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Autore: Shadow writer    20/08/2017    2 recensioni
Dopo l'ultimo caso, che ha messo in discussione la sua carriera e la sua vita, il detective Harrison Graham credeva di aver finalmente trovato la pace insieme alla figlia, Emilia, e alla donna che ama, Tess. Ma un nuovo ed imprevisto caso lo trascina in un'indagine apparentemente inverosimile, in cui nulla è ciò che appare e nessuno appare per ciò che è. La ricerca lo costringe a collaborare con il suo acerrimo nemico, Gibson, ma soprattutto porta alla luce il fantasma del passato di una persona a lui molto, molto vicina, e a realizzare che forse, il detective non l'ha mai conosciuta veramente...
[AVVISO: "Smoke and Mirrors" è il seguito di "Blink of an eye", che potete trovare sul mio profilo]
Genere: Mistero, Sentimentale, Suspence | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
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13_ La resa dei conti
 



Il capannone era come lo si sarebbe immaginato: enorme e polveroso. 
Le luci delle torce tagliavano le tenebre rivelando alcuni dei vecchi macchinari lasciati ad invecchiare senza neanche la cura di coprirli. L'unico rumore udibile era quello dei passi dei tre colleghi che perlustravano l'ambiente. La luce dell'alba era ancora troppo fievole per illuminare a sufficienza l'interno, che risultava scuro e ombroso.
«Tess!» gridò la voce di Harrison, facendo vagare la torcia intorno a sé. «Sono io, Harrison!»
Attese un istante, ma gli rispose solo l'eco del suo grido.
Continuò a chiamarla, spostandosi per il capannone, entrando nelle stanze e forzando le porte chiuse a chiave.
«Tess!» tentò ancora, ma ancora gli rispose solo silenzio.
«Mi sento un idiota» commentò rivolgendosi a Gibson e Sadie, poco lontani da lui.
«È più che una sensazione, piccolo genio, te lo assicu...» la voce dell'uomo fu strozzata dalla gomitata che Sadie gli rifilò nelle costole.
Harrison finse di non averlo sentito. Guardò in alto, dove la luce stava cominciando a farsi più intensa.
«Ho visto un negozio qui fuori, prima era chiuso ma forse a quest'ora avrà aperto. Vado a fare qualche domanda.»
«Noi continuiamo a guardare, magari troviamo qualche indizio del loro passaggio» rispose Sadie e seguì con lo sguardo l'uomo che si stava allontanano.
Non appena fu uscito, Harrison realizzò che era ormai l'alba e le persone stavano cominciando a svegliarsi. Le case avevano alcune luci accese al di là delle tende e incrociò anche un uomo che correva sul bordo della strada.
Il detective raggiunse il negozio che aveva intravisto quando erano arrivati. Come aveva indovinato, la saracinesca era stata alzata e un uomo, il proprietario probabilmente, stava sistemando alcuni cartelli pubblicitari all'esterno.
«Buongiorno» lo salutò Harrison studiandolo con un'occhiata. 
L'uomo sembrava aver superato la sessantina, era alto e le spalle larghe gli davano un'aria robusta, anche se non massiccia. 
«Buongiorno» replicò quello, «posso aiutarla?»
«Sì» replicò schietto il detective, «mi chiedevo se quel capannone laggiù è abbandonato.»
Il venditore guardò l'edificio che gli veniva indicato, poi guardò Harrison, stupito dalla domanda.
«Be', è da anni che non si vede anima viva entrarci» rispose mentre riponeva un cartello pubblicitario che prometteva un nuovo prodotto all'intero.
«Ne è sicuro? Neanche vagabondi?»
L'uomo non nascose la sua perplessità alla domanda, ma replicò: «No. Una volta circolava una leggenda stupida, si diceva che portasse sfortuna entrarci, dal momento che il vecchio proprietario si era impicciato all'interno. Quando hanno chiuso la fabbrica non si sono neanche preoccupati di portare via i macchinari.»
Harrison rabbrividì e lanciò un'occhiata al capannone. Stagliandosi contro il cielo rosso dell'alba, l'edificio sembrava un vecchio scheletro abbandonato.
Cercò di scacciare la brutta sensazione che lo aveva afferrato, convincendosi che si era fatto suggestionare dalle parole del venditore.
«Aspetti» richiamò l'uomo, che stava per rientrare nel negozio. Quello si voltò e gli scoccò un'occhiata sempre più scettica.
«Se a nessuno importava dei macchinari, perché è stato messo un guardiano?» domandò.
L'uomo sollevò le sopracciglia, raggiungendo un livello superiore di stupore, come se si trovasse di fronte ad un pazzo.
«Guardiano?» ripeté, poi rise. «Ragazzo, quando ho detto che nessuno mette più piede in quella baracca, intendevo davvero nessuno. Non esiste nessun guardiano.»
La risposta colpì Harrison come uno schiaffo.
«...È il custode di un capannone abbandonato, loro non lo hanno visto, ma lui sì. È abbastanza sicuro.»
La voce di Sadie risuonò nella sua testa. La brutta sensazione che lo aveva afferrato cominciò a farsi più vicina e reale. 
«Napoleon ha distribuito i volantini che gli ho dato e qualcuno ha detto di averli riconosciuti.»
La testa di Harrison stava per scoppiare. Le informazioni vorticavano in cerca di fili che li collegasse le une alle altre.
«E sentite questa: un altro ladro si presenta sempre camuffato con il nome di un personaggio storico...»
Sembrava passata un'eternità da quando aveva cercato informazioni sui ladri d'arte, ma i ricordi affiorarono vividi alla sua memoria.
«...ma nessuno si rende conto di trovarsi di fronte alla stessa persona se non dopo aver saputo del furto»
Improvvisamente Harrison tornò in sé.
«Figlio di puttana!» sbottò e cominciò a correre verso il capannone.
Nel sentire la sua esclamazione, il venditore si affacciò sulla soglia del suo negozio in tempo per vedere la sagoma del detective che correva via. L'uomo lo scrutò, corrugando perplesso le sopracciglia. Non era ancora riuscito a stabilire se quel giovanotto con la giacca di pelle e gli occhi di un verde elettrico gli stava parlando seriamente o la stava prendendo in giro. Nel primo caso, doveva sicuramente mancargli qualche rotella.
Il venditore sbuffò una risata. Ormai la sagoma del giovane uomo era scomparsa all'interno del capannone. 
Lui fece per rientrare nel suo negozio, ma un boato squarciò l'aria e le sue vetrine tramarono. L'uomo si aggrappò alla porta, convito che sarebbe precipitato a terra. Al boato seguì un suono violento, come quello di un crollo.
«Ma che diav...» cominciò, prima che le parole gli morissero in gola quando ebbe alzato lo sguardo.
Del fumo scuro si alzava dal vecchio capannone e gran parte delle pareti era crollata, come in seguito ad un'esplosione.
Il cuore del vecchio venditore cominciò ad accelerare velocemente: era esattamente il punto in cui era scomparso quello strano giovane.
 
 
 
Tess si svegliò di soprassalto, con il cuore in gola e madida di sudore, come se avesse appena avuto un incubo, ma il suo era stato un sonno senza sogni. Si guardò attorno, convinta che fosse successo qualcosa di terribile di cui si era dimenticata, addormentandosi. Invece si trovava ancora nello stesso posto, tra la polvere del vecchio capannone. 
Poco distante, Calvin le stava rivolgendo uno sguardo preoccupato.
«È successo qualcosa?» domandò lei.
L'uomo scosse il capo: «Oltre al tuo pisolino, nulla di che. Lo sai che russi ancora?»
«Non ho mai russato» lei lo fulminò con lo sguardo mentre si raddrizzava. 
La paura che l'aveva svegliata si stava lentamente dileguando, lasciandole comunque una strana sensazione negativa, come se fosse successo qualcosa di brutto. Il capannone era illuminato a giorno, segno che il sole era ormai sorto da un po'.
Per la prima volta da quando se n'era andata, provò un forte desiderio di tornare a casa. Di farsi una doccia calda, di indossare il suo pigiama pulito, di dormire nel suo letto. Ma soprattutto di rivedere Emilia, di assicurarsi che stesse bene, di dirle che, se la bimba era ancora d'accordo, lei sarebbe stata la sua mamma, oggi e per sempre e che le avrebbe sempre voluto bene e che non l'avrebbe mai più lasciata. E di rivedere Harrison, di stringersi a lui, di annullarsi nel suo abbraccio, di non sentire più nulla se non il suo calore confortante. Di sedersi a tavola con lui ed Emilia, di ascoltarli raccontare le loro giornate, di ascoltarli litigare scherzosamente, di lavare i patti insieme ad Harrison, che di sicuro l'avrebbe spruzzata con l'acqua calda come un bambino dispettoso, di leggere una storia ad Emi e di addormentarsi accanto al suo uomo. E di svegliarsi sempre vicino a lui. Quanto le mancava tutto questo...
«Tess.»
La donna si voltò verso Calvin. L'uomo le stava tendendo la pistola che aveva portato con sé dal primo giorno.
Lei scosse il capo: «Non la voglio, Cal, te l'ho già detto.»
«Ne hai più bisogno di me» insistette lui.
«Ma avrei meno coraggio di te e non premerei mai quel grilletto.»
Lui sospirò e ripose l'arma, poi le si avvicinò e le mise un braccio sulle spalle, a mo' di consolazione. Erano seduti su un container, e le loro gambe pendevano verso il pavimento, troppo lontani per toccarlo.
Un rumore fece scattare i loro occhi verso l'ampio portone.
Tess si sentì il cuore in gola e il braccio di Calvin non era di alcun conforto. Aveva voglia di vomitare, di correre, di strapparsi i capelli, ma si sentiva pietrificata.
La rigidità dell'uomo al suo fianco le fece intuire che anche lui aveva capito.
Era arrivata la resa dei conti.
Il portone si aprì leggermente, quanto bastava perché una figura si infilasse all'interno. Era vestita completamente di nero e mentre si avvicinava, Tess e Cal cominciarono a vederlo più nitidamente. Si trattava di un giovane uomo, i capelli scuri e unti incollati al capo, uno sguardo folle e un sorriso di chi sta per tagliare la gola della sua vittima. Nella sua mano destra luccicava una pistola.
Tess rimase come paralizzata, temendo che un qualsiasi movimento avrebbe potuto scatenare la sua follia.
Un rumore di passi alle loro spalle li fece sobbalzare. Nessuno due però si voltò per controllare quel qualcuno che era salito sul container.
«In piedi» ordinò quest'ultimo.
I due obbedirono, continuando a fissare quello con lo sguardo folle.
«Voltatevi.»
Di nuovo fecero come era stato detto e scoprirono che alle loro spalle stava un uomo non molto diverso da quello che era entrato dal portone. Questo sembrava più vecchio, a giudicare dalla barba ispida e irregolare che cresceva sulle sue guance.
Si avvicinò a Tess, le prese le mani e le legò i polsi dietro alla schiena con delle corde.
La donna lo lasciò fare come se fosse la sua bambola. Il complice li teneva entrambi di mira e la pistola di Cal non sarebbe servita a nulla, soprattutto dal momento che sapeva che i fratelli Beaver erano tre. In quel momento, infatti, scorse una terza figura nelle tenebre del capannone. Non riuscì a vedere il suo volto, ma le fu sufficiente notare la lucida canna del suo fucile puntato verso di loro.
Quello che sembrava più vecchio, dopo aver legato i polsi di entrambi, spinse Tess sul bordo del container, poi la colpì ancora. La donna perse l'equilibrio e cadde a terra, ma non riuscì a mantenersi in piedi e picchiò le ginocchia sul pavimento.
Riservò lo stesso trattamento a Calvin, facendolo cadere però dalla parte opposta del container.
«Complimenti» esclamò quello con lo sguardo folle. Al contrario del fratello, che aveva un tono profondo, quasi gutturale, questo aveva una voce fastidiosamente nasale.
«Davvero complimenti per il vostro piano ingegnoso» continuò quello.
Tess fissava il pavimento polveroso, incapace di alzare lo sguardo. Cosa pensava di fare? Perché era scappata? Perché si era fatta inseguire? Si insultò mentalmente, presa dal terrore.
«Devo ammettere che ci avete fatto perdere tempo» commentò ancora quello, «ma la vostra fuga è finita.»
«Perché ci avete seguiti?» la voce di Calvin si sollevò nitida contro quella dell'aggressore.
Quello si voltò rapidamente verso l'uomo, come infastidito dal sentirlo parlare.
«Perché siete degli assassini!» gridò lui, balzando verso Calvin.
Tess si sentì gelare il sangue nelle vene, prima di ricordare il loro piano: farli parlare era l'unico modo che avevano per guadagnare tempo e sperare che Harrison li avrebbe trovati.
«E voi cosa siete?» domandò la donna. Le sue parole le suonarono flebili e rotte, ma attirò comunque l'attenzione dell'uomo con la voce nasale.
Quello si allontanò da Calvin e si avvicinò a lei, puntandole contro i suoi occhi da folle.
Tess cercò di sorreggere il suo sguardo.
«Noi non abbiamo ucciso innocenti, ma solo colpevoli. Noi siamo giustiziatori, non assassini» sibilò lui e sputò a terra vicino alla donna, come per sottolineare il suo disprezzo. Lei distolse lo sguardo.
«E come sapete che siamo assassini?» la voce di Calvin riprese la conversazione.
Il folle alzò gli occhi verso il fratello, ancora in piedi sul container. L'altro non parlò, ma il più giovane scoppiò in una risata isterica.
«Come lo sappiamo?» disse. «Come lo sappiamo?» ripeté in tono rabbioso, avvicinandosi a passi lunghi a Calvin.
«Perché non provi ad indovinare, Calvin Ward? A questo punto dovresti saperlo, a giudicare da tutte le ricerche che hai fatto.»
L'uomo accusò il colpo senza replicare, ma non mantenne a lungo il silenzio, perché presto domandò: «Cosa sapete di noi?»
L'altro fece una risata isterica, a cui si unì anche l'altro fratello, quello in piedi sul container.
«Sappiamo che avete ucciso un uomo innocente e suo figlio. Come lo sappiamo? Siete stati voi a dircelo! Sapevamo che la polizia avrebbe cominciato a cercarci dopo aver cominciato a farci giustizia, ma non ci aspettavamo la partecipazione così attiva di due civili. E la visita a casa del caro Calvin Ward ci ha confermato tutto: chi raccoglie tutti quelle informazioni sulla morte di un uomo, se non perché ne è morbosamente ossessionato?»
L'uomo parlava bene, con un tocco di teatralità nella voce, come se si fosse ripetuto il discorso migliaia di volte.
Detto questo, si avvicinò a Tess, che se ne era stata in silenzio per tutto il tempo. La colpì con un calcio, facendola ribaltare a terra.
«E tu, che cos'hai da dire, signorina Graves, eh? Perché non parli?» l'uomo di abbassò, afferrò Tess per i capelli e la raddrizzò,  costringendola a guardarlo negli occhi: «So a cosa stai pensando, Tess. Stai pensando al tuo amato detective, sperando che entri da quella porta e che ti salvi, come ha sempre fatto...ma non succederà, non questa volta, cara Tessie.»
Sentendosi chiamare con quel soprannome, la donna non resistette e gli spuntò in faccia. Di risposta, l'uomo la schiaffeggiò violentemente, facendole sbattere il volto a terra.
«Come osi, cagna?» sibilò, chinandosi al suo fianco. L'afferrò di nuovo per i capelli e le sollevò il capo.
I suoi occhi folli erano fissi in quelli inespressivi della donna.
«Non preoccuparti, il tuo detective non può salvarti, ma sarete presto di nuovo insieme.»
L'uomo la lasciò e Tess si accasciò a terra, stordita dalle sue parole.
«No...» biascicò contro il pavimento polveroso. «No...»
Si raddrizzò, o almeno cercò di farlo come meglio poteva, a causa delle mani legate dietro alla schiena.
«Cosa significa?» gridò in direzione dell'uomo.
Lui fece un sorrisetto divertito, come quello di un bambino dispettoso, ma che, unito allo sguardo folle, gli conferì un'aria terrificante.
«Abbiamo fatto esplodere il detective e i suoi amici come fuochi d'artificio. Non ti sembra una fine originale?»
«No...» gemette Tess, sentendo un improvviso dolore lacerarla dall'interno. «No!» urlò verso l'uomo. La sua sagoma era sfumata per le lacrime che annebbiavano la vista della donna.
«Stai mentendo!» gridò ancora, soffocando i singhiozzi. Non poteva essere altrimenti, Tess ne era certa. Harrison era vivo, riusciva quasi a sentire la sua voce. Sarebbe entrato da un momento all'altro e le avrebbe detto: «Che ne dici di chiamarmi "Principe Azzurro" d'ora in poi? Ti piace l'idea, Tessie Bear?»
«Oh si si si si si» la voce nasale dell'uomo la strappò dai suoi pensieri, «è proprio andata così. Loro si fidavano, si fidavano, e come dei topolini ciechi si sono imbattuti nella nostra trappola.»
Tess boccheggiò, senza fiato.
Non era possibile. Non Harrison. Se n'era andata per proteggerlo, non per farlo...
Davanti ai suoi occhi comparve il volto di Emi. La sua piccola Emi. Non aveva alcun diritto di chiamarla "sua". L'aveva lasciata, l'aveva privata di suo padre. Una nuova fitta di dolore la trapassò e gridò, con tutto il fiato che aveva in gola.
L'uomo con lo sguardo folle si pose davanti a lei, Tess riusciva a vederne gli scarponcini sporchi.
«Spero ti piaccia questa sensazione, Tessie, perché dovrai sopportarla ancora per un po'.»
L'uomo si allontanò e si diresse verso Calvin.
Tess sentiva la sua guancia premuta contro il pavimento freddo e il suo corpo paralizzato accartocciato su se stesso.
Non riuscì a muoversi, quando vide l'uomo con la voce nasale piazzarsi a pochi passi da Cal. Quest'ultimo era seduto a terra, con le braccia dietro alla schiena, ma teneva il mento alto e guardava il suo aggressore.
«Il dolore fisico, be', sì...fa male» cominciò il folle, «ma nulla è paragonabile al dolore di guardare i propri cari morire e non poter fare nulla.»
La sua mano si sollevò. La mano che reggeva la pistola.
«No!» gemette Tess piangendo. «No!»
«Questo è il dolore di crescere senza un padre.»
«No, ti prego...» singhiozzò la donna.
Quello la guardò, con un sorriso vittorioso mai scalfito da alcuna compassione.
«Ascolta, possiamo parlare ancora, no?» tentò Calvin, ormai incapace di nascondere la paura nella voce.
«No» sentenziò Beaver, «è troppo tardi. Questa è la resa dei conti.»
«No!» gridò Tess e la vista le si appannò per le lacrime.
Poi udì lo sparo.
 
 
 
 
 
 
 
 
Ciò che accadde nei secondi, o forse nei minuti successivi a quello sparo, Tess non lo capì con precisione. Sentiva la sua guancia premuta contro il pavimento freddo, un dolore dentro di sé che assordava tutti gli altri e gli occhi pieni di lacrime.
Udì altri spari, dei movimenti confusi e poi qualcuno che la toccava.
Si dimenò immediatamente, furiosa, tirò calci e schiaffi a chiunque si avvicinasse.
Solo in quel momento, però, realizzò che i suoi polsi non erano più legati dietro alla schiena.
Cercò di calmarsi, nonostante i singhiozzi che le facevano tremare il petto e, poco alla volta, la sua vista si fece più nitida.
Era circondata da diverse persone, ma nessuna di loro era un Beaver.
Un uomo le si avvicinò. Indossava un giubbotto anti proiettile nero, con una scritta gialla che recitava "FBI".
La prese per un braccio e l'aiutò ad alzarsi in piedi: «Tess Graves? Sono l'agente Donovan e sono venuto per portarti via di qui.»
Tess si guardò intorno. 
Il capannone era invaso da persone vestite come l'uomo che le stava di fronte. Alcune stavano scattando fotografie al luogo, altre stavano studiando qualcosa steso a terra. Tess impiegò un istante per realizzare che quel "qualcosa", era in realtà un corpo morto in una pozza di sangue.
La donna ribaltò gli occhi e perse conoscenza.
   
 
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