Buongiorno
a tutti! In un momento di semi-calma ecco che carico questa one shot
scritta da
tempo che finalmente spiega come mai la nostra Angelica si trovi a
Gerusalemme!
Spero vi piaccia… beh, fatemi sapere cosa ne pensate! Buona
lettura 😊
Maggio 1176, Legnano.
Caos.
Potevo
usare solamente quella parola per
descrivere ciò che riuscivo a sentire dal mio nascondiglio.
Caos.
Il
nitrito dei cavalli.
Le
urla, sia amiche che straniere.
Il
clangore del metallo.
I
gemiti di dolore.
Caos.
Papà
mi aveva detto di nascondermi, di
non allontanarmi da dove mi aveva lasciata e di non fare sciocchezze.
Papà
se ne era andato con un altro uomo.
Si erano scambiati poche parole, bisbigliando per non farmi sentire.
Avvicinai
ancor più le gambe al petto e
le abbracciai con forza, sopprimendo i singulti e le lacrime.
Mi
ripetei come un mantra le stesse
parole che mi diceva papà per tranquillizzarmi dopo un
incubo: “Nulla è reale.
Tutto è lecito”.
I
mostri non erano reali. Se tutto era lecito, potevo spazzarli via anche
solo
con il pensiero.
Sì,
quello era soltanto un brutto sogno.
Passi
pesanti. Tonfi regolari. Lo strano
luccichio di una spada e sporgendomi vidi un’aquila nera.
Un
soldato di Federico I era proprio di
fianco a me, ma non sembrava avermi notata anche se con lo sguardo era
in cerca
di qualcosa, o qualcuno.
Un’altra
ombra si stagliò nel mio
ristretto campo visivo.
Mi
feci piccola piccola e chiusi gli
occhi con forza quando sentii lo scatto di una lama.
Percepii
altri movimenti e una mano si
strinse sulla mia spalla.
Di
scatto aprii gli occhi e, con
fermezza, un dito si appoggiò sulle mie labbra,
già pronte a rilasciare uno strillo.
Guardai
lo sconosciuto con un misto di
preoccupazione e curiosità, ma i suoi occhi gentili mi
fecero abbandonare
presto la prima.
“Come
ti chiami piccolina?”. La sua voce
era calda e rassicurante. Lunghi riccioli castani sfuggivano dall'elmo
ben
sistemato sul capo e i suoi occhi erano azzurri quanto i miei.
“Angelica”
dissi decisa e attesi che
anche lui mi dicesse il suo nome.
Lui
sorrise lievemente, forse intuendo i
miei pensieri “Io sono Alberto, da Giussano1”.
Si
volse nella direzione da cui era
giunto e potei così vedere cinque placche di metallo
finemente decorate fissate
sull'avambraccio sinistro.
“Dov’è
il mio papà?”.
Lui
sorrise mestamente “È tornato da tua
madre”.
Abbassai
lo sguardo.
La
mia mamma una notte si era addormentata così profondamente
che non si era più
risvegliata.
Mi
aiutò ad alzarmi e mi indicò una suora
poco lontano, la qualche stava rassicurando con dolci parole un soldato
sul
punto di addormentarsi.
“Va'
da lei. Quando le acque si saranno
calmate, raggiungi Scêr2, a ovest da
qui. Lì c’è un monastero: ti
accoglieranno”.
Poi
era successo tutto così in fretta. La
guerra scivolò via come era arrivata.
A
piedi, io e Suor Carolina avevamo
raggiunto il paesino che mi aveva suggerito Alberto e lì
divenni Ambrogio, un
bambino, un ragazzino e infine un giovane uomo che voleva ricucire gli
squarci
della guerra.
Aprile 1189, Cerro
Maggiore
Avevo
passato gran parte della mia vita
in quel convento nell’Alto Milanese, ma i segreti di mio
padre erano giunti
come fantasmi insieme ad una lettera. Colui che la aveva scritta era
probabilmente una persona di poche parole, dato che non si
dilungò molto nei
dettagli: chiedeva – ordinava
– di
raggiungere Venezia e di farlo al più presto.
Nessun
mittente. Nessuna data.
Non
ero una sciocca, ma un particolare
della filigrana su cui giaceva l’inchiostro mi fece accettare
quella richiesta
perentoria: guardando la lettera in controluce era possibile leggere un
messaggio nella lingua della Serenissima, con cui avevo abbastanza
dimestichezza per poterla comprendere.
Gnénte
ese vèro. Tùto ese parmésso.3
Ero
partita il giorno stesso, salutando a
malincuore coloro che erano stati i miei insegnanti di medicina e
latino, e
unendomi ad un gruppo di mercanti – i quali mi accolsero
senza problemi
riconoscendomi come frate cappuccino - percorsi la strada che molti
anni prima avevo
fatto più volte in compagnia di mio padre.
Ogni
passo era un ricordo, un’emozione.
La Padania non era cambiata affatto, a differenza mia: era ormai fin
troppo
evidente che fossi in realtà una
donna.
Conoscevo
a memoria i sobbalzi del
carretto su quella strada che dopo qualche ora iniziò ad
essere affollata: i
commerci, dopo la liberazione della Lombardia dagli Svevia, erano
divenuti
sempre maggiori, non più ostacolati dal timore di
un’invasione imperiale.
Mi
sistemai il cappuccio in testa e,
raggomitolandomi su me stessa, mi addormentai cullata da tutte quelle
buche,
ormai amiche.
Maggio 1189
– Gennaio
1191, Venezia
Il
viaggio era durato più di quel che
ricordassi, o forse ero solo impaziente di giungere a destinazione.
Avevamo
passato il confine senza problemi: i mercanti portavano riso, funghi
esiccati e
formaggi stagionati.
Nella
lettera era specificato solo il luogo
d’incontro, non l’ora e nemmeno chi sarebbe giunto
e sotto il sole di quel caldo
pomeriggio unii le mani in preghiera di fronte alla maestosa Basilica
di San
Marco, aspettando pazientemente.
Il
vociare di quella città viva faceva da
sottofondo ai miei pensieri: non avevo idea di cosa mi sarei dovuta
aspettare, né
tanto meno cosa mio padre avesse voluto nascondere ad una bambina di
sei anni.
Un
uomo mi urtò una spalla ed ebbi la
sensazione che quel contatto non fosse stato casuale. Mi volsi nella
direzione
in cui si stava dirigendo, ma ormai era scomparso nella folla che
gremiva la
piazza sotto lo sguardo dell’orologio che contava con
precisione le ore
lavorative. Decisi di tentare di inseguirlo comunque e nel farlo
infilai le
mani nelle tasche della tunica marrone scuro.
Mi
fermai di scatto.
C’era
qualcosa nella tasca destra, dallo
stesso lato dove quell’uomo mi aveva urtata.
Saggiai
con le dita la superficie ruvida
di quell’oggetto e solo mostrandolo alla luce, in modo cauto
e circospetto,
vidi che si trattava di un biglietto.
Ca’
Granda.
Due
semplici parole, un semplice
messaggio quanto oscuro.
Fu
così che la mia vita cambiò
drasticamente una seconda volta.
Fui
accolta nella Confraternita degli
Assassini diventando uno dei loro medici più fidati e
capaci: non dovevo più
nascondere la mia identità, ma anzi, ne dovevo essere fiera.
Mio padre, mi
raccontarono in seguito, fu un Maestro Assassino della Dimora di
Venezia e,
trasferitosi a Milano, si unì alla causa degli Assassini
locali: liberare
quella terra dall’oppressione straniera. Era riuscito nel suo
intento insieme ad
Alberto da Giussano, anch’egli dello stesso rango di mio
padre, ma entrambi
avevano pagato con la vita.
L’obbiettivo
più alto della Confraternita
in tutta la penisola, quasi considerato un’utopia da alcuni,
era riunire i
Ducati e le Repubbliche sotto un’unica bandiera e definirci
finalmente italiani.
Ma il
destino mi voleva in un’altra città, in
un’altra terra.
“Angelica”.
Ero
stata convocata dal Gran Maestro
degli Assassini qualche minuto prima e ora ero di fronte a lui, mentre
consultava alcuni documenti con sguardo corrucciato.
Era un
uomo sulla sessantina, la barba
brizzolata e lo sguardo vigile, attento.
“Come
posso esserle utile?” chiesi con
tono cortese, in trepidante attesa.
La
stanza era piuttosto grande e luminosa
grazie alle bifore che si aprivano al nascere del sole. Sulla parete
opposta
all’entrata vi era una libreria ricolma di volumi ben curati
che raggiungeva il
soffitto, su cui era impossibile non far posare lo sguardo: il leone di
San
Marco ricopriva quasi la totalità dello spazio, incorniciato
da maestose
decorazioni in oro.
Con un
cenno della mano mi indicò di
sedermi di fronte al grande tavolo in legno scuro, proprio davanti a
lui.
Cosa
più unica che rara.
Mi
sedetti e con un cenno del capo gli
feci intendere che ero pronta ad ascoltarlo con attenzione.
“Posso
ammettere con orgoglio che tu,
Angelica, sei stata il miglior medico ch’io abbia mai avuto
la fortuna d’incontrare”.
Rimasi
sorpresa: aveva sempre evitato di condividere
apertamente ciò che pensasse del mio lavoro.
“I
nostri Confratelli in Terra Santa
stanno avendo sempre più difficoltà dovendo
lottare contemporaneamente su due
fronti: da una parte Re Riccardo, dall’altra il Saladino.
Hanno bisogno di
supporto, sia da parte di Assassini esperti, che di medici
capaci… come te”.
Deglutii
a vuoto.
Terra
Santa.
Guerra.
Inspirai
profondamente: la Confraternita
degli Assassini persiana aveva come obiettivo far tornare la pace nella
propria
terra, esattamente come per coloro che decenni prima avevano fondato la
Lega
Lombarda: una giusta alleanza tra Assassini e cittadini comuni.
Forse
era giunto il momento che facessi la mia parte. Forse era proprio quello il mio destino.
“Quando
partiremo?”.
“Subito.
Confidavo che accettassi la mia richiesta… Con te
partirà anche un Maestro
Assassino della Dimora di Milano, che già conosci”
mi disse mentre uscivamo dal
suo ufficio dirigendoci nel Salone.
Corrucciai
lo sguardo “Non conosco
ness-“.
Mi
bloccai con ancora la bocca aperta.
Impossibile
non riconoscere quei riccioli
e quello sguardo sereno ora incorniciato dal qualche ruga.
In uno
slancio gli andai incontro e lo
abbracciai con forza, incurante che diventassi lo zimbello
dell’intera Dimora.
“Alberto!”.
Lui,
dopo un attimo di esitazione,
restituì l’abbraccio con calore e accarezzandomi
piano i capelli, che avevo
fatto ricrescere appena giunta a Venezia, ridacchiò
“La piccolina è cresciuta!”.
“Pensavo
fossi morto…” dissi
allontanandomi di un passo.
“Oh,
ma lo sono!” e ci scambiammo uno
sguardo d’intesa.
“Sei
pronta?” mi chiese sorridendomi
solare.
Annuii
con forza e, con il permesso del
Gran Maestro, lasciammo Ca’ Granda alla volta del porto.
Febbraio 1191,
Gerusalemme
Come
suggerito, facemmo tappa a
Gerusalemme prima di proseguire per Masyaf, dove avremmo incontrato Al
Mualim.
La
città era densamente popolata, le
strade strette erano ricolme del vociferare dei mercanti, dei cittadini
e dei
soldati, i quali si scambiavano battute per far scorrere il tempo
durante un
noioso turno di guardia.
Per
poter viaggiare indisturbati avevo
indossato nuovamente la tunica da frate cappuccino, mentre Alberto
aveva preso in prestito
l’armatura di qualche
soldato degli Svevia.
Nessuno
avrebbe mai fermato un uomo di Chiesa accompagnato da un soldato armato
appartenente
ad un esercito alleato a Re Riccardo.
Ovviamente
il rafiq della Dimora di
Gerusalemme era stato avvisato
anticipatamente del nostro arrivo, ma Alberto volle andarvi da solo,
almeno per
la prima volta.
Per
la mia sicurezza.
“Non
è compito tuo preoccuparti per mia
incolumità” gli dissi poco prima che se ne
andasse, ora che indossava la divisa
da Assassino.
“Invece
sì” mi rispose serio.
Rimasi
perplessa e attesi spiegazioni.
“Fu
l’ultima volontà di tuo padre” e
sparì dal mio sguardo in un fruscio.
Erano
passati alcuni minuti, ma
continuavo a fissare l’uscio della porta, ormai vuoto.
Ero
stata l’ultimo pensiero di mio padre.
Mi
sedetti sul piccolo giaciglio nella
stanza della piccola casa in cui eravamo stati accolti da una donna
volenterosa
di non inimicarsi i soldati stranieri e non avere, dunque, problemi.
Era da
molto tempo che non pensavo a mio
padre, quel volto familiare e sfocato che vedevo nei miei ricordi di
bambina. Era
alto, fisico asciutto e lo sguardo costantemente corrucciato, attento.
Non era
un uomo dai grandi gesti affettivi ed ero cresciuta senza molti
abbracci e con
ben poche carezze.
Al
contrario mio, gli Assassini adoravano
mio padre. Ne parlavano sempre con un enorme rispetto nella voce e con
grande ammirazione
nello sguardo.
Sì,
era stato un grande Maestro Assassino, ma avrei preferito che mettesse
quell'impegno nell'essere padre.
Molte
volte mi diceva che assomigliassi a
mia madre dalla punta dei capelli fino alle dita dei piedi.
Forse
era questo il motivo di così poco
affetto. Gli ricordavo ogni secondo quel giorno funesto.
E
forse, tutti quei segreti che si era lasciato alle spalle erano un modo
per
proteggermi…
Forse…
Mi
alzai di scatto.
Avevo
bisogno di aria.
Non
avevo esattamente una meta, ma il
semplice camminare mi liberava ad ogni passo da quei pensieri fin
troppo
profondi. Mentalmente costruii una mappa ad ogni svolta e ad ogni
incrocio per
non perdermi in quelle stradine dall'aspetto così simile.
In
quella città predominava il beige. Era
ovunque. Sulle pareti, sulla strada e persino sui volti della gente che
incontravo.
Passai
di fianco ad un piccolo carrettino
di fieno e mi bloccai dopo qualche passo.
Quello
era… un piede?
Mi
guardai intorno, per essere certa che
non vi fosse qualcuno d'altro in quella viuzza, e notando che fossi
effettivamente
sola iniziai a spostare velocemente il fieno.
Sapevo
che venisse usato dagli Assassini per attutire i loro salti altrimenti
mortali.
Mi
fermai con le mani a mezz'aria appena
vidi una freccia conficcata nell'addome dell'Assassino, che con una
rapida
occhiata, riconobbi come novizio.
Il
petto si alzava ed abbassava ad un
ritmo frenetico e la smorfia che gli deturpava il viso era un chiaro
segno di
quanto soffrisse. Con fatica lo trascinai percorrendo strade ben
più deserte fino
alla piccola casetta dove quella notte io e Alberto avremmo dovuto
dormire.
Fortunatamente
la proprietaria era uscita
per andare al mercato e non era ancora tornata.
Issai
l'Assassino sul giaciglio ed
estrassi senza troppe cerimonie la freccia dalla ferita, da cui
fuoriusciva una
grande quantità di sangue, ricevendo un mugugnino di
dissenso.
Dovevo
lavorare velocemente e con precisione, altrimenti sarebbe morto
dissanguato.
Gli
sollevai la tunica quanto bastava e
non potei non notare il guizzare, ad ogni ansito, dei suoi addominali
ben
definiti.
Scossi
la testa con veemenza e, tornando
concentrata, tamponai la ferita con bende pulite che mi portavo sempre
appresso
e appena la fuoriuscita di sangue parve diminuire notevolmente, iniziai
a
cucire la pelle ignorando volutamente i gemiti di dolore che sfuggivano
dalle
labbra del paziente.
Riposi
gli attrezzi che avevo utilizzato
a lavoro compiuto e, incuriosita, sbirciai il volto dello sconosciuto
nascosto
gran parte dal cappuccio.
Le
labbra erano carnose e attraversate,
vicino all'angolo destro, da una cicatrice schiaritasi nel tempo. Il
naso era
ben dritto e formava una piccola ombreggiatura sui baffi curati che
seguivano
la linea morbida delle labbra. Alzai lo sguardo sugli suoi occhi, che
in
quell'istante si aprirono di scatto.
In un
battito di ciglia mi ritrovai
bloccata dal suo peso e la lama celata sulla gola. Aveva il fiato corto
e
deglutì almeno due volte prima di parlare.
“Chi
sei?”. Aveva una voce profonda e
gutturale.
Non
avevo paura. Sapevo bene cosa dire in questi casi.
“Niente
è reale. Tutto è permesso”
sussurrai sperando che fosse quella la traduzione più fedele.
Vidi
le pupille dei suoi occhi scuri
dilatarsi per un momento.
“Nulla
è reale. Tutto è lecito” mi
corresse mentre allontanava di pochi centimetri la lama dal mio collo.
Forse
aveva percepito la sfumatura del
mio accetto e convenuto, giustamente, la difficoltà nella
traduzione.
Ma
non si fidava completamente.
“Non
sei un Assassino, eppure conosci il
Credo” disse cercando di nascondere il dolore della ferita.
“Perché
faccio parte della Confraternita
come medico” e posandogli una mano sull'avambraccio che mi
inchiodava sul letto
continuai “E ora potresti… levarti?”.
Lui
obbedì solo dopo qualche secondo e arrancando
si alzò, lasciandomi libera.
Mi
sedetti sul giaciglio e dandogli le spalle,
sistemai gli utensili che erano caduti a terra in quella piccola
colluttazione.
“Ah,
forse dovrei dare un'occhiata alla
tua ferita. Potrebbero essere saltati alcuni punt-“.
Rimasi
a fissare la finestra spalancata
della stanza per qualche minuto prima di riscuotermi e inveire
mentalmente
contro il Novizio, che in quel momento era probabilmente su qualche
tetto.
Irresponsabile
e sconsiderato!
Il
giorno seguente, dopo essermi
finalmente riposata in seguito al sfiancante viaggio da Venezia, era
finalmente
giunto il momento di presentarmi al rafiq
della Dimora di Gerusalemme.
L'edificio
era completamente diverso da ciò
che ero abituata a vedere. Le pareti erano beige, come il resto della
città, e
le sale erano molto più buie, dato il numero minore di
finestre. Solamente le
decorazioni erano simili a quelle che avevo visto nella Dimora di
Venezia, ma
era solo una questione di influenza araba nella Serenissima.
Il rafiq
era un uomo piuttosto giovane, più di quanto mi sarei
aspettata, e la manica
sinistra della tunica nera svolazzava ad ogni suo minimo movimento.
Mutilazione.
“Sicurezza
e pace, Malik” la voce del mio
compagno di viaggio rimbombò un poco.
Mi
fermai alle spalle di Alberto, in
attesa.
“Sicurezza
e pace a te, Alberto” rispose
di rimando il rafiq e
regalò ad
entrambi un sorriso gentile, che scomparve lentamente mentre fissava
con astio
un punto ben preciso alle mie spalle.
“Sicurezza
e pace”. Non ebbi bisogno di
voltarmi per sapere chi fosse l'uomo appena arrivato: era il Novizio
che avevo
medicato il giorno precedente.
“La
tua presenza mi priva di entrambe,
Altaïr”.
L'atmosfera
si raffreddò in un istante e l'aria
divenne pesante e tesa.
Altaïr
mi sorpassò e guardandomi stranito
inclinò il capo “E loro chi sono?”.
Malik
fece schioccare la lingua, forse
per bloccare una frase acida ed indispettita sul nascere
“Sono stati inviati
dalla Dimora di Venezia e di Milano, dai rispettivi Gran Maestri in
persona…
Sono qui per aiutarci”.
Io e
Alberto annuimmo all'unisono
“Abbiamo a cuore la libertà e possiamo comprendere
alla perfezione il
sentimento del popolo di questa terra”.
Già…
sapevamo bene entrambi cosa significasse vivere sotto l'oppressione
dello
straniero.
“Immagino
che il medico sia tu,
ragazzino. Fatti avanti” e Malik mi guardò
intensamente. Chiaramente voleva
vedere il mio volto ora nascosto completamente dal cappuccio della
tunica da
frate.
Sulle
mie labbra si disegnò un piccolo
sorriso: nella lettera di raccomandazione non era stato specificato
nulla.
Feci
un passo in avanti, affiancando così
Altaïr, il quale sapeva già la verità
sul mio conto.
“Sì,
sono io” mi tolsi il cappuccio rivelando
il mio volto incorniciato da folti capelli biondi e continuai
“Nella sicurezza
delle mura della Dimora potete chiamarmi Angelica, ma al di fuori
preferirei
Fra' Ambrogio”.
Mi
scappò un risolino guardando il volto
del rafiq bloccato in
un'espressione
di totale sorpresa e anche il Novizio mi seguì in quella
piccola risata.
“Non
ridere, Novizio. Ieri hai rischiato
molto andandotene senza che controllassi una seconda volta la tua
ferita” lo
rimproverai per la sua sconsideratezza guardandolo in volto.
Il suo
sorriso sparì immediatamente e mi
guardò fulminandomi con lo sguardo.
Ma
che Novizio impertinente.
La
reazione di Alberto fu immediata.
“Cosa!?
Hai incontrato un Assassino e non
mi hai informato?” sussurrò prendendomi per le
spalle preoccupato, accertandosi
che stessi bene.
Feci
un gesto eloquente con le braccia e
lo rassicurai della mia più che ottima salute.
Appena
il rafiq si riprese dal quel
momentaneo stato di assoluta sorpresa nei
miei riguardi, ordinò al Novizio di accompagnarci a Masyaf
dopo la fine del suo
incarico nella città e ci porse una lettera scritta di
proprio pugno da
consegnare ad Al Mualim.
E
fu così che ripartimmo verso una nuova meta.
Marzo 1191
– Masyaf
La
fortezza degli Assassini era un vero e
proprio castello. La cinta muraria era imponente e dall'aspetto
invalicabile.
Il fossato era profondo e si apriva su aguzze e taglienti rocce. Nel
cortile
interno vi erano campi interrati che venivano utilizzati da Maestri e
Novizi
per gli addestramenti giornalieri.
Il
clima di Masyaf era comparabile con
quello del mio paese natio, dalle cui mura esterne era possibile
ammirare la
bellezza del Resegone.
Al
Mualim ci aveva accolto con una strana
freddezza e con un cipiglio severo, ma forse era solo il suo carattere.
Egli
aveva deciso di osservare le mie capacità di medico e per
questo motivo
lavoravo ora nelle infermerie della fortezza per curare le piccole
ferite che
venivano inferte agli Assassini meno esperti.
Altaïr,
il Novizio che avevo salvato
quasi un mese prima nella città di Gerusalemme, era in
continuo viaggio e
tornava regolarmente ogni tre o quattro giorni. Inizialmente avevo
constatato una
certa antipatia tra lui e gli altri Assassini, ma con l'avanzare delle
settimane quel sentimento di era tramutato in un sempre maggior
rispetto
riverenziale. Inoltre avevo notato qualcosa di diverso in lui: la sua
camminata
era sempre meno altezzosa e il capo era leggermente più
inclinato verso i propri
passi.
Era
lentamente cambiato. Non era più l'uomo arrogante che avevo
conosciuto.
In
quel momento stavo osservando le
meravigliose catene montuose che si stagliavano all'orizzonte, circondata dal lieve
rumore di passi felpati
e dal clangore delle armi.
C'era
una sorta di pace, a cui non potevo
fare a meno da qualche tempo e senza accorgermene stavo sempre attenta
al
ritorno di un certo cappuccio biancastro.
Non
sapevo bene perché lo facessi, ma mi
assicuravo di incrociare almeno una volta il suo sguardo sfuggente e a
lui non
sembrava dar fastidio in quanto non faceva nulla per sottrarsene.
“Aspetti
qualcuno?”.
Il mio
cuore perse un battito e un
brivido percorse lento la lunghezza della mia schiena e voltandomi di
scatto
guardai il suo volto nascosto dal cappuccio.
Questa
volta non lo avevo visto tornare.
“N-no…
Sto ammirando la bellezza del
paesaggio…” mentii, presa alla sprovvista.
“Io
ammirerei un'altra bellezza…” e
fissandomi intensamente, ritornò su suoi passi.
Passarono
alcuni giorni da quel suo
complimento inaspettato e con un certo stupore notai un piccolo
dettaglio: cinque placche metalliche sull'avambraccio sinistro.
Come
aveva fatto a diventare Maestro Assassino così velocemente?
“Angelica!”.
Mi
volsi nella direzione della voce che
mi aveva chiamata e vidi Alberto avvicinarsi a dove mi ero bloccata
inebetita.
“È
arrivata una lettera da Milano: la
Dimora invierà altri Maestri Assassini qui a Gerusalemme e
vogliono che sia io
a sovrintendere gli spostamenti!” mi disse felice con un
sorriso raggiante
sulle labbra.
La mia
espressione si rasserenò a ogni
parola e contenta, mi congratulai con lui.
“E
inoltre… non dovrò neanche
preoccuparmi per te”.
Corrugai
la fronte “Che intendi dire?”.
Lui mi
guardò stranito “Come? Non te ne
sei accorta? C’è un altro Angelo
custode
che ti controlla…” e osservò un punto
preciso alle mie spalle.
Istintivamente
mi volsi nella stessa
direzione e vidi Altaïr, a braccia conserte, appoggiato ad una
colonnina del
porticato che si apriva sul cortile interno.
“Ed
è anche un Maestro Assassino!” esclamò
Alberto quando feci ritornare
l'attenzione su di lui.
“Ma
come ha-“.
“Lo
era già da tempo… ma per qualche
motivo a me sconosciuto ha perso il titolo” mi interruppe
sorridendo.
Dopo
quel piccolo scambio di parole,
Alberto partì alla volta di Gerusalemme, lasciandomi in
quella città straniera
con la continua e penetrante sensazione di un paio di occhi sulla
schiena.
Passarono
alcuni giorni dalla partenza
del mio compaesano e non seppi con precisione come e perché
mi ritrovai
imprigionata tra le braccia di Altaïr.
Era un
giorno uggioso e l'acqua
scrosciava con furia sulle nostre teste, bagnandoci completamente. Era
talmente
vicino da poter sentire sulla pelle il suo respiro caldo.
Mi
aveva schiacciata con fermezza contro
una parete del porticato e appoggiando entrambe le mani a fianco del
mio capo, aveva
bloccato ogni via di fuga.
Come
se volessi andarmene…
“Ti
fidi di me, Angelica?”.
Inspirai
con forza e con un movimento
impercettibile mi avvicinai al suo viso.
Lui
bruciò i millimetri che ci separano e
risposi timida e impacciata a quel piccolo e dolce bacio.
“Masyaf
non è più sicura… Vieni
con me” e mi porse la destra.
Lo
fissai negli occhi mentre l'unico
rumore era lo scroscio dell'acquazzone e non seppi definire a parole
quel
sentimento che probabilmente aveva sorpreso entrambi.
NOTE
Alberto,
da Giussano1 : egli è
colui che, nei vari racconti dell’Alto milanese,
guidò l’esercito della Lega Lombarda
alla vittoria finale contro l’Imperatore.
Scêr2:
Cerro Maggiore in
milanese.
Gnénte
ese vèro. Tùto ese parmésso.3:
“Nulla è reale. Tutto è
lecito”
in veneto (se qualcuno di voi sa il dialetto in questione, per favore
mi
corregga in caso lo abbia scritto sbagliato).