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Autore: frown    07/07/2017    2 recensioni
Elle ha solo diciannove anni ma si divide tra amici dalle personalità estrose, serate alcoliche da sobria e una sorella maggiore petulante che non ha la minima idea di cosa siano la privacy o lo spazio personale e sembra ottenere comunque tutto ciò che lei ha sempre voluto.
In tutto questo capitano casualmente Andreas e Lysander.
Tra pensieri incoerenti di un cervello esausto, Elle capirà che ciò che ha sempre desiderato l'ha sempre avuto di fronte e, nonostante tutto e tutti, lei può ancora prenderselo quando vuole.
"Ho diciannove anni, pochi spiccioli per le sigarette, gli occhi stanchi, le labbra screpolate, qualche sogno irrealizzabile, ma non ho te"
"Non te ne rendi proprio conto? Sai quanto fanno male le tue parole? E i condizionali passati? Ma non lo senti il dolore fragile in 'Saremmo stati'?"
Genere: Commedia, Introspettivo, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
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Cocoa butter kisses

(6).

Utopia


 





 

 

“Quindi, hai lasciato l'Hampshire per trasferirti qui?” mi chiese Andreas sorseggiando una cioccolata calda.
“So che ti può sembrare stupido, ma qui mi piace. E' stata la prima città che ho sentito davvero mia, non fraintendermi Londra è bellissima, ma sono nata a Parigi e le città troppo caotiche non fanno per me. Quando a cinque anni ci siamo trasferiti nello Hampshire non mi è dispiaciuto più di tanto, nonostante porti Parigi nel cuore” spiegai, tentando di reprimere la voglia di fargli altrettante domande personali.
Andreas mi aveva mandato un messaggio due ore prima, chiedendomi un appuntamento pomeridiano allo Psychoholic. Ero in biblioteca al momento del messaggio e reprimere la voglia di gridare non appena Andreas mi aveva scritto fu più dura di quanto sembrasse.
Pensai volesse riallacciare i rapporti, dato che da quando aveva iniziato a frequentarsi con Giselle non eravamo più usciti da soli.
L'avevo trovato seduto a un tavolino con lo sguardo immerso in un fumetto coloratissimo. Sembrava stesse leggendo una cosa di mortale importanza, come se fosse la Dichiarazione dei Diritti del Cittadino.
Indossava una felpa che un tempo magari era stata blu, ma dopo dei lavaggi per nulla soddisfacenti, ora era di un azzurro scialbo.
“Elena” mi richiamò con un sorriso incerto stampato sul volto.
Tossicchiai in imbarazzo e con un gesto della mano lo invitai a parlare.
“Se ti ho invitata qui... C'è un motivo” bofonchiò stringendosi nelle spalle, con un evidente segno di disagio.
Lo guardai con scetticismo, mentre il mio cuore iniziava a battere in modo anomalo; vergognosamente patetico. “Quale?” domandai con la gola improvvisamente secca.
“Giselle” borbottò, dicendomi tutto e niente.
Giselle? Giselle cosa? Vi volete sposare? Lasciare? La odi? La ami?
“Che succede con mia sorella?” borbottai sbadigliando.
Andreas si fece improvvisamente pensieroso. Balbettò qualcosa prima di sospirare. “Le devi lasciare il tuo studio” disse infine corrugando la fronte.
Scoppiai a ridere. “C-Cosa?” quasi gridai, facendo voltare Magalì con un sopracciglio scuro innalzato e l'espressione insofferente.
“Stai scherzando, vero?” protestai senza parole. Perfetto, mia sorella aveva deviato il cervello dell'uomo della mia vita.
Andreas sbuffò con un gli occhi incattiviti dal mio commento. Si allungò sulla sedia e mi rivolse uno sguardo di sufficienza. “Farei di tutto per te” esclamò senza nemmeno troppo entusiasmo.
“Farei di tutto per te” ripeté con lo sguardo sempre più austero. “Che ti costa ricambiarmi?”
Bene, avrei voluto dirgli, allora lascia mia sorella e partiamo per il Giappone come ci eravamo promessi un martedì sera dove la luna scheggiata ci sorrideva implorandoci di sfiorarci un poco.
“Mi costa, Andreas” mi lamentai, passandomi entrambi i palmi delle mani sugli occhi. “E perché diavolo me lo stai chiedendo tu?”
L'espressione del mio amico si indurì. “Perché tu hai rifiutato di parlarne con Giselle. E' molto importante per lei” mi spiegò autoritario.
“Andreas” lo richiamai serissima. “Non può chiedermelo lei, non puoi farlo tu e, prima che le venga in mente, non possono nemmeno i miei genitori” spiegai parlando lentamente, come se stessi conversando con un ragazzo soggetto a una paralisi cerebrale infantile.
“Lo so” disse semplicemente. “So che non ti interessa nessuno” sibilò malignamente.
“Andreas, non dire cose di cui potresti pentirti” lo avvisai.
Il ragazzo tamburellò con le dita sul tavolo. “Giselle me l'ha detto. Cito testualmente, se vuoi. ''A lei è sempre solo interessato della musica, dei suoi libri e di Francisco'' ecco che ha detto”.
Il solo sentire il nome di Francisco pronunciato, mi fece percepire gli organi interni rivoltarsi e implorarmi di fare lo stesso.
Strizzai gli occhi incredula. “Non ci credo che ha detto così” ribattei sarcastica. “Non dovrebbe nemmeno nominarlo e mi ferisce molto che sia lei, che tu, Andreas, lo abbiate messo in mezzo” sbottai cercando di non far caso agli occhi che sentivo inumidirsi. Mi alzai, frettolosamente, afferrando la borsa poggiata sulla terza sedia e il cappotto.
“Elena” mi chiamò cercando di fermarmi. “Elena!”
Lo ignorai e me ne andai, incerta se piangere o cacciare a calci nel sedere mia sorella via da casa mia.

 

 

 

L'aria diventava sempre più spessa e greve e, quando nei paraggi comparivano Giselle ed Andreas l'aria s'impregnava del tono gonfio dei risentimenti e quest'ultima, diventava irrespirabile.
Mi svegliavo la mattina, affetta dalla sindrome dell'abbandono, sentendo un odore che il mio naso non aveva mai percepito con l'eco di parole che non avevo mai udito. Il lenzuolo mi ricordava una notte di sesso che non avevo mai avuto e il cuscino odorava del suo shampoo nonostante non ci avesse mai poggiato il capo.
Tuttavia, non capivo come faceva ancora ad interessarmi, dopo che lui si era schierato con Giselle e dopo aver tirato fuori la questione di Francisco.
I giovedì sera ci davamo sempre appuntamento a casa mia, Andreas sedeva tra me e Giselle sul divano di casa nostra e, a turno sceglievamo un film. Giselle i più romantici, Andreas gli horror ed io i più drammatici.
I pomeriggi in biblioteca dove lui sceglieva di sedersi accanto a me diventavano asfissianti, le bevute con Rhett diventavano così melodrammatiche che avrei preferito una nottata sui libri.
Prima di addormentarmi pensavo a lui, ma la cosa mi faceva sentire così in colpa che finivo per macchiare il cuscino di lacrime trasparenti e inodori.
Il misfatto accadde quando mi arrivò un messaggio da un mittente sconosciuto, mi chiese di presentarmi a un indirizzo e mi chiamò “Elena”.
Pensai subito fosse Andreas, come se fosse ovvio, e che volesse scusarsi per lo spiacevole diverbio di alcune settimane precedenti.
Finii con il prendere in mano la situazione e il manubrio rosa della bicicletta viola di Lola e pedalare con le cuffie nelle orecchie a trasmettere la voce elettronica di Google Maps impostato per farmi da navigatore.
Arrivai con quindici minuti di ritardo, scesi dalla bicicletta quando questa sbatté contro una fontanella pubblica goffamente, e finii per poggiarla contro il muro di un negozio luminoso di elettronica.
Mi ci specchiai, guardando accigliata il mio riflesso spettinato e dalle guance imporporate.
Cercai con lo sguardo il numero civico corretto che corrispondeva a un negozietto ad angolo, la porta si trovava alla sommità di sei o sette gradini. Su uno di questi gradini, stava seduto sulla sinistra, la parte più soleggiata, Lysander con gli occhiali da sole calati sul naso. Gli davano quel tocco in più di cui poteva benissimo fare a meno.
Quando mi vide camminare verso di lui strascicando gli anfibi sul cemento, mi rimproverò con lo sguardo ancor prima di salutarmi.
Fece una smorfia quasi compiaciuta e “Sei in ritardo” constatò per niente sorpreso.
Chiuse un libro dall'aria consunta e mi fissò con quella sua aria esistenzialista. “Come hai avuto il mio numero?” chiesi anche se in realtà non mi interessava.
Lysander alzò gli occhi al cielo. “L'ho chiesto ad Andreas” rispose con fare annoiato.
Mi alterai. Fino a prova contraria era stato lui ad invitarmi lì, perché mai avrebbe dovuto fare il borioso stronzo?
“Andiamo?” domandò interrompendo senza permesso il flusso dei miei pensieri, brontolando qualcosa. Probabilmente sul fatto che gli avevo già fatto perdere abbastanza tempo.
Si alzò e notai, oltre che aveva sempre le stesse gambe chilometriche strette come carta stagnola in un paio di jeans neri, che apparivano come una seconda pelle, in più indossava un maglione grigio che gli stava dannatamente bene.
Gli stava così bene che contemplai per un secondo l'idea di sdraiarmi per terra e adorarlo dal basso del marciapiede, ma data l'occhiataccia che mi rivolse notando che non avevo nemmeno raggiunto il primo gradino, pensai non gli avrebbe fatto piacere.
Sbuffò. “Perché hai quella faccia?”
Scossi la testa. “Bel maglione, Lysander” commentai con una tranquillità che non mi apparteneva.
Lysander mi rivolse un'occhiataccia che mi fece pensare che se era sua intenzione rivolgermi altre occhiate del genere, quello sarebbe stato un pomeriggio davvero molto lungo.
L'imbarazzo era così denso e fitto che si sarebbe potuto tagliare a fettine e assaporarlo per il té delle cinque.
“Anche tu stai bene” disse semplicemente con la sua solita aria compiaciuta e sfuggente. “Ma ora basta chiacchiere” mi rimproverò ed avanzò sulla scalinata fino a spingere la porta ed entrare. Affrettai il passo e lo seguii.
“Io non ho detto che stai bene, ho solo detto che mi piac-”
“Sta' zitta” sbuffò con aria truce, irritandomi e facendomi distogliere lo sguardo da lui. Ciò che vidi mi lasciò senza parole.
Mi aveva portata ad una libreria vintage di libri usati, spaziosa ed accogliente. In un angolo c'erano delle poltroncine rosse, dall'aria antica e di velluto, dove a giudicare dai presenti ci si poteva sedere e sorseggiare caffé, té o addirittura vino, con un sottofondo di musica classica o jazz, ad un volume basso e rilassante. 
Gli scaffali di libri si susseguivano formando un labirinto di sapienza. Vecchi e nuovi libri si alternavano, divisi in reparti separati per argomenti e poi per autore. Certi libri erano così vecchi e dalle copertine così rovinate da risultare più belli ed economici.
Ero euforica come una bambina. E a giudicare dall'espressione che esibì Lysander, lui ne era molto soddisfatto.
Quasi gridai e iniziai ad esplorare ogni reparto canticchiando ringraziamenti al mio accompagnatore che mi seguiva con le mani infilate nelle tasche anteriori.
Nella destra posteriore, di tasca, aveva infilato il libriccino che stava leggendo, sbirciai il suo fondoschiena solo per leggerne il titolo. Euripide – Ifigenia in Aulide.
Spesi dieci minuti nel reparto di saggistica, ed altrettanti nel reparto di teatro. Il doppio negli scaffali assegnati ai libri di poesia e finii per implorarlo di portarmi al Bancomat più vicino per ritirare dei soldi.
Prima che potessi andare in cassa, Lysander afferrò un libro e mi trascinò verso un tavolino, dove due poltroncine rosse e vellutate ci aspettavano. Ci venne incontro una donna sulla quarantina che salutò affettuosamente Lysander.
“I signori desiderano?”
“Un bicchiere di vino. Rosso. Grazie, Camille” ordinò Lysander.
“Un bicchiere di vino rosso anche per me” gli feci eco.
Lysander mi scoccò un'occhiata perplessa come per chiedermi “non l'hai ancora imparata la lezione?”.
“Non ascoltarla, Camille” s'intromise lui. “Non ha l'età per bere alcolici”
Mi imbronciai immediatamente. Raddrizzai la schiena e incrociai le braccia sotto al seno. “Senti, di padre ne ho già uno che fa per tre” e con un sorriso da civetta mi rivolsi a Camille. “Un bicchiere di vino” mi impuntai.
Fu difficile trattenere un sorriso per Lysander. Probabilmente il fatto che mi impuntassi come una bambina atteggiandomi come un'adulta lo divertiva e lo invogliava a punzecchiarmi provocandomi. “Non darle retta, Camille, prende un succo d'arancia”.
“Forse non posso bere, ma non ho mica sette anni!” protestai aggrottando la fronte. Sorrisi nuovamente a Camille e le dissi “Prendo un espresso al ginseng”.
La donna spostò lo sguardo corrucciato da me a Lysander e poi da Lysander a me. “Avete finito? E' la vostra risposta definitiva? Sicuri sicuri?”
Quando Camille se ne andò, scoppiai a ridere sinceramente divertita, inclinando il collo poiché lo sguardo stupito di Lysander era troppo pesante da sostenere.
“Non so come ringraziarti” mi decisi a dire. “Questo... Questo posto è splendido” ammisi prima di sorridere.
Lysander annuì. “Figurati, ho pensato volessi staccare un po' dall'Inferno” scherzò senza sorridere.
“Non è proprio Inferno. Lo definirei più Limbo” sdrammatizzai ironicamente gesticolando.
Lysander poggiò le mani sulle ginocchia e alzò la schiena dalla poltrona, su cui era quasi accasciato. Si avvicinò dunque col volto a me ed inarcò un sopracciglio. “E come si sta lì?”
“Si vive bene nel Limbo, siamo tutti muti e rumorosi”
Lysander sorrise.
Lysander mi piaceva davvero e, mi veniva in mente quella storiella sulle rette parallele, vicine ma che non si scontrano mai.
Io e lui eravamo così, geometricamente predestinati a non incontrarci.
Forse, con Andreas la faccenda era simile: due rette incidenti che si sono incontrate nel momento sbagliato.
“So di Andreas” esordì a un tratto lui.
Sobbalzai e lo guardai fintamente confusa inclinando il collo.
“Ecco qui” esclamò Camille comparendo a un tratto e poggiando una coppa di vetro contenente del vino rosso e la mia tazza di caffè.
Stesi le gambe affusolate ed incrociai le caviglie, tentai di coprirmi le ginocchia con la gonna denim a bottoni che indossavo ma fu inutile. Desistetti ed alzai lo sguardo, attendendo una replica.
“So che hai una cotta per Andreas” decretò ancora. 

Saltai su. Per fortuna non avevo in mano la tazza con il caffé fumante, altrimenti avrei avuto un ricordo di quel pomeriggio molto più ustionante.
Lo guardai ad occhi spalancati. “Non essere ridicolo!” strepitai.
“Ah sì?” rise lui. “Vuoi davvero mentirmi, Elena?”
Afferrai una rivista Vogue e ci nascosi dietro la faccia. La tenni in posizione finché Lysander non me la strappò via ridendo. “Era al contrario” si giustificò prima di rimetterla sull'altro tavolino.
“Andreas sta insieme a mia sorella” lo rimbeccai, con una leggera tachicardia. 
“No” mi fermò lui. “Andreas sta insieme alla Supersnob” mi corresse.
Gli rifilai un'occhiataccia. “Non è affatto una snob!” protestai.
“Per Dio se lo è”
“Non lo è!”
“E invece sì. La regina. E' la regina delle Supersnob”
Lo guardai parlarmi annoiato di mia sorella, non sembrando toccato per l'appunto dal fatto che Giselle fosse mi sorella.
“Non la conosci nemmeno, mia sorella” ci tenni a specificare.
Lysander sbuffò per l'ennesima volta e non disse nulla per un paio di secondi. “Per Dio se la conosco!” si difese.
“La smetti di nominare Dio, non distrarlo, penso abbia di meglio da fare che ascoltare la nostra conversazione” protestai debolmente gesticolando furiosamente.
Lui spalancò la bocca apparentemente scandalizzato. “Non essere blasfema, signorina!” commentò ironizzando.
Ridacchiai. “Se la conosci, qual'è il suo nome di battesimo? Nome intero” chiesi sorridendo sadicamente.
Lysander parve rifletterci. “Giselle. Giselle la Supersnob”
Mi zittii allibita dalla sua infantilità e non gli rivelai il suo nome intero. “Perché la detesti?”
Lysander rise. “La detesti anche tu”
 sospirò ed incrociò le braccia, assumendo la tipica espressione di chi vuol dimostrare l’ovvietà delle motivazioni che guidano le proprie azioni.
Boccheggiai basita e senza parole. “Questo non è vero. Io non la odio” chiarii dopo essere arrossita.
Lysander inarcò un sopracciglio e sospirò. “Okay, tutti e due la detestiamo, ma solo io ho il coraggio di ammetterlo”
Ridacchiai divertita scuotendo la testa e presi un sorso del mio caffè.
“Se fosse bella almeno la metà di quello che lei crede, sarebbe già fortunata” la criticò sorseggiando il vino con la fronte aggrottata.
“Tu invece le piaci” fu la mia risposta timorosa di fronte al suo atteggiamento agguerrito.
“Capirai” scandì annoiato. 
“Però pensa che tu sia un borioso arrogante so-tutto-io” aggiunsi ridacchiando.
Lysander spalancò la bocca oltraggiato, trafitto nel profondo. Ovviamente non lo diede a vede. “Quanto mi dispiace. Mi metterei a piangere, guarda” commentò facendomi sorridere.
Un bambino.
“Compiango quel poveretto di Andreas che si deve sorbire le sue diete a base di ossigeno e grissini formato neonati” disse comunque.
Sbuffai. “Per questo dici che è una snob?” domandai con rammarico.
Lysander quasi mi trafisse con lo sguardo. “Lo dico perché ti tratta come un burattino e tratta così anche un mio carissimo amico. So della storia della camera da letto. E dico che è una snob perché dice che in casa nostra ci sono troppo libri. Ti sembra una cosa da dire? Ha fatto una smorfia e ha detto che c'erano troppo libri in casa nostra, quella è matta e snob, dato che non voleva assaggiare il cous-cous che avevo cucinato, perché lei le cose africane non le mangia. Ha proprio detto così. Cose africane. Poi è scesa da Mc Donald's. Non è neanche snob, hai ragione. E' solo cretina”
Scoppiai a ridere e non provai neanche a difenderla, gli chiesi solo di provare a rivalutarla.
“Perché non l'hai detto subito ad Andreas?” domandò come se stesse riflettendo ad alta voce. Non ci fu bisogno di chiedergli cosa.
“Perché sarebbe stato inutile, Giselle gli piace, più di me” dissi francamente senza imbarazzarmi.
“Non te ne penti?” mi chiese a bruciapelo.
“No” azzardai. “Mi piace pensare che quando ci siamo incontrati era il momento sbagliato, doveva succedere molto prima o molto dopo. C'è stato un errore, deve esserci stata qualche confusione di date lassù” spiegai e puntai il dito verso il soffitto.
Lysander rimase immobile con le labbra contratte e arricciate.
“Mi era chiaro che esistesse, anche prima di conoscerlo. Sapevo che c'era, ma non sapevo dove” ammisi, sapendo di poter fare la figura della folle. “Non posso darti altre spiegazioni, non le ho neanche io” m'impuntai.
“Tu lo ami” constatò finendo il vino.
Scossi la testa. “Ci vuole talento per chiamarlo amore” gli confessai, facendolo sbuffare.
Decisi di cambiare atteggiamento e risposta per farlo contento. “Forse, probabilmente” annuii. “Da quando ho memoria di me, io l'ho cercato”
“L'hai trovato per prima” constatò Lysander.
“Sì, ma l'ha preso prima Giselle” gli feci notare.
Pagammo il conto e i libri e nonostante mi fossi impuntata per pagare la mia parte, Lysander fu più autorevole.
Usciti lo ringraziai di nuovo. Mentre scendevo con Lysander affianco le scale gli dissi che gli dovevo un luogo speciale.
“In che senso?” domandò confuso.
“Nel senso che forse la prossima volta potrei decidere io dove andare”
Lysander sorrise ed annuì.
Sul marciapiede rivolsi un'occhiata alla libreria che ci eravamo lasciati alle spalle. Sgranai gli occhi e rilessi più e più volte l'insegna cupa e polverosa della libreria.
“Utopia” lessi ad alta voce prima di tornare a guardare il ragazzo.
“Utopia” ripetei.
“Se lo ripeti il nome non cambia” mi prese in giro dondolando sui piedi.
“Tu ti sei ricord-”
“L'hai detto tu” mi accusò quasi. “L'utopia è il luogo in cui ci rincontreremo” detto ciò mi rivolse un'occhiata che mi avrebbe perseguitate per tutte le mie future notti insonni, senza sorridere e senza un cenno, mi diede le spalle e se ne andò.
Mentre se ne andava pensai che il problema delle rette parallele è che non riescono a smettersi a guardarsi.

 

   
 
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