoro mio?”
“Ricordi che abbiamo già parlato di questa cosa, vero? L’abbiamo definita esagerazione!”
Dean le rivolse lo sguardo tipico di chi si sente tradito nel profondo dalla persona che conta di più per lui al mondo. Persino sua figlia, il suo tesoro più prezioso, gli stava voltando le spalle!
“Tu quoque, Bruti, filii mi!” assottigliò lo sguardo, puntandole l’indice contro. Max scosse la testa, ridacchiando.
“Muoviti traditrice,” continuò poi il cacciatore, “o farai tardi a scuola!”

                                                                              ***

Dean fermò la macchina esattamente davanti a scuola. Come succedeva ogni mattina, gli sguardi degli studenti che si erano radunati nel cortile che separava il grande edificio scolastico dalla strada cementata si posarono sulla Chevy Impala nera del ’67 che aveva appena finito di ruggire. Ogni volta che suo padre girava la chiave nel quadro per spegnere il motore, a Max sembrava che mettesse a tacere il ringhio gutturale e potente di un leone insaziabile. In effetti, Baby aveva mangiato parecchi chilometri e, con la cura che Dean metteva nell’occuparsi di lei, ne avrebbe mangiati ancora moltissimi. I ragazzi – o almeno quelli che ne capivano di automobili – erano affascinati da quel pezzo di storia, brillante come un gioiello. Le ragazze… be’, loro erano un po’ distratte da chi guidava quel gioiello. Poco importava che l’uomo al volante potesse essere il loro padre perché, in realtà, erano affascinate da ciò che rappresentava: uno stereotipo. Nello stesso modo in cui alcune donne hanno un debole per gli uomini in divisa, che siano agenti di polizia, o militari, o guardie della sicurezza, le ragazze delle scuole superiori sono affascinate da uomini attraenti alla guida di una bella macchina. Non erano attratte da Dean in quanto Dean, erano attratte da lui per ciò che rappresentava. Per questo non se la prendeva più di tanto. Nessuna di quelle ragazze desiderava davvero il suo papà. Avrebbero solo voluto andare a fare un giro su quella macchina che tanto attirava l’attenzione per poi andarlo a raccontare alle amiche, scatenando in loro anche una punta di invidia. Lo sapeva. Lo vedeva nei loro sguardi, nelle gomitate che si tiravano una con l’altra. Lo sentiva nei risolini isterici e soffocati che emettevano quando lui si sporgeva dal finestrino per salutarla un’ultima volta, dopo che si erano già scambiati un saluto. Sentiva i loro sguardi su di se ogni volta che scendeva da quella macchina dopo che papà le aveva baciato la guancia e, non appena le superava, sentiva i loro sospiri sognanti. Quasi come se la invidiassero. Quello dimostrava quanto tutto questo girasse intorno ad una fantasia adolescenziale: nessuna di quelle ragazze, infatti, sembrava rendersi conto che quell’uomo era suo padre. E, di conseguenza, non c’era nulla di poetico, ne tanto meno romantico, in quella che per lei era routine familiare. Ma, di nuovo, a loro poco importava. Tutto girava sull’affascinante, ombroso, uomo alla guida di una bella macchina.
“Un giorno guiderò quell’auto.”
Max trasalì sentendo quella voce alle sue spalle, ancora troppo intenta a guardare papà che si allontanava e Baby che diventava sempre più piccola. Un puntino nero che si perdeva nel confine tra il grigio della strada e l’azzurro del cielo terso del South Dakota.
Max si voltò verso quella voce, incrociando la figura del suo migliore amico, ancora con lo sguardo languido fisso sulla vettura che ormai era indistinguibile. Benjamin Jones, il ragazzo innamorato di Baby quasi quanto Dean.
A Max sfuggì una risata: “Certo, e io un giorno cavalcherò un unicorno!”
Benjamin portò la sua attenzione su di lei, abbassando lo sguardo. Ben era alto quasi quindici centimetri più di Max e la ragazza era fermamente convinta che se avesse continuato a crescere in quel modo, presto sarebbe stato alto quanto zio Sam. La sua altezza, comunque, era uno dei motivi per cui aveva così tanto successo con le ragazze. Non ce n’era una che non gli lanciava un’occhiata incuriosita, al suo passaggio. Ben era quello che si definisce un  tipo bello e dannato. Dava l’impressione di un ribelle, sebbene in realtà amasse la sua routine e le sue regole.
“Questo cinismo di prima mattina è inaccettabile, Winchester. Se sei già così a quest’ora, entro le tre mi sarò rinchiuso in un armadietto nella speranza di non sentire più uscire dalla tua bocca parole che mi feriscono!” Sorrise, con la lingua tra i denti, e le fece l’occhiolino. Ben aveva gli occhi neri come la più scura delle notti e i capelli lunghi che teneva sistemati dietro alle orecchie o, come quella mattina, nascosti sotto ad un cappellino scuro di lana. In realtà, lei preferiva quando li portava dietro alle orecchie per il semplice motivo che in quel modo non venivano nascosti. Le piacevano i suoi capelli, scuri e lisci. Si trovò a pensare da quanto lei non li portasse lunghi. Da piccola li teneva lunghissimi, tanto che le sfioravano il sedere, ma poi, crescendo, aveva sentito papà dire a zio Sam che i capelli lunghi, durante una caccia, possono essere fatali.
“Metti che il mostro in questione non trova altro appiglio che la tua chioma, ti afferra e ti tira a se. Perché dargli questo vantaggio?”
“Andiamo, Dean. I miei capelli non sono così lunghi!”
Zio Sam aveva ragione: i suoi capelli non erano così lunghi da costituire un problema, ma quelli di Max si. E non voleva certo che una qualche creatura le strappasse via i capelli e tutto lo scalpo, se mai ne avesse incontrata una. Perciò aveva deciso di tagliarli.
Li portava corti, adesso. Benji per quel motivo la chiamava Rapunzel, ritenendo che con i capelli tagliati in quel modo e i suoi grandi occhi verdi sembrava proprio la principessa perduta.
Le piaceva che la chiamasse in quel modo. La verità è che le piaceva lui, anche se non aveva mai avuto il coraggio di confessarglielo. Erano così uniti che il solo pensiero di poter corrompere il loro legame con una confessione del genere le faceva provare un tuffo al cuore. Era meglio per tutti mantenere le cose così come stavano.
“Benji, non guiderai mai quella macchina. Mettitelo in testa!”
Il ragazzo si portò le mani sul cuore, tenendone una sull’altra, e contrasse il viso in una teatrale smorfia di sofferenza.
“Hai appena ucciso un uomo.”
“La verità non ha mai ucciso nessuno!”
Benjamin si incamminò verso l’entrata della scuola e Max gli si affiancò.
“Vuoi spiegarmi perché tiene così tanto a quella macchina?”
Max alzò le spalle: “Rappresenta tutta la sua vita, in pratica. Quando lui e mio zio erano bambini, quella macchina apparteneva a mio nonno e ci hanno fatto moltissimi viaggi.”
“Dove andavano?”
A caccia.
“In giro per l’America. Mio nonno aveva questa fissa di vedere gli Stati.”
“Figo. Lo faremo anche noi, appena avrò una macchina.”
La mente di Max fu invasa da un’ondata di immagini. Baby era la casa mobile di papà, lui viaggiava per andare ad uccidere mostri – tranne quella volta in cui un mostro (segugio, Max. Era un segugio infernale, chiama le cose con il proprio nome!) aveva ucciso lui. Non c’era niente di figo in tutto ciò. I viaggi non erano di piacere, erano di morte. Erano rischiosi, angoscianti. Erano viaggi di guerra, di battaglia. Erano incognite. Non si sapeva quando papà sarebbe tornato, in che condizioni l’avrebbe fatto, se fosse stato più o meno ferito. Avrebbe fatto anche lei quella fine? Una parte del suo essere lo desiderava. Sapeva di avere il sangue di una cacciatrice nelle vene e quella parte spesso ribolliva in lei con la stessa intensità di un’esplosione vulcanica. Ma l’altra parte le diceva che doveva avere la vita che papà voleva che lei avesse. Una vita all’insegna della protezione, della tranquillità. Una vita normale fatta di scuola, libri e pensieri per decidere in quale college andare dopo il diploma.
“Dipende cosa vuoi fare da grande, tesoro.”
Già, ma lei non sapeva davvero cosa voleva fare.
Le piaceva la sua vita? Certo. Ma la sentiva incompleta. Non si sentiva del tutto parte di quel family business a cui in casa sua si dava tanta importanza.
C’era quest’idea di mettere la famiglia al primo posto e lei lo faceva. Dio, se lo faceva. Niente per lei era più importante della sua famiglia. Ma a volte, sembrava che la cosa non fosse ricambiata. A volte si sentiva esclusa da quella parte di attività che rendeva i suoi familiari così speciali. Qualcuno potrebbe dire che non c’è niente di speciale nell’avventurarsi in casi dove si rischia la vita, ma la cosa speciale per lei era, in realtà, il fatto di salvare vite. E lei non salvava vite, salvava solo la sua. Era come se non si sentisse una vera Winchester, a volte, o si sentisse tale solo a metà. Era come se stesse sprecando la sua conoscenza.
“Maxie? Sei ancora con me?”
La voce di Benji la estraniò dai suoi pensieri (anzi, la strappò proprio via. Ebbe davvero l’impressione di essere spinta fuori da quel vortice intricato che si era formato dentro la sua testa e fosse stata riportata alla realtà).
Non sapeva perché quella frase le aveva fatto pensare a tutte quelle cose, sapeva solo che erano cose che non diceva ad alta voce. Che non avrebbe mai detto ad alta voce.
“Si, si. Stavo solo… pensando.”
“L’ho notato. E cosa ti preoccupa?”
“Niente, stavo solo..”
“..Pensando, ho capito. Ma la tua faccia era preoccupata. Avanti, sputa il rospo.”
Si fermò nel bel mezzo del corridoio scolastico e Ben con lei. Lo fissò incatenando i propri occhi ai suoi. Gli voleva bene, Dio solo sa quanto voleva bene a quel ragazzo. La capiva. La comprendeva. Lui era uno dei motivi per cui poteva abbandonare l’idea di cominciare a cacciare perché, sapeva, se avesse cominciato a prendere parte attiva nella caccia l’avrebbe perso, in un modo o nell’altro. Poteva finire nei guai, potevano torturarlo, o peggio potevano direttamente ucciderlo. Non avrebbe permesso una cosa del genere e quindi, come succede nei film con i supereroi, avrebbe finito per allontanarsi da lui.
È per il tuo bene, Benji. Non posso permettere che ti venga fatto del male. E lui avrebbe capito e si sarebbero allontanati per sempre.
Questo suo egoismo la faceva riflettere più di qualsiasi altra cosa. Papà aveva rinunciato ad avere una vita tutta sua per proseguire gli affari, così come aveva fatto zio Sam, che aveva rinunciato all’università per portare avanti la tradizione di famiglia. E lei? Lei accettava passivamente la decisione di suo padre solo perché in quel modo avrebbe potuto continuare a vedere e stare con Benji. Non era un tantino da irresponsabili? Non avrebbe dovuto contribuire anche lei alla salvaguardia del mondo? Chi sa, chi ha la conoscenza, non dovrebbe ficcare la testa sotto la sabbia, giusto? Dovrebbe reagire, combattere, affrontare i pericoli (i mostri) e salvaguardare le persone che non conoscono nulla dell’altro mondo, il mondo che ritengono solo frutto di leggende. Dovrebbe farlo anche se questo significa perdere chi amano per il semplice fatto che, allontanandosi da loro per andare a combattere, assicurerebbero ai loro cari una vita migliore, o almeno una vita con meno pericoli. È più facile vivere se bisogna pensare solo (anche se questo solo lo metterebbe tra virgolette) ai normali problemi umani, senza l’aggiunta di qualcosa di sovrannaturale.
“Max, se continui a fissarmi in quel modo senza spiccicare una parola, inizierò a pensare che tu stia impazzendo!”
“Non sto impazzendo, Ben. Sto bene. Nulla di cui preoccuparsi.”
“Sei sicura?” alzò un sopracciglio, come per dare enfasi a quella sua domanda, che avrebbe voluto scavare dentro la testolina iperattiva di Max. A volte, sebbene nella maggior parte dei casi Ben sentiva di capirla, riuscire a captare i suoi veri pensieri era difficile.
“Sicurissima!”
“Ci credo poco,” disse infine, ma poi alzò un angolo della bocca, dando vita ad un sorrisetto furbo, “ma farò finta di essere stato convinto.”
“Grazie.”
“Ne parleremo quando vorrai farlo.”  
Si avvicinò, sovrastandola, e l’abbraccio, tirandola a se. Max gli infilò le braccia sotto le sue e lo strinse, cingendogli la schiena. Gli voleva davvero, davvero, un mondo di bene. Anzi, il bene che gli voleva era così tanto che occupava lo stesso spazio di entrambi i mondi di cui Max era a conoscenza.

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(1) e (2) Sono riferimenti all'episodio 12x15 "Between Heaven and Hell" 

Grazie per essere arrivati fino alla fine, 
Un abbraccio! 

 
   
 
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