Libri > Percy Jackson
Segui la storia  |       
Autore: The Custodian ofthe Doors    05/08/2017    1 recensioni
Come si definisce l'importanza di un eroe? Le sue sole imprese possono dirci quanto esso sia stato grande?
Dalle azioni di un uomo si delinea il suo successo ed il ricordo che il mondo terrà di lui, le folli gesta di chi è stato designato come eroe ed è destinato all'immortalità.
Loro non sono altro che mezzi eroi invece, nessuno li ricorderà mai, non saranno i protagonisti di leggende fantastiche e racconti mozzafiato, nessuna canzone verrà composta e cantata alla vivace fiamma di un falò nelle notti stellate, nessun bambino desidererà mai esser come loro, ripercorrere i passi di chi ha lottato, ha sofferto ed è morto come semplice soldato senza poi ricevere la corona d'alloro.
Perché loro erano lì, ma questo non conta.
Loro erano solo Mezzi Eroi e sempre tali sarebbero rimasti.
Genere: Generale, Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Quasi tutti
Note: Missing Moments, Raccolta | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
 <<    >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A

Half Heroes


23. Gwen- La luce in fondo al tunnel.


Essere un Romano non è facile, non è facile in generale essere un semidio ovviamente, ma far anche parte della Legione è davvero un'impresa difficile. I tuoi problemi cominciano quando scopri chi sei, quando vieni portato nel territorio di Lupa, quando vieni addestrato a sopravvivere a tutto e tutti, anche ai tuoi stessi compagni, a vivere letteralmente tra le bestie. Poi devi raggiungere il Campo Giove, devi essere così forte da trovare la strada e rimanere intero sino al tunnel che divide il mondo mortale dalle colline di Nuova Roma, quello, tecnicamente, è il primo territorio franco che trovi, quello è la tua ultima possibilità di ripensarci, l'ultimo luogo in cui sarai un semplice semidio, un semplice ragazzo sfortunato nato dal capriccio di una divinità. Superato il tunnel, tornato alla luce, non sei più nessuno, se non un soldato.
Ripensandoci a mente fredda, dopo la fine della guerra, forse Gwen avrebbe detto che la differenza tra Greci e Romani era proprio tutta lì: i primi erano semidei che si allenavano per sopravvivere, i secondi soldati addestrati a combattere e morire per la Legione.
Morire era la prima cosa che mettevi in conto quando Lupa ti portava nel suo tempio, quando quell'essere così antico ti guardava negli occhi e ti parlava con una voce che non aveva, dritta nella tua testa, come se improvvisamente fossi in grado di capire il linguaggio degli animali. Ma poi, Lupa, era un animale? Era una Dea costretta in quella forma? Non ne aveva la più pallida idea lei, ma certo non si era mai azzardata a chiederlo.
Quando poi avevi terminato il tuo “apprendistato” con i lupi, quando varcavi quel confine sicuro – sicuro dai mostri, non dagli altri lupi del branco con cui ti allenavi ogni giorno, con cui vivevi- l'ipotesi di morire in modo cruento mentre cercavi di arrivare al Campo era ciò che non avevi il coraggio di dire a voce, era la paura che non riuscivi a comunicare a Lupa quando ti chiedeva cosa stessi aspettando per andartene. Gwen ancora lo ricordava quel momento, quando se ne era stata ferma sul confine franco e aveva voltato la testa verso la Dea con un nodo alla gola così stretto che temette che non sarebbe mai più riuscita a parlare, sempre che fosse sopravvissuta. Però a quel punto il tuo viaggio per diventare un Romano era già iniziato e non potevi tornare indietro, non ne avevi il coraggio.
Ma tra tutte le cose che Gwen aveva affrontato, tra tutti gli allenamenti, le lotte con i lupi, quelle con i mostri, gli allenamenti sfiancanti con la Legione prima e poi con la sua Coorte in particolare, di tutta una vita al Campo Giove, di una Grande Guerra e della terra che trema, dei proiettili di fuoco, dei passi dei giganti e delle urla dei suoi compagni, Gwen avrebbe ricordato meglio di tutto il suo primo ingresso al Campo. Nessun ricordo avrebbe mai soppiantato per importanza e per significato quella lunga corsa contro il tempo.
Le sembrava quasi di riviverlo ogni volta, anche in quel momento, avvolta nel maglione pesante, con una tazza di tea bollente tra le mani e la vista di Nuova Roma imbiancata dalla prima neve dopo la Guerra contro Gea, anche dopo tutto quel tempo, tutti quegli anni, Gwen ricordava quel giorno come se fosse appena accaduto.

Le bruciavano le gambe, le sentiva letteralmente in fiamme, così come i suoi polmoni, come i bicipiti che imploravano pietà e le articolazioni delle mani che la pregavano di rilassarsi e lasciar cadere la pesante spata che stringevano ancora spasmodicamente.
Si lanciò uno sguardo da sopra la spalla, i capelli scuri le andarono sul visto ma non le impedirono di vedere i mostri che la rincorrevano: l'avevano individuata pochi chilometri dopo il Tempio, quando la ragazzina ancora pensava di esser al sicuro, che nessuno si sarebbe spinto così vicino ai territori di Lupa, ma si sbagliava di grosso a quanto pare. Nella sua testa, come un mantra, si ripeteva che doveva solo raggiungere la collina ed entrare nella gigantesca apertura tondeggiante del tunnel, solo quello e sarebbe stata salva.
L'aria che le entrava nei polmoni sembrava priva di ossigeno, non le dava nessun sollievo e l'appesantiva solo, illudendo il suo cervello di necessitare d'altro, che quelle boccate sincopate che tirava ad ogni passo la stavano solo intralciando. Non sapeva dire neanche da quanto tempo, effettivamente, stesse correndo, ma sapeva perfettamente che era troppo e che se non avesse avvistato quel dannato tunnel entro cinque minuti si sarebbe fermata e si sarebbe lasciata sbranare dai mostri, solo questo, e poi basta, fine a tutti i suoi problemi compreso il primo e più rilevante: la sua vita.
Se la morte era la prima cosa che mettevi in conto da semidio, era anche vero che capivi subito quanto tutti i tuoi problemi derivassero dalla tua stessa esistenza, ergo, la tua vita era il tuo problema principale. Eppure a dodici anni Gwen non voleva morire, non aveva la minima intenzione di farlo e malgrado si ripetesse che “tra cinque minuti mi fermo” si ritrovava sempre a posticipare la cosa, altri cinque minuti, solo altri cinque, come un bambino che chiede alla madre altro tempo per giocare, solo che quello non era un gioco e lei non avrebbe mai più chiesto a sua madre di aspettare quei dannati cinque minuti per prendere Dan ed impedirgli di far tana libera tutti.
Quanto poteva essere grande la paura della morte?
O forse non era paura, la sua era mancanza di coraggio, non ne avrebbe mai avuto abbastanza per lasciarsi morire.
Ma se entro cinque minuti non avrebbe avvistato quell'entrata, allora si sarebbe davvero fermata e questa era la sua ultima parola.
Quasi come se le avessero letto nel pensiero un apertura tondeggiante le apparve sul fianco della montagna, i suoi muscoli guizzarono tutti assieme nel loro tremore, il dolore che sentiva in quel momento era nullo a confronto della sua gioia, al sollievo che le si aprì nel petto e che le fece salire le lacrime agli occhi. Ce l'aveva fatta, ce l'aveva fatta, era arrivata, gli dei solo sapevano quanto era felice. Un ultimo sprint, la suola delle scarpe da ginnastica che slittava sulla ghiaia e che le faceva perdere per un momento la presa sul terreno, ma non aveva importanza, non più.
Si fiondò nell'apertura lanciandosi a terra e lasciando scappare un singhiozzo sollevato che venne immediatamente amplificato dalla cava e subito dopo ingoiato dai ruggiti dei mostri.
Cosa stava succedendo?
Si voltò quel tanto che bastava per vedere un artiglio sporgersi verso di lei, superando l'arcata di cemento e raschiando la terra battuta del tunnel.
No.
No, no, no, no, cosa stavano facendo? No, i mostri non dovevano superare il tunnel, non potevano, la protezione… aveva urlato, non era stata in grado di far altro. Si era alzata da terra graffiandosi palmi e ginocchi, scivolando più volte, sbattendo contro le pareti e correndo come aveva fatto per tutto il suo viaggio, come se quella fosse l'ultima cosa che avrebbe fatto in vita sua.
Le lacrime scendevano copiose dal volto sporco, la spata era troppo pesante, le sue braccia troppo deboli, le cosce in fiamme ed i polpacci ormai insensibili al dolore si muovevano per inerzia come caricati in precedenza e poi lasciati al loro moto perpetuo. Non ce l'avrebbe fatta, non quella volta, se lo sentiva.



Un dolore lancinante ad un fianco, la fredda lunghezza di una lama che si faceva spazio nella sua carne sino ad intingersi nel suo sangue, il bruciore improvviso allo stomaco e tutte le forze che abbandonavano il suo corpo.
Attorno a lei i rumori dei Giochi di Guerra, gli ordini lanciati sopra le urla dei soldati che caricavano il nemico, i Centurioni che chiamavano a gran voce l'adunata, serrare i ranghi per impedire che la quinta facesse breccia tra le forti resistenze dei pavesi e arrivasse alle porte già bagnate dall'acqua che il figlio di Nettuno aveva convogliato a se.
Cos'era? Perché faceva così male?

Il tunnel pareva non voler più finire, un incubo che si srotolava dinnanzi a lei senza darle tregua. La fine era lontana, o vicina, dipendeva da dove guardasse la cosa: lontana l'uscita dal corridoio, vicina la sua fine. Stava…



...morendo.
Stava morendo.
Si lasciò scivolare a terra incapace di reggersi ancora sulle gambe provate dallo sforzo della carica e da quello della ferita. Perché questo era, una profonda ferita al fianco destro da cui ora sgorgava sangue, vomitava quel fluido rosso e denso come un giorno, tanti anni prima, una fessura nel muro aveva vomitato mostri.
La terra bagnata le diede un finto ed illusorio sollievo, solo una carezza contro un muscolo contuso, solo un soffio delicato su un ginocchio sbucciato.
Stava davvero morendo? Era sopravvissuta a tutto quello solo per morire durante degli stupidi Giochi di Guerra alla vigilia di quella che probabilmente sarebbe stata la fine del mondo? Si portò una mano al fianco senza riuscire a fermare il singhiozzo che ruppe la resistenza delle labbra serrate e dei denti digrignati tra loro, l'urlo terrorizzato di una ragazza la sfiorò appena mentre quella figlia di Efesto della quarta coorte si precipitava verso di lei per portarle soccorso, chiamando a gran voce figli di Apollo che la soccorressero il più velocemente possibile. Ben preso anche altre grida si unirono a quel coro che spezzò il fiato dei giochi e attirò l'attenzione del Pretore Arellano che planò col suo destriero verso di lei, una macchia chiara nello sporco polveroso e infangato della distesa dove erano state allestite le macchine da guerra.
Faceva male, faceva così male che non le sembrava vero, come se la vita sgorgasse via dal suo corpo assieme al sangue, eppure non perdeva lucidità, non le si appannava la vista, non cominciava a sentire i suoni più ovattati, l'illusione della sordità creata solo dallo sconcerto iniziale si presentò in tutta la sua assenza quando cominciò a capire fin troppe parole, comprendere fin troppi discorsi di tutti coloro che le si affaccendavano attorno.
Con la coda dell'occhio vide un guizzo giallo, quasi albino, ed uno più scuro, come di metallo sporco di sangue, ma poi qualcuno lo coprì e Gwen desiderò solo smettere di sentire, fare come raccontavano tutte le storie, sentir la forza abbandonarla e con quella la sua lucidità. Perché non se ne andava? Perché era tutto ancora così chiaro?
Una figura scura avanzò tra le persone, solo la mera ombra di se stesso, null'altro che un illusione, null'altro che uno spirito incatenato lontano dal suo regno che riusciva a lanciare un frammento di se oltre i gioghi di ferro.
Chiuse forte gli occhi mentre mani esperte si alternavano sulla sua ferita- troppo profonda- un flash bianco che le tolse il respiro per un secondo che seppe d'eternità.

La figura tondeggiante di un'apertura, le porte tagliafuoco chiuse ma le maniglie rosse ben in vista, i ruggiti dei mostri le toglievano solo quella poca forza che ancora aveva, le lacrime bruciavano come fuoco, marchiandola con la paura e la vergogna della sua debolezza. Come poteva sopravvivere al Campo Giove se non riusciva neanche ad arrivarci?
Poi voci umane le solleticarono i timpani e Gwen non avrebbe mai saputo dire se se le fosse immaginate, se stesse delirando o se esistessero davvero, si lanciò verso le porte come si era lanciata oltre l'entrata del tunnel ma questa volta l'aspettava l'impatto freddo del metallo, le pesanti porte che scivolavano ben oliate sui cardini lucidi e l'erba pungente come aghi che le pungolò la pelle quando cominciò a cadere oltre la collina che s'alzava come a protezione della città di Nuova Roma.
Il mondo girò su se stesso, rotolando così veloce da confondere il cielo con la terra in un'unica spirale verde-bluastra, voltandosi come una trottola impazzita, la testa che sbatteva contro la superficie battuta, la schiena che le lanciava stilettate ogni volta che impattava il suolo, il sapore del sangue nella bocca, il polso bruciava così tanto da sembrarle congelato, sicuramente rotto, come minimo slogato, il ginocchio invece doveva esserle uscito di sede, le sembrava di sentire il vento sulle ossa, e la voglia di vomitare le crebbe così grande in corpo che probabilmente fu vinta solo dallo sfinimento, dal suo cervello che l'avvertiva che non avevano più l'energia neanche per far contrarre le pareti dello stomaco.
Una linea scura volò sopra la sua testa, un mostro gridò agonizzante esplodendo nell'aria, un altro guizzo scuro, erano frecce? Poi un fulmine. No, non se lo era sognata, era proprio un fulmine che preciso e letale aveva colpito gli altri due mostri rimasti disintegrandoli all'istante.
Fu l'ultima cosa che vide, una figura piccola, forse poco più di lei, che fluttuava sopra la sua testa contornata da fulmini, i capelli biondi e gli occhi dello stesso colore di quelle scariche elettriche.
Bianco.
Nero.



Il clamore della battaglia, le armi che cozzavano contro gli scudi, una figura più alta di lei ma non più massiccia, i capelli biondi come se il sole li avesse scoloriti, gli occhi azzurri di quella particolare sfumatura data solo dalla follia e dal genio – che troppo spesso erano la medesima cosa- poi il dolore.
Bianco.
Nero.

Non morirai, non oggi.
I medici continuavano a tamponare la ferita, qualcuno doveva aver portato delle flebo, riusciva a sentire l'ago nel braccio.
Lontano da lei, oltre tutti i semidei, oltre Reyna che urlava ordini, superando i suoi compagni, un paio di occhi verdi come il mare che secondo tutti avrebbero presto rimpiazzato quelli blu d'elettricità, -ma non per te, o per gli altri della quinta, non per gli amici di una vita- dietro tutto questo c'era solo un vortice nero che pareva ingoiare tutti i colori.
Era quella la morte quindi? Se l'era immaginata come un bell'uomo che veniva a darti l'ultimo bacio, non come l'ennesima galleria da percorrere, che sfortuna.
Doveva alzarsi e andare verso quella porta vero? Superare anche quell'ennesima entrata tondeggiante come aveva fatto una vita fa con il tunnel, era giusto?
Non morirai.
No? E perché?
Perché nulla più chiude le Porte e la tua anima è libera di fare ciò che crede.
Ciò che crede...rimanere o andare? Come poteva scegliere?
Oh, in verità era facile, molto facile scegliere. Lo era stato tanti anni prima, quando ad ogni minuto che passava se ne concedeva altri, quando avrebbe mollato tra altri cinque minuti, quando si era buttata contro quella porta ed era caduta. Dritta nella luce, dritta al sicuro, a Nuova Roma, dai suoi amici o da quelli che lo sarebbero stati a breve, vivere, perché in fondo Gwen non era abbastanza coraggiosa per lasciarsi morire.

La figura s'abbassò lesta atterrando leggera al suo fianco, un ragazzino di non più di nove anni, la pelle abbronzata pareva dorata come i suoi capelli. S'inginocchiò vicino a lei e le mise una mano sulla spalla, << Resisti, è finita, sei arrivata al Campo Giove, non morirai, non oggi.>> Aveva alzato quegli occhi blu elettrici dai suoi scuri per posarli lontano, come se seguisse i movimenti di qualcuno, il rumore dei passi che anticipò quello delle voci che chiedevano al ragazzino se andasse tutto bene, qualcuno che lo rimproverava persino per essersi buttato all'attacco senza attendere ordini, per averla salvata senza che nessuno gli dicesse che poteva farlo.
Ma il bambino pareva non smuoversi, il volto serafico come quello di un adulto, come quello di un soldato.
Provò a parlare, a dirgli qualcosa, chiedergli scusa anche, ma solo rantoli bassi uscivano dalle sue labbra spaccate e sporche di sangue e terra. Il bambino riportò l'attenzione su di lei e le sorrise, le sorrise
timidamente, come se non vi fosse abituato e avesse paura di farlo male.
<< Tranquilla, sei al sicuro ora, sei tra amici.>>



Ed era vero, lo era stato per molto tempo, sin da quando quel bambino le aveva salvato la vita e poi chiesto se voleva far parte della sua stessa Coorte, se le andava bene.
Sino a quando non aveva capito cosa significasse essere un soldato, fino a quando quella che era diventata casa sua si era trasformata in un eterno inno al loro amico scomparso, a quello stesso bambino che a modo suo il aveva uniti; fino a quando non era apparso quell'altro e fino a quegli stupidi giochi che le avevano portato via tutto ma non le avevano tolto niente.
Era stata una decisione fin troppo semplice, forse un Romano, un vero Romano non l'avrebbe accettata, ma Gwen era umana, prima che Romana, e aveva paura proprio come ne aveva avuta a dodici anni quando si era lanciata contro quella porta.
Oltre il baratro, dalla parte più luminosa, altri cinque minuti, tutto il tempo che le serviva per stringersi al proprio corpo e voltare la testa alla luce in fondo al tunnel.
Non era la sua ora, non ancora.
   
 
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Libri > Percy Jackson / Vai alla pagina dell'autore: The Custodian ofthe Doors