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Autore: Luana89    04/06/2017    0 recensioni
«Misha, sai cosa dicevano i navajo mentre camminavano in questo preciso luogo?» Sophia ci guardò come se si aspettasse una risposta, io scrollai semplicemente le spalle dando l’ennesimo tiro alla mia sigaretta. La sua voce divenne improvvisamente bassa, era l’eco di ogni mio battito. «Con la bellezza dinanzi a me avanzo. Con la bellezza dietro di me avanzo. Con la bellezza sotto di me avanzo. Con la bellezza sopra di me avanzo – l’aria si fermò improvvisamente, quasi ascoltasse anche lei – Finisce nella bellezza. Finisce nella bellezza» Sophia chiuse gli occhi come se cercasse di assaporarne meglio le parole. Misha corrugò la fronte probabilmente riflettendo sul senso di quel discorso. «E perché me lo stai dicendo?». Il silenzio ci assordò per qualche attimo.
«Sostituisci la parola ‘’bellezza’’ con ciò che ami di più, e avrai la risposta al quesito» gettai a terra la sigaretta allontanandomi da loro, mentre il mio riflesso diveniva simile ad un miraggio.
Genere: Angst, Drammatico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: Lemon | Avvertimenti: Violenza
Capitoli:
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ACT II
 
 
San Pietroburgo – 1996
 
Eleazar Petrov venne prelevato dalla propria dimora nel cuore della notte, con le manette ai polsi diede un ultimo sguardo al piccolo Aleksandr, rimasto adesso solo, consapevole che non lo avrebbe mai più rivisto.
 
Eleazar Petrov incontrò Inna Morozova all’età di vent’anni, una bellissima russa per la quale perse la testa. Il loro fu un amore travolgente, o almeno questo è ciò che mio padre raccontava spesso quando la malinconia della sua vita distrutta diveniva troppo da sopportare. Lasciò tutto per lei, mollò Perm la sua città natale e si trasferì a San Pietroburgo ricominciando insieme all’amore della sua vita. Venni concepito pochi mesi dopo il matrimonio, diciamo che la fretta è sempre stata un vizio di famiglia. Entrambi i miei genitori conducevano una vita regolare, papà poliziotto e mamma casalinga, penso che nessuno di loro due seppe mai bene quando tutto andò in pezzi.
Mio padre mise le mani in fascicoli che un semplice agente non dovrebbe mai e poi mai toccare, probabilmente si fidò della gente sbagliata ma il suo desiderio di un mondo migliore, di un mondo adatto al suo preziosissimo figlio fu più forte di qualsiasi riserva. La Russia ci tradì, ci calpestò senza alcun riguardo frantumando la nostra pace.
Ricordo il grande specchio nella mia camera, avevo otto anni e sistemavo il nodo della piccola cravatta con uno sguardo corrucciato e compunto, mia madre entrò in quel momento «Il mio bellissimo bambino ha bisogno di aiuto?». La sua voce dolce e mai severa è un eco ormai lontano, così come il suo viso che non riesco più a ricordare.
«No mamma, posso farcela da solo». Fiero persino nel mio metro e trenta d’altezza, mamma diceva avessi preso questo lato da mio padre.
«Perché quel viso imbronciato allora?». Sospirai insoddisfatto e i nostri occhi verdi così simili si soppesarono.
«Non dovresti bere tanto mamma, non ti fa bene». Il suo viso smunto ed emaciato divenne un pallido riflesso di ciò che era stato per una frazione di secondo. Ecco, probabilmente io fui l’unico a sapere l’esatto momento in cui tutto andò in pezzi: quando mio padre iniziò a farsi prendere dalla smania del lavoro, quando mamma finì la vodka in dispensa e suo marito finse di non notarlo. Quando con mani tremanti mi passò una collezione di poesie chiedendomi di nasconderla.
«Alexander, amore mio, dentro questo libro vi è la tua salvezza. Se .. se dovesse succedere qualcosa a mamma e papà non esitare ad usarlo». L’avevo vista scollare con perizia la carta ed infilarvi dentro parecchi soldi, rilegando il tutto con cura.
«Se papà la trova.. » non riuscii a finire il discorso, la sua espressione terrorizzata valse più di mille parole. Per la prima volta mostrava sfiducia nei confronti del marito, aveva sottratto i risparmi di una vita, li aveva rubati. Sapevo che lasciandole quel libro il denaro sarebbe evaporato con la vodka.
«Nascondiamolo nella mia libreria mamma». Le sorrisi affabile e i suoi occhi si illuminarono. Mi promise che non avrebbe bevuto più ma la sera dormiva sotto i fumi dell’alcool, mentre papà la fissava in silenzio.
La prima ad andarsene fu lei, uscì e non tornò più. Io so che furono loro a portarla via, lei non sarebbe mai scappata. Tre giorni dopo presero mio padre, le manette brillarono nella notte, le vidi nascosto dentro l’armadio.
In quella casa ormai impolverata resta l’eco delle nostre risate, ed il mio riflesso in quello specchio dalle mille crepe, incastrato per l’eternità. Quel bambino di otto anni giace ancora lì, e aspetta che io torni a riprenderlo da ben ventidue anni.
 

 
 
San Francisco – 2016
 
Sophia apparve nel suo metro e sessantacinque di capriccio a braccia incrociate, fissandomi con un sopracciglio inarcato di fronte le porte dell’aeroporto. Le andai incontro con un mezzo sorrisino e l’aria di chi sa già cosa lo attende.
«Hanno perso una mia valigia, dovrei querelare l’aeroporto. O magari San Francisco? O perché no .. gli Stati Uniti?». La voce cristallina e acuta, con una lieve sporcizia di stress, trapassò le mie orecchie. Le afferrai il braccio trascinandola verso l’auto nella quale stavano già caricando i bagagli.
«Sonech’ka, non iniziare già adesso con le tue manie da megalomane, te ne prego». Il mio tono fintamente disperato non la convinse neppure un po’. Salì sbattendo la portiera, rintanandosi nell’angolo più lontano a braccia incrociate. Mi bastò sedermi per sentire il suo odore familiare, Sophia odorava di lillà e primavera, i lunghi capelli castani avevano la consistenza della seta e gli occhi color del miele sembravano scandagliarti l’anima e rivoltarla, peccato poi parlasse. Un difetto doveva pur averlo. Ma a lei avrei perdonato tutto. Tutto.
«Non inizio nulla, non mi importa molto di quella valigia». Mosse in aria la mano con noncuranza, rendendomi curioso.
«No? E’ avvenuto quindi il miracolo finalmente? Ti sei decisa a crescere?». La beffeggiai beccandomi un’occhiata astiosa.
«No.. lì dentro c’erano le vostre cose. Tue e di quell’animale che non è venuto a darmi il benvenuto». La voce divenne improvvisamente serafica. La fissai in cagnesco allargando le narici.
«Sei idiota? Come diavolo hai fatto a perdere le nostre fottute cose?». Cambiai la marcia iniziando a guidare con gesto rabbioso.
«Ooooh, adesso sarei idiota? Vuoi sul serio che ti strappi ogni capello e ti renda calvo? Ricorda che parli con la tua principessa, ti taglio quella linguaccia che hai piccolo bast.. » non finì la frase, le parolacce non le piacevano molto, era convinta la rendessero meno ‘’regale’’. Sophia è qualcosa che non puoi descrivere a parole, devi viverla.
Passammo la restante mezzora litigando, come sempre. Se Misha era il suo adorato ‘’bambino sperduto’’ – e le restanti volte lo zotico animale – io ero la feccia, lo stronzo insensibile. Uno stronzo insensibile che per lei avrebbe dato la vita, e Sophia lo sapeva bene.
 
«Dov’è il mio Misha?». La voce cinguettante superò l’atrio arrivando fino al soggiorno da dove fece capolino la testa bruna del soggetto in questione che sorrise andandole incontro.
«Sophì». Sophia odiava quel nomignolo, e probabilmente lui lo usava al solo scopo di urtarla.
«Non ti decidi a divenire un essere umano?». Gli diede un pizzicotto, li ignorai iniziando a portare le valigie in soggiorno.
«Vi sono mancata? Quanto? Sento uno strano odore… avete portato delle sgualdrine qui dentro?». Ci fissò minacciosamente, io sbuffai lasciandomi ricadere sul divano. Si ricominciava.
«Si deve pur scopare a questo mondo». Il tono melanconico di Misha mi fece ridere, ma l’espressione della principessa mi fece desistere dal proposito.
«Shùra in che modo ti occupi della faccenda? Non lo capisci? Sta crescendo come un animale». Si sedette accanto a me togliendosi le scarpe. Dimenticava spesso che ormai il ‘’bambino’’ aveva venticinque anni suonati.
«Non lo capisci? Lui è nato animale». Sollevai la mano ricevendo il cinque in cambio.
«Parli tu? Sophì, non lo sai? Shùra scopa più di me e te messi insieme». L’aria si fermò, venni sbalzato nel gelo di Mosca.
«E’ la verità?». Fissai entrambi alzandomi.
«Ovvio che no … tu non scopi Sonech’ka». La risata di Misha echeggiò per la casa seguita dai passi dell’uragano Sophia che provò a colpirmi mancandomi per un pelo. Mi chiusi in camera lasciando i mocciosi da soli.
Il nostro rapporto era così, vi era una gerarchia persino nella nostra amicizia. Una linea di confine da non oltrepassare mai. Sophia restava intoccabile per entrambi, non bisognava sconfinare mai e poi mai. Il telefono squillò, fissai il numero sedendomi sul letto per poi rispondere:
 
  • Mi mancava la voce del mio Shùra.
  • Il Vor mi sta diventando sentimentale di questi tempi – una risata ed un sospiro –
  • Soonech’ka è arrivata?
  • Si è appena chiusa in camera sua, vuoi che te la passi?
  • No, ho chiamato per te. Ricordi Larisa? – la puttana del Vor è difficile da dimenticare, soprattutto se fugge facendo perdere le sue tracce insieme a documenti vitali –
  • Si, è stata trovata?
  • Si, è a San Francisco. Voglio che sia tu ad occupartene, puoi farlo?
  • C’è qualcosa che io non possa fare?
  • Mi ha sempre colpito questo di te, le tue ginocchia sembrano rivestite di titanio. Non ti pieghi mai.
  • Dimmi solo dove trovarla.
  • Non voglio qualcosa di eclatante, dobbiamo mantenere un profilo basso.
  • So già come eliminarla – sorrisi –
  • La tua mente machiavellica è sempre una fonte di gioia per me. Ti manderò tutto, voglio un lavoro pulito. Voglio che sia Misha a disfarsene.
  • Sergej..
  • No Shùra. Deve imparare a compiere lavori puliti e meticolosi. Se fallisce puniscilo.
  • Va bene.
 
 
Ricaddi stanco e spossato sulle lenzuola fresche, fissavo il tetto senza vederlo sul serio. Misha, il mio Misha, non era mai stato bravo a compiere quel tipo di lavori. A lui dovevi solo mettere in mano un’arma, lasciargli sfogare la rabbia lavandola via col sangue e tutto andava bene. Tempo prima aveva lasciato un cadavere sul lago ghiacciato, laddove tutti avrebbero potuto vederlo. Fece così scalpore che per poco la sua testa non penzolò dalla Cattedrale Rossa. Perché Sergej lo tiene ancora con se? Perché lui è il classico uomo che non ti lascia finché anche l’ultima goccia della tua anima non si perde inghiottita dalle sue spire.
 
«Abbiamo un lavoro da fare». Misi in bocca del bacon masticandolo lentamente, sentii gli occhi azzurri di Misha scrutarmi.
«Che tipo di lavoro?». Sorrisi mandando giù il boccone, pulendomi con un tovagliolo.
«Hanno trovato Larisa, è qui. Io mi disferò della sua vita e tu del suo corpo – lo soppesai in silenzio, la forchetta si scontrò col piatto mentre il sordo rumore dello sgabello graffiò le mie orecchie. Lo bloccai per un polso guardandolo in cagnesco – Un lavoro pulito Misha. Non una merda delle tue». Fissò le mie dita e poi me sorridendo.
«Ho capito, non c’è da preoccuparsi». Sul serio? Non ne ero molto sicuro.
«Me lo auguro, le cazzate andavano bene a diciotto anni, non adesso». Il suo viso si oscurò, mollai la presa.
«Perché ti affanni tanto? Famiglia? Non hai neppure idea di cosa sia una famiglia testa di cazzo boriosa. Io sono la tua famiglia». Sorrisi. Sapevo molto bene cosa fosse una famiglia, solo che avevo rivisto le mie priorità pur di restare con lui e Sophia.
«Larisa …». L’entrata in scena di Sophia stoppò le mie parole, ci fissò con occhi assonnati ficcandosi un biscotto in bocca.
«Parlate di Zia Larisa?». L’unico modo per definire la sua costante presenza in quella casa era stata quella di farle credere fosse una cugina del padre. Annuii abbassando lo sguardo sul mio piatto.
«Beh? Di che parlavate?». Ci fissò dubbiosa sbriciolando il biscotto sul marmo scuro dell’isola.
«Del fatto che zia sta male – Misha mi fissò interdetto – quindi preparati al peggio, non credo supererà la settimana». Il silenzio assordò tutti e tre. La mia rudezza e freddezza veniva perennemente scambiata per indifferenza, Sophia mi fissò disgustata chiudendosi in camera, probabilmente a piangere. Perché erano quelli i dolori che a lei era concesso avere. Perché era cento volte meglio vederla piangere per la mia insensibilità. Era cento volte, anzi no mille volte meglio vederla guardarmi disgustata perché pensava fossi uno stronzo insensibile, piuttosto che uno schifoso assassino. Le mie mani erano ormai contaminate, vi scorreva sangue in abbondanza, ogni cosa che toccavo marciva .. ma lei no. Non lo avrei permesso.
 
 
 
Varcai la soglia di casa con leggero ritardo, la figura di Misha mezza nuda mi si palesò dinanzi con espressione indolente «Sei tornato?». A lui piaceva dir cose ovvie, di quando in quando.
«Come vedi – annuì bevendo la birra, lo fulminai con un’occhiata – abbiamo Sophia in casa, potresti anche evitare di sfoggiare gli addominali, o pensi parta la ola?». Lo beffeggiai ancora sulla soglia, avevo come l’impressione che sarei uscito di lì a poco.
«Sei geloso che lei possa notarmi?». I suoi occhi azzurri divennero ancora più chiari.
«Dovrei? Misha questi trucchetti da quinta elementare funzionavano da mocciosi». Mantenni il controllo in maniera magistrale, il mio solito tono scocciato non sembrava scalfirsi.
«Tu dici? A me sembra propri di si … - trattenne una risatina, probabilmente sicuro di aver vinto il round – Comunque, Sophia non è ancora rincasata».
Lo fissai incredulo scuotendo il capo, due ore di stronzate prima di dirmi la cosa più importante? Tipico di lui. Gli voltai le spalle gettando la ventiquattrore sul pavimento, uscendo per andare alla ricerca di quella piaga che conoscevo ormai da vent’anni. La trovai venti minuti dopo nei pressi di un minimarket, giocava in una di quelle macchinette idiote nella quale lo scopo ufficiale era vincere pupazzi afferrandoli con una pinza, quello ufficioso fotterti i soldi. Leccai le labbra improvvisamente secche poggiandomi con la spalla al vetro della macchinetta, fissando le sue dita muoversi febbrili.
«Ti ho chiamato trenta volte, per quanto ancora mi toccherà ripeterti che alle mie chiamate devi sempre rispondere?». Non mi guardò continuando a giocare, sapeva come farmi incazzare d’altra parte mi conosceva bene.
«Sotto quale ordine? Chi sei per ordinarmi cose simili?». Mi correggo, lei mi conosceva benissimo. Non bene.
«Va bene, è ovvio che tu sia incazzata con me, possiamo parlarne?». Mi chinai per avere il suo viso alla mia stessa altezza, si voltò repentinamente cogliendomi di sorpresa. Sentii il suo respiro in faccia, e mi persi un po’.
«Pensi sia giusto il tuo atteggiamento? Zia Larisa ha cresciuto anche te in un certo senso, è così semplice per te … accantonare la gente? Lo farai anche con me?». I suoi occhi pieni di giudizio mi destabilizzarono, odiavo quando smetteva i panni della ragazzina viziata per indossare quelli della donna insicura. Sophia voleva solo primeggiare nel cuore di tutti.
«Che cazzate stai dicendo esattamente? Potrei mai accantonare ..te?». Sillabai quelle parole ad un centimetro dal suo viso, respirando profondamente, costringendola a seguirmi e abbandonare quel giochino idiota.
«Volevo vincere il pupazzo.. » la sua voce malinconica mi fece sentire colpevole. Con lei andava sempre così, ogni volta che la fissavo mi sentivo un verme. Bugie e sangue, bugie e sangue. Bugie e sangue.
«Ti comprerò l’intera macchina con tanto di pupazzi dentro se è questo che vuoi». Misi le mani in tasca camminandole a fianco. Non sembrò entusiasta come suo solito.
«No, voglio quello». Sbuffai spazientito allargando le braccia tornando indietro verso quel dannato gioco. «Quale? Qual è questo dannato pupazzo?». Mi fulminò con un’occhiata dandomi un calcio nello stinco, imprecai con una gran voglia di far scendere tutti i santi.
«Non permetterti di fare l’aggressivo con me. Non sono quei falliti che frequenti e comandi a bacchetta». Incrociò le braccia al petto con il tipico sorriso di chi pensa di saperla lunga, carezzai l’interno della guancia con la punta della lingua tirando su col naso.
«Va bene, quindi?». Mi fissò con sospetto, il mio improvviso tono bonario non convinceva neppure me.
«E’ quello..». Indicò una sottospecie di unicorno dall’aria morbida e stupida. Annuii prendendo il portafoglio.
«Okay, te lo compro – Le sue mani si aggrapparono alla pelle del mio braccio graffiandola, scuotendo il capo – Che diavolo hai?».
«Non ti permettere. Devo vincerlo. Anzi devi vincermelo..» ci fissammo e seppi che l’avrei accontenta. Passai le due ore seguenti a rimpinzare quella macchina di monete, tra le incitazioni di Sonech’ka e gli sguardi dei passanti. Sorrisi perdendo nuovamente, non mi interessava davvero vincerle quello stupido pupazzo a me interessava vederla serena. Almeno per quella sera. La portai sulle spalle fino a casa, e quello fu il nostro modo di chiarire. Aveva ventisette anni suonati, un brillante futuro nel campo delle lingue e un’immaturità derivata dall’ignoranza. L’ignoranza di una vita costruita su fondamenta scadenti, sabbie mobili infide che prima o poi avrebbero ingoiato tutti.
 
 
 
***
 
 
La cantina ospitava tutti i miei oggetti, mi ero laureato in chimica e biologia solo per la composizione di veleni ed esplosivi. In quel momento stavo preparando qualcosa di letale solo per Larisa, non c’era modo migliore di affrontare una donna ai miei occhi. Gli scalini scricchiolarono sotto il peso dei passi, ero sicuro fosse Misha visto e considerato che Sonech’ka non sapeva neppure l’esistenza del luogo. Affilai lo sguardo fissandolo dal vetro della boccetta.
«Piccolo chimico, a cosa stai lavorando?». Il sorrisino strafottente entrò prima dei suoi occhi di ghiaccio.
«Vuoi provarlo? Stimo che in base al tuo peso ne basti la metà per mandarti al creatore». Lo guardai in maniera angelica scuotendo il liquido trasparente all’interno della boccetta.
«No grazie, passo. Ma lo sai comunque, sei tu che avrai il privilegio di ammazzarmi alla fine». Alzò le mani in segno di resa ed una smorfia alterò i lineamenti del suo viso. Annuii senza prestargli ancora attenzione, ero già in ritardo senza che ci si mettesse anche lui.
«Quindi … - la sua voce tornò a farsi sentire, era come se esigesse la mia attenzione – tu uccidi e io seppellisco?». Sollevai il viso togliendo la mascherina e i guanti che gettai sul tavolo.
«Disfatene come vuoi, tranne appenderla alle travi di un teatro a mo di trofeo. Sai si chiama ‘’disfarsene silenziosamente’’ perché lo scopo è non far rumore tra la gente». Scrollai le spalle sedendomi sullo sgabello, accendendo una sigaretta. La nicotina era come balsamo lungo la gola perennemente chiusa in quel periodo.
«Voglio sapere perché siamo qui. Anzi perché tu sei qui. L’agenzia è solo la punta, dimmi la verità». E così lo immaginava, me ne compiacqui.
«Devo uccidere Yuri». Colui che ci aveva fatto da mentore per anni, il fratello di Sergej. Aveva commesso l’errore di farsi arrestare, e si sa qual è la legge e la pena per coloro che vengono chiusi dietro le sbarre. Solo la morte può rendere tranquilli i piani alti, persino se eri il fratello del Vor. Lui lo sapeva, ed era fuggito in tempo.
«Assurdo, persino suo fratello ..». Sentii il suo sbuffo e lo sdegno che permeava come un sudario perenne. Provava sdegno per la sorella che aveva perso da bambino, e che ancora cercava. Per lui – e probabilmente anche per me – sporcarsi le mani col sangue dei propri cari era aberrante.
«Lo uccido io, non lui». Scrollai le spalle con fare ironico, non se la bevve.
«Gran bella consolazione della minchia». Mi voltò le spalle e la discussione morì, come la brace della mia sigaretta ormai dimenticata.
 
 
*** 
 
 
Il corpo di Larisa ruzzolò giù, spinto gentilmente dalla punta della mia scarpa. La vidi sollevarsi a fatica provando a fuggire, la mia mano però fu più lesta nell’afferrarle i capelli rudemente trascinandola verso il fiume.
«Non urlare Larisa, una donna come te i coglioni non può averli solo per provare a fottere La Bratva, non trovi?». Le sue unghie si conficcarono sul mio polso, imprecai scrollandola con violenza. Mi fissò come impazzita.
«Non farlo Shùra, non … non ascoltare le sue parole. Lui mente». La voce spezzata trasudava terrore da ogni poro. I miei occhi freddi abbracciarono il fiume alle sue spalle, le mani sul fianco e l’espressione fintamente stanca.
«Pensi mi piaccia? Andiamo, sei Larisa». La indicai con uno dei migliori sorrisi e un singhiozzo represso fu tutto ciò che ricevetti in risposta. Tornai ad afferrarle i capelli inginocchiandomi vicino la riva.
«Dove cazzo sono i documenti Lora? – usai il diminutivo di proposito ficcandole il viso dentro l’acqua, mosse le braccia come se volesse appigliarsi a qualcosa e solo quando pensai stesse per svenire la tirai fuori – Quindi? La memoria ti è tornata?»
«Se ti dico .. se ti dico dove sono, mi lascerai andare?». Ci guardammo senza vederci sul serio, tornai ad annegarla nel fiume zittendo ogni suo urlo.
«Allora, dove sono?». La feci respirare, era divertente dare e togliere. Un imperatore senza corona.
«Il pavimento di casa mia .. nella mia camera da letto, sono lì». Respirava affannosamente fissandomi impaurita. Estrassi la boccetta porgendogliela.
«Bevi, ti calmerà». Le sorrisi affabile, ma lei mi conosceva troppo bene per fidarsi del mio bel viso.
«Aspetto un figlio Aleksandr, non capisci? Vuole uccidermi per questo.. non vuole un erede scomodo che porti via a Kolia tutto». Allargò le narici e le lacrime uscirono fuori da quelle iridi celesti. Ammetto che la notizia non mi lasciò indifferente, ma che si poteva fare al riguardo? Erano tutti carne da macello. La vidi bere e finalmente mi alzai voltandole le spalle.
«Hai circa trenta secondi prima che il veleno faccia effetto, c’è qualcosa che vuoi dirmi?». Il silenzio venne interrotto solo dalle fronde degli alberi, la sua mano afferrò la mia caviglia mentre i dolori iniziavano a corrodere il suo corpo. Strisciò come un serpente sull’erba boccheggiando. Mi voltai chinandomi, accarezzandole i capelli rossicci con un sorriso di pietà; le sue labbra si mossero come se volessero dirmi qualcosa, affilai lo sguardo tendendo le orecchie. Il vento mi portò il suo sussurro e dopo l’ultimo alito di vita: «Marcisci all’inferno, lurido bastardo».
Larisa non sapeva che io all’inferno c’ero giunto da molto tempo ormai. Mi alzai e Misha apparve accanto a me, non dissi nulla limitandomi ad andar via. Adesso toccava a lui.

 
 
 
Mikhail POV
 
Fissai gli occhi vacui di Larisa, somigliavano a quelli di un pesciolino. Era un segno di Dio che voleva dirmi di prenderla e gettarla sul fiume? No, credo proprio di no. O stavolta le mie palle sarebbero penzolate dalla cattedrale. E i coglioni sono la cosa migliore da poter perdere in un mondo come questo.
«Okay puttana, siamo soli io e te – la indicai gesticolando come se potesse sentirmi – adesso andiamo in un bel posto. E tu mi farai la cazzo di cortesia di non apparirmi più davanti».
Il cadavere all’interno del cofano non mi poneva chissà quali problemi, afferrai la fiaschetta che tenevo dentro la tasca interna del giubbotto bevendone una generosa sorsata. Era tutta una merda. Tutta una lurida merda, e dopo quasi vent’anni non avevo ancora capito il segreto di Aleksandr. Io prendevo fuoco per nulla, lui ponderava come se le nostre vite fossero delle fottute partite a scacchi, e infine faceva la sua mossa.
«Ma vaffanculo». Il fiatone mi impedì di continuare ad imprecare come avrei voluto, mentre gettavo quel corpo morto dentro una grande tanica vuota. Gettai l’alcool della mia fiaschetta su di lei prima che lo zippo facesse il resto. Avete mai visto un corpo bruciare? Beh io si, almeno adesso. Solitamente me ne fotto di coprire le prove, siamo la Brigata Del Sole porca puttana, siamo intoccabili. Entriamo nei teatri, nelle cattedrali la domenica, tutti ci guardano e temono. Ma Sergej, quel vecchio di merda, non sembra essere d’accordo. E Shùra insieme a lui. Odio quando mio fratello inveisce contro di me, rende la mia inutile e patetica esistenza ancora più vuota e miserabile.
Il telefono squillò, osservai il numero deviando la chiamata. Che cuocesse ancora un po’ nel suo brodo.
Sputai per terra lasciando il capannone abbandonato mentre l’alba insorgeva prepotente e inesorabile. 

 
  
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