Volume I: Un breve e prolisso compendio tanto breve e tanto prolisso da meritarsi il nome di “Volume” su come l'università ti cambi drasticamente dal primo minuto in cui ci metti piede, anche se sbagli aula.
“Autunno”
Parte 1: Come la federazione elvetica ti dà una diffida. Questa è una citazione al Candide di Voltaire. “Come il Candido fu allevato in un bel castello e come ne fu cacciato”
C'è
questo folle falso mito che gli studenti universitari siano l'élite
culturale di tutto il mondo.
Beh, ovviamente non posso parlare di
me in quanto ci sarebbe un terribile conflitto d'interessi, quindi
devo dirvi come mi sono reso conto che gli studenti universitari
riescano a non essere mai studenti.
Però è anche vero che ogni
esempio è sbagliato per principio in quanto è marginale.
Eppure
il nostro cervello li adora.
Quindi, come ogni teoria, iniziamo
con premesse fallaci su come tutto è più complicato di quanto non
lo sia in realtà.
9:40.
13 Settembre. Via Festa del perdono. Una mattinata della prima metà
di Settembre. Volevo iniziare con un sogno di una notte di mezza
estate, ma oramai il 13 Settembre è autunno quindi mi era inutile.
Di
fronte a me si apriva un porticato romanico.
Colonnati che tanto
agognai in giovinezza.
Gli ultimi due anni di liceo li avevo
passati aspettando proprio quel momento.
L'aria umida, la
freschezza di inizio Settembre, il costante sentimento di confusione.
Forse quest'ultimo no, ma è l'unico modo che esiste per
descrivere quei secondi.
Nella mia testa c'erano incastrate Busy
Earning, neanche fosse la
canzone di Barbie e un
po' d'emicrania per aver dormito due ore.
Quando si
attraversa quell'arcata il tempo si ferma, tutto diventa più
caotico, ti ritrovi senza riferimenti, senza appigli. Tenti di
guardarti attorno per vedere se c'è qualcosa di amichevole.
Ma
nulla, vedi un edificio.
In mezzo a questo porticato, una sorta
di piazza.
La pioggia batteva sul mattone a vista dell'edificio.
Una pioggia di quelle leggere.
La Statale di Milano.
Sapevate che è il più grande polo universitario lombardo e che
è stato aperto nel 1923? Beh, io no.
Ve lo sto dicendo perché
l'ho appena cercato su internet perché non sapevo come allungare il
brodo.
È importante allungare il brodo.
La mia intenzione è
quella di allungarlo al punto da far dimenticare la trama ai pochi
che stanno attenti.
Voglio fare quello che ha fatto il mio amico
Stan con Il lavoro
dell'attore su se stesso, ovvero
esporre la mia teoria in modo tale che la trama sia dimenticabile.
D'altronde, dovrò pur parlare di qualche cosa prima che
inizi la vera e propria trama, no?
Sapete, introduzione, scoperta
del problema, risoluzione del problema, finale.
Robe da prima
media.
Anche se, come molto probabilmente avete letto
dall'incipit, i problemi me li porto dietro e non li trovo per strada
durante l'università.
Effettivamente dovrei scriverlo
quest'incipit prima di poter dire questa cosa.
Quando mi
avvicinai all'effettiva entrata dello stabile, un ragazzo mi fermò.
Mi chiese se mi interessasse il terrore programmatico promulgato
dai media.
Già mi stava simpatico.
Avevo cinquanta minuti
d'anticipo, quindi gli diedi il mio numero e stetti un po' a
parlarci.
Mentre lui mi spiegava come tutto fosse un complotto
dei poteri forti, delle Big Pharma e del governo Andreotti, poi
aggiunse che lui era del gruppo di studi Marxista o una roba del
genere, io gli spiegai che era il mio primo giorno di università e
non sapessi dove andare, e lui mi disse "Crociera Alta di
Lettere".
Mi girai per controllare se mia nonna, che mi
aveva accompagnato, ci fosse ancora. Non c'era. Sparita, puf.
Un
po' Batman, un po' Spiderman, mia nonna.
10:30. Aula “Crociera Alta” di Lettere, dipartimento di filosofia, secondo piano, entrata balcone.
Non
voglio mentire: mi persi cercandola, e ad un certo punto comparve dal
nulla. Cioè, era sempre lì, ma ovviamente non potevo sapere che
quella porta finestra che dava su un balcone pericolante era la
strada giusta.
In ogni caso. Quando la trovai, mi sedetti. E per
“mi sedetti”, ovviamente do per scontato tutte quelle azioni come
“cercai
il posto, non ne trovai uno abbastanza isolato quindi dovetti
chiedere ad uno sconosciuto se il posto vicino a lui fosse libero o
meno con tutti i sentimenti d'ansia e nervosismo che possono
comportare tutte queste azioni”.
Da
lì ascoltai uno spiegone a otto mani su come il dipartimento di beni
culturali fosse uno dei migliori in assoluto. Fu molto avvincente. I
professori erano molto disponibili ed esaustivi, devo dire. Avevano
un che di particolare, di completamente sconosciuto e di
misteriosamente avventuroso.
Eppure non mi sentivo proprio a mio
agio. Certo, era da anni che non vedevo l'ora di iniziare
l'università, di dialogare coi miei pari, di vendere organi per
poter pagare i libri e cose così.
Ma io ero iscritto a filosofia.
11:17
L'unica
cosa a cui potevo pensare era “dovrei
andarmene”.
Per quanto potesse essere avvincente, non era il mio posto.
Letteralmente.
Non era la mia aula, figurarsi il mio posto.
Nel
preciso istante in cui stavo prendendo appunti per scrivere questo
testo, la ragazza che era alla mia sinistra stava leggendo tutto.
Stava tentando di capire se stessi prendendo appunti perché mi
interessasse o se stessi avendo una sorta di complesso di inferiorità
dato che ero uno dei pochi a non prendere appunti. Ma era l'unica
cosa potessi fare.
Mi vergognavo troppo per alzarmi e andarmene.
Mi farebbe sentire molto meglio sapere che non ero l'unico ad
aver sbagliato aula.
12:09.
14 Settembre. Casa mia, Colazza, provincia novarese.
Il telefono vibrava.
Numero sconosciuto. +02. Milano?
"Marco?"
"Sì?"
"Sono
Federico, il ragazzo che ti ha fermato ieri, come ti è andato il
primo giorno di università?"
Era uno di quei comunisti del
gruppo studi molotovista.
Volevo tenermeli buoni.
Avrei
voluto infiltrarmici, in qualche modo. Almeno per potermi fare degli
amichetti.
D'altronde, ero solo a Milano e chissà quando mi
sarei fatto dei compagni d'avventura.
Avrei potuto dirgli la verità e intrattenerlo per chissà quanto tempo, oppure, mentirgli.
Scelsi la seconda.
"Bene! Ma immagino non mi avrai chiamato per chiedermi solo questo."
"Anche per questo. Ma volevo invitarti a un dibattito domani alle tre."
"Ma domani sabato? Perché si sposa mia sorella."
"Giovedì sera allora."
8:43. 19 Settembre. Tangenziale milanese.
Io
e mio padre eravamo in coda. Guidava lui. Io non sono mai entrato a
Milano in macchina. Sono terrorizzato dai parcheggi, dovutamente alla
scuola guida inefficace e a quel cane che mi faceva fare le guide.
Una signora al telefono sulla destra, in corsia d'emergenza, ci mandò
a cagare perché non la volevamo far immettere.
C'era odore di
peperonata.
Ma Milan l'è on gran Milan!
15:09. Aula 208. Via Festa del perdono.
Le
aule magne, imparai presto, sono un brutto posto.
Puzzano, sono
sempre troppo piene, e soprattutto, non permettono a quei poveri
ragazzi ipovedenti come me di vedere il professore, o tanto meno
tutto ciò che sta a più di 5 metri di distanza dalla mia posizione.
Ad un certo punto, circa mezz'ora dopo l'orario ufficialmente
stabilito e riportato ovunque, entrò il prof. O almeno, ad oggi non
so se fosse veramente il prof , in ogni caso, entrò qualcuno che
iniziò a parlare, spiegandoci come i libri che avremmo dovuto
utilizzare erano talmente innovativi e talmente una novità nel campo
della ricerca filosofica che sarebbero usciti pochi giorni prima
della data dell'esame.
15:37
In quel paio d'ore incominciai ad annotare i tratti comuni delle aule magne: gli studenti con portatili enormi, la puzza di sudore, altri studenti narcolettici e la mancanza di posto.
Non che mi fossero molto utili, d'altronde mi ritrovavo troppo lontano anche per vedere gli schermi dei miei colleghi, e girandomi vedevo solo gente appisolata.
Macchia, nel frattempo, si (o ci) chiedeva come facessero i bambini a tirare fuori la lingua per imitazione.
Di colpo, un flashback.
Certo, non è il modo migliore per introdurre un flashback, ma il budget per esplosioni e transizioni a stella per questo genere di medium artistico è veramente basso, e l'ho già speso in libri per dare gli esami.
Tutto comincia in una piovosa mattina del primo aprile del millenovecentonovantasette.
Nasco. Giorno fortunato.
Non ci sono prove che miei genitori fossero presenti alla mia nascita.
Passarono gli anni, ma fino al mio sedicesimo compleanno è tutto un grigio paesaggio di provincia.
A questo punto potrei dare una svolta letteraria a questo testo, spiegandovi come nella visione distopica di Chicago in cui io, Kattris Everprior, sono cresciuta, le persone sono divise in caste e io sono innamorata di due ragazzi diversi, entrambi amici d'infanzia ed entrambi equamente muscolosi;
Oppure su come sono un ragazzo normale ma prescelto per le mie particolari abilità per salvare il mondo, pur rimanendo nello spettro statistico di "ragazzi normali che ad ogni capitolo si sottovalutano e sostengono di non essere all'altezza del piano che gli altri hanno pensato per loro";
Oppure di come sono una ragazza innamorata di un vampiro;
Oppure ancora di come mi devo sobbarcare il peso atlantico della scelta di con che compagnia di ragazze equamente bianche ed equamente magre andare da Starbucks.
Tuttavia questo vuole far finta di essere un diario di "viaggio" realistico, indi per cui mi tocca raccontarvi della mia esperienza universitaria.
15:08. 23 Settembre. Metro Lilla.
Il
riflesso era lì.
Un riflesso che mi assomigliava vagamente e a
questo punto della mia vita probabilmente mi assomiglia ancora.
A
quel punto della mia vita ero già riuscito a trovare un modo per
metabolizzare le giornate di merda.
Andavo dal parrucchiere e
ascoltavo in loop Tighten Up e
Lonely Boy.
Appena
diciotto ore prima avevo chiuso una relazione piena, vera, una
relazione bellissima.
Appena diciannove ore prima mi avevano
detto che sarei dovuto andare in Svizzera il 28, lo stesso giorno in
cui avrei dovuto fare il trasloco.
Appena venti ore prima
discussi con mia madre perché lei sosteneva che non sapevo essere
indipendente, che ero solo un peso, e questo solo perché i figli
degli altri avevano deciso di andarsene in Cile per fuggire dai loro
genitori.
Eppure quel riflesso sbarbato, coi capelli corti,
diceva solo "ancora cinque giorni".
Cinque giorni e
poi sarei entrato in casa mia, dove uno vale uno, e dove i genitori
tirannici non avrebbero avuto voce in capitolo.
Eppure pure il
riflesso la vedeva come una cosa terribile.
L'auto isolazione per
fine ultimo la crescita personale e la stabilità emotiva.
Non
metto in dubbio che abbiano fatto errori, ma forse non se ne sono mai
accorti.
Oppure quel riflesso si stava facendo troppi problemi
per nulla.
Ma col senno di poi, era anni che mi stavo isolando.
Non avrebbe cambiato nulla.
17:06. Aula Pio XII, via Sant'Antonio.
Un
gran problema, mio ma non solo mio, è l'attualizzazione dei concetti
che ascolto.
Mi è sempre bastato poco per trovare collegamenti
con la mia vita e con i miei problemi. In questo modo sono sempre
riuscito a farli miei e a auto analizzarmi. In realtà non è un
problema quanto uno strumento che ho fatto mio. Il come
succeda, però, ancora non me lo spiego esattamente. Vedo un
qualcosa, sento un qualcosa, leggo un qualcosa, e puf,
lo faccio mio.
Ma non si ferma lì: lo continuo a rivedere nella
mia vita.
Lo vedo, lo sento, diventa parte di me.
Ora,
applicate questo a tutto quello con cui entrate in contatto ogni
giorno.
Tutte semplici coincidenze? Una fitta rete di
informazioni casuali che vanno a completare lo schema che è il
cervello umano? All'inizio avevo una teoria personale. C'è un grande
disegno per ognuno di noi, come una sorta di film. Scena 1, si impara
qualcosa. Scena 2, si utilizza quel qualcosa per venire a capo di
qualcosa.
In realtà non c'è nessun regista dietro di me, in
quanto questa roba qui si chiama effetto Baader
Meinhof, ed
è il risultato delle fantastiche capacità di trovare schemi e
regolarità del cervello umano.
Ma che c'entra questa roba con
l'Università? Beh essenzialmente nulla, se non che cominciai a fare
miei tutti i concetti che sentivo.
A quanto pare, la mimesi umana
è quello che fa nascere i conflitti, in quanto l'umanità cerca
affermazione individuale attraverso il "primato".
Questo
primato al tempo dei greci era la vittoria alle Olimpiadi, in tempi
moderni si riduce ai “likes”
sui social media.
Prendendo d'esempio la relazione conflittuale con i miei genitori, Io, che primato voglio nei loro confronti?
Una
risposta possibile è nell'identificazione dell'identità personale.
Un'identità che mi sono dovuto creare essenzialmente da solo,
attraverso l'isolazionismo auto imposto adolescenziale in cui
studiai, crebbi, scrissi, ma che ha creato un'identità scomoda da
gestire per i miei genitori.
Eppure questa identità è la
stessa, o meglio, è stata creata nello stesso modo, della loro:
attraverso un distacco progressivo e programmatico dai loro nidi
natii.
Sembra
un concetto complicato, ma c'è gente che lo riassume con un semplice
“Siamo
il remix dei nostri genitori”1.
E
qui non si tratta di essere perennemente malinconici e citare
Battisti ogni due per tre. Anche perché a me Battisti faceva cagare.
Parliamo di tre identità distinte create nello stesso modo e si
può aggiungere come il conflitto in realtà nasca solo in caso ci
siano somiglianze tra i soggetti.
Quindi si può dedurre che il
conflitto in realtà sia solo un conflitto tra me, me, e me.
Rousseau vedeva il bisogno di auto identificazione e di
differenziazione come generale nel mondo, ovviamente rispetto sempre
a qualcun altro. Io non ho mai voluto identificarmi come “il
figlio di”:
il mio obiettivo è sempre stato quello di trovare il mio posto nel
mondo, una mia identità di individuo a parte. Eppure non si può
“superare” il modello imitativo per evitare lo scontro.
Si
può ingannare, scegliendo un modello imitativo lontano.
Non
vorrei suonare blasfemo, e non è di certo questo il mio intento, ma
se prendessi a modello Cristo, non potrei mai entrare in conflitto
con lui, in quanto ci sarebbe l'ostacolo primo della differenza di
vita nei riguardi dei periodi storici.
Eppure è crudele
escludere la mia famiglia dai modelli imitativi.
Alla fine della
fiera, perché è nato il conflitto nella mia famiglia?
Mia nonna, colei che mi prese sotto la sua ala da quando ho ricordi, credo sia stato il mio modello imitativo. Sessantottina, progressista, giramondo, non guidatrice. Il primato del genitore femminile lo prese lei, o meglio, glielo diedi io in età pre-adolescenziale e in seguito mia madre, pur non sapendo nulla sul processo imitativo di Girard, si è sentita minacciata. Probabilmente i litigi in casa sono nati lì. Almeno credo.
Analizzare le disfunzionalità della propria famiglia è più difficile di quanto pensassi.
10:50. Giovedì 28 Settembre. Dogana italo-elvetica. Stabio. No. Clivio. Non ricordo. Gaggiolo?
La
mattina partii verso le otto per accontentare mio padre.
Dovevo
solo aiutarlo ad effettuare una consegna di dei pezzi di macchina da
corsa.
Arrivai a Varese per le nove, da lì avrei proseguito
verso il confine.
Passai la dogana di San Pietro qualcosa per le
10:30, mi addentrai in territorio elvetico senza preoccupazioni, dato
che avevo pure la fattura di vendita di quei pezzi lì.
Alla
polizia di confine che mi fermò non interessava molto.
Da lì
partirono perquisizioni dovute a un problema che ancora non ho
capito. Mi interrogarono per scoprire se avessi o meno dei complici.
Non gli bastava la spiegazione “sto
solo aiutando mio padre, sono uno studente normale”.
La denuncia che mi fecero fu per contrabbando. Da quel giorno sono
interdetto dalla federazione elvetica.
O almeno, così mi minacciarono i funzionari.
Non mi arrivò più nulla a casa quindi tutt'oggi non mi va di rischiare.
18:06. Stazione di Arona. Binario 1. Treno Trenord della linea Domodossola-Milano.
Un
guasto alla linea mi fece accumulare 30 minuti di ritardo. Sapevo che
sarebbero stati gli ultimi minuti di treno in ritardo della mia vita.
Quel ritardo fu l'ennesimo tentativo del mondo di tenermi in
provincia.
E posso anche capire le ragioni di questo mondo.
La
provincia è familiare.
La provincia è sicura.
La provincia
è monotonamente priva di qualsivoglia vita.
Ma Milano è un
incubo.
Un incubo stupendo.
Sapete, è dal settecento che
abbiamo deciso di distinguere sublime
e
bello.
La bellezza è un tratto puramente estetico.
Una statua greca
è bella.
Anatomicamente perfetta, anatomicamente bellissima.
Ma
il sublime è di più.
Il sublime va all'interno della nostra
natura, e ci spaventa.
Però lo cerchiamo in tutti i modi.
Vogliamo entrare nel sublime, sviscerarlo, viverlo, e in
provincia non avrei mai potuto ottenerlo.
Per questo ho deciso di
scrivere.
Io sono terrorizzato da Milano.
Ma solo a Milano
posso essere realmente felice.
Quando arrivai a porta
Garibaldi erano già le otto passate, e da lì presi la Lilla fino a
San Siro.
Presi l'80, arrivai davanti casa.
Aprii il
cancelletto. Attraversai il parcheggio, andai verso la scala 9, aprii
la porta della scala interna.
Due rampe di scale, primo
appartamento a destra.
Inserii le chiavi, girai.
Una, due,
tre mandate.
Respirai, la prima volta dopo tanto
tempo.
Finalmente arrivai in casa, in quella in cui mi sarei
dovuto trasferire nel primo pomeriggio, e mi accorsi di non avere
piatti, pentole, lenzuola, o quantomeno dentifricio. Però mi ero
portato della carne in scatola.
Me l'ero sempre immaginata in
modo diverso.
I miei genitori mi avrebbero accompagnato, avremmo
disfatto gli scatoloni assieme mentre un pianoforte andava in
sottofondo, mi avrebbero augurato il meglio, consegnandomi la mia
prima cassetta degli attrezzi da uomo di casa.
Non fu così per
diverse ragioni.
Non mi avrebbero mai aiutato a fare un trasloco.
Anzi, mia madre era proprio contraria al mio andarmene da casa.
Ho sempre avuto una madre che voleva che fossi un'altra persona.
Una
persona scelta da lei, ovviamente.
Secondo lei dovevo rimanere in
provincia a morire piano piano come molti miei coetanei decisero di
poter fare.
Ma io non volevo morire di noia o perdere sei ore di
ogni giorno su treni con ritardi impossibili, o farmi 140km di
autostrada ogni giorno per andare a lezione due ore e poi tornarmene
a casa.
Semplicemente
non era il mio modo di intendere i miei anni universitari.
Però
era casa mia. Il giorno dopo avrei cominciato a pulire e mettere a
posto e in pochi giorni sarebbe stata una casa vera e propria. Le mie
longboard in mezzo al salotto, le mie maglie a tinta unita arrotolate
come piace a me, i miei maglioni sulle sedie, un plaid sul divano
consunto.
Era la sensazione di casa che mi mancava dai miei genitori. Non mi sentivo a casa.
Certo, potrebbe essere dovutamente al fatto che io sono nato a Milano e quindi era destino che io ci tornassi in qualche modo, oppure era per una questione di proprietà.
Casa
mia. Dirlo mi rendeva felice.
L'annuncio lo trovò per caso mia
nonna su un sito pochi minuti dopo che il proprietario l'aveva messo.
Le mie coinquiline in teoria aspettavano ancora la risposta dal
fatidico test d'ingresso di medicina. Dormii sul divano scomodo
quella notte.
Ebbi freddo perché non trovai coperte.
Ebbi fame perché la carne in scatola non mi saziò.
Dormii male, dormii poco.
Ma ero contento.
Dovevo anche andare dai comunisti, ma mi ero completamente dimenticato e oramai avevo trovato una posizione comoda con i cuscini dello schienale del divano come coperta.
1Siamo il remix dei nostri genitori, Edoardo Cremonese, Siamo il remix dei nostri genitori , 2013, Libellula Music