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Autore: Gagiord    17/09/2017    2 recensioni
Il ragazzo s’illuminò, vedendo che mancava solo un pezzo, quello al centro; presto, però, l’espressione gioiosa tramutò in un cipiglio indispettito: l’ultimo pezzo non combaciava. E allora cosa avrebbe dovuto fare?
E, quando, invece, ormai l'unico appiglio alla vita sta cadendo a pezzi, cosa si dovrebbe fare?
«Tu non ti preoccupare» lo rassicurò, arruffandogli i capelli nerissimi, «suona e basta.»
{ musician!AU | tanto angst | KageHina | IwaOi }
Genere: Angst, Introspettivo, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Altri, Shouyou Hinata, Tobio Kageyama
Note: AU | Avvertimenti: Tematiche delicate
Capitoli:
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II Capitolo




Tokyo, 7 aprile 2016, 12:56



Tobio si trovava lì giusto da un paio di minuti. Era nella terza classe, che stava al primo piano, e per sua fortuna l’aula di musica stava tre classi dopo la sua, perciò nemmeno venti metri e poteva avere davanti a sé la porta che avrebbe sicuramente aperto milioni di volte.

Aveva suonato per una mezz’ora buona anche prima delle lezioni: sapeva che il club di musica, in quella scuola, non esisteva più da anni e l’aveva scelta esattamente per quello.

Aveva il violino sotto il mento e le dita affusolate sulle corde anche in quel momento, quando la porta si aprì e non per sua volontà.

Sobbalzò nel sentire una voce acuta giungergli alle orecchie; quella stanza non era completamente insonorizzata, ma un minuscolo effetto doveva pur farlo, per cui qualcuno doveva essere entrato per forza qualcuno.

«T-tu… perché sei qui?»

Tobio abbassò l’archetto e il violino e si voltò verso la persona che aveva interrotto la sua tranquillità.

La prima cosa che vide furono dei capelli di un colore che sembrava impossibile: non era esattamente rosso, tendeva più verso l’arancione. I ciuffi sbarazzini ricadevano sugli occhi color nocciola. Ed era terribilmente, estremamente basso agli occhi di Tobio.

Corrugò le sopracciglia. «Eh?» fece con aria vagamente confusa.

«Kageyama Tobio...» Shouyou si raddrizzò e lo guardò come se, in realtà, fosse un intruso in un luogo sacro. «Perché sei qui?» esclamò scandendo bene le parole di quella che sembrava più un’affermazione che una domanda.

Tobio, come lo squadrò meglio, sgranò gli occhi scuri. «Sei quello dell’anno scorso...» osservò senza nessuna particolare intonazione. «Non ricordo il tuo nome.»

«Sono Hinata Shouyou!» Fece una smorfia infastidita. «E mettitelo bene in testa: anche io userò l’aula musica, che tu lo voglia o meno!»

Tobio ricordava bene la sfacciataggine di quel ragazzo. Ricordava anche la zazzera di capelli ribelli, i suoi occhi pieni di luce e vitalità. Tuttavia, ricordava ancora meglio il suo inimmaginabile talento al pianoforte, la capacità di fare un brano suo e suo soltanto.

«Sei un idiota» sbottò, e lo fece come se fosse un dato di fatto e non un insulto. La linea delle sue labbra, però, era dura.

Shouyou schiuse le labbra e rimase a fissarlo come se avesse appena visto un fantasma per più tempo di quanto gli fosse conveniente. Quando si riprese dallo sbigottimento ‒ chi ha il coraggio di dire: “Sei un idiota” a qualcuno che non conosce? ‒, si fece avanti con capo chino. «Io… ho perso l’anno scorso, è vero!» Sollevò lo sguardo ardente di sfida sull’altro. «Ma ho intenzione di stracciarti, ora! Mi sono allenato un sacco in questi mesi e sono venuto qui proprio per poter continuare a farlo!»

«Anche io.»

Shouyou non comprese subito a cosa si riferisse: se al fatto di poter suonare o di volerlo battere. L’aveva già fatto una volta, dopotutto.

«Anche io sono venuto qui per lo stesso motivo» chiarì Tobio, gli occhi blu ridotti a due fessure. «Proprio perché sapevo che sarei stato solo.»

Il pianista si raddrizzò e lo guardò con autentica curiosità. «Pensavo che uno come te sarebbe andato in un liceo musicale. Sai, no,» fece vagare un po’ lo sguardo per la stanza, «di quelli con l’orchestra enorme, che si esibisce sempre nei teatri più grandi del Giappone...»

La fronte di Tobio si increspò come un foglio di carta. «Non mi hanno preso.»

Shouyou si trattenne a stento dal ridergli in faccia e, anzi, si impose di rimanere composto nei limiti del possibile. «Ma tu sei il “metronomo umano”, il prodigio di cui tutti parlano!» esclamò gesticolando. «Com’è che non ti hanno preso?»

«Non sono affari tuoi.» Così, si girò e si allontanò di qualche passo. Alzò il violino, ma, prima che potesse poggiarvi il mento, lanciò un’occhiata gelida al ragazzo dai capelli rossicci. «E per poter vincere contro di me dovresti diventare un violinista.» Riprese a suonare come se non fosse successo nulla.

«Ah, sì?» Arricciò le labbra, e con passi leggeri raggiunse lo sgabello davanti all’elegante pianoforte verticale, posizionato esattamente alla destra di Tobio. Non era di pelle come quello della sua vecchia scuola, ma il colore che spiccava era sempre il nero, esattamente come quello del piano.

Era vero, non si esercitava per bene da circa un mese. Tuttavia, alcuni bar con dei pianoforti al loro interno distavano al massimo un paio di chilometri da casa sua, e ogni giorno lui era disposto a percorrere qualsiasi strada pur di suonare anche solo per trenta minuti. Ai clienti, di solito, non dispiaceva, e ormai l’anziano e scorbutico proprietario di uno dei locali si era abituato alla sua presenza. Shouyou, per ringraziarlo di quella possibilità che gli era stata offerta, prendeva spesso qualche dolcetto, o anche soltanto una bibita.

Spostò lo sgabello provando a creare meno rumore possibile, mentre ancora Tobio suonava, e si sedette.

Non era un semplice pizzicare di corde. Il violinista stava eseguendo un vero e proprio brano, nonostante non si fosse ancora riscaldato per bene: la Danza Macabra di Camille Saint-Saëns. Aveva già scordato la corda del Mi in Mi bemolle, perciò quella era stata la prima opzione a sfiorargli il pensiero. Richiedeva anche una certa abilità, e questo Tobio lo sapeva bene. La sfida a Shouyou, però, l’aveva lanciata lui, e non poteva permettersi di perdere.

Shouyou non conosceva quel pezzo. O per meglio dire, lo aveva udito più volte nei video che, quando non suonava, vedeva e rivedeva come se ne andasse della sua vita. Non sapeva il suo nome, ma ormai la melodia era impressa a fuoco nella sua mente.

Il pianoforte era vecchio e poco utilizzato, si vedeva; i tasti colmi di polvere e un po’ ingialliti, comunque, non intimidirono il pianista nemmeno un po’.

Aspettò qualche secondo per poter prendere il tempo giusto. Poi, come una reazione a catena, le sue dita premettero i tasti e i martelletti colpirono le corde. Il suono venne fuori, perfetto ed armonioso contro la musica di Tobio.

Nessuno dei due si fermò. La melodia si fece sempre più intensa, come se fosse una gara per decretare il migliore e stessero cercando di superarsi ogni secondo che passava. Il cuore batteva come dopo una maratona interminabile.

A Shouyou tremarono appena le mani. Non suonava da due giorni, e tra l’altro stava andando puramente ad orecchio. Le sue mani erano agili, certo, ma lo sforzo fisico era immane e se riusciva ancora a stare dietro al moro il merito andava attribuito per la maggior parte alla fortuna e alla voglia di vincere quella tacita sfida. La fortuna sapeva tradire e lo spirito combattivo, da solo, non sarebbe mai bastato.

E lo dimostrò la nota successiva, e quella dopo ancora: aveva esitato troppo nel ricordare una nota e un attimo dopo si era trovato rovinosamente fuori tempo.

Non si diede per vinto e Tobio continuò a suonare, sebbene si fosse accorto sicuramente di quell’errore. Con sorpresa di quest’ultimo, Shouyou recuperò in modo quasi inumano.

Non aveva mai sentito né visto nessuno stargli dietro così tenacemente. Il solo fatto di suonare ad orecchio un brano così complicato come quello era ammirevole, ma il violinista aveva saputo di avere la vittoria in pugno sin da quella nota saltata, dopo appena quindici secondi di un testa a testa.

La sua abilità al piano era indubbiamente incrementata, questo il violinista l’aveva notato subito. Ma così pochi mesi non sarebbero bastati a colmare la differenza che li separava.

Aumentò ancora di più la dinamica e, seppur questo volesse dire non seguire più lo spartito ‒ tanto quella sfida vi era già andata oltre ‒, velocizzò di poco il tempo. Le dita cominciarono subito a dolergli, ma non se ne dovette preoccupare per più di tre secondi.

Shouyou perse quel duello. Era andato completamente fuori tempo e il suono del violino aveva sopraffatto quello del pianoforte.

Un pesante silenzio calò nell’aula per qualche attimo.

Tobio fu il primo a muoversi: si girò a guardare le spalle del rosso ancora ricurve sulla tastiera. «Come vedi, non sei l’unico ad essersi esercitato.»

Contrasse le labbra fino a farle diventare una linea sottile. Quel ragazzo aveva vinto contro di lui ancora una volta, e lui non poteva far nulla per la sua carenza di esperienza e tecnica. Tutti quei mesi passati a scuola fino al tramonto erano davvero serviti a qualcosa?

Shouyou si voltò d’improvviso. «Ancora una volta!» disse, gli occhi color nocciola splendenti di determinazione.

Certo che erano serviti a qualcosa. Altrimenti non si sarebbe trovato lì, in quel momento.

Il violinista sbarrò le palpebre, stupefatto, per poi accigliarsi. «Non potresti comunque» obiettò con fare infastidito. «Non hai lo spartito.»

«Mi puoi dare il tuo.» Scrollò le spalle, come se fosse ovvio.

Tobio fece una smorfia e fece due passi avanti. «Quello è per il violino, idiota!»

Shouyou gonfiò le guance come un bambino che fa i capricci, continuando a fissarlo con quei suoi occhi enormi e profondi che sembravano sempre chiedere qualcosa. Stette un po’ in silenzio, ma poi, con voce squillante, aggiunse: «Non possiamo fare come prima? Io ho suonato senza spartito!»

«E infatti», accennò un ghigno, «hai perso dopo nemmeno un minuto.»

Il ragazzo lasciò nuovamente che un cipiglio mostrasse la sua stizza. «Ma ti ho tenuto testa per quei pochi secondi.»

Tobio incatenò i suoi occhi seri a quelli dell’altro. «Poco importa» decise, ma Shouyou non percepì alcuna nota di scherno. «Solo chi suona fino all’ultima nota vince. E solo uno può vincere.»

Il suono della campana che segnava la fine della prima metà della pausa e il brontolio dei loro stomaci lasciarono albergare quella convinzione assoluta nella testa di Tobio.

Ma si sa: ogni persona cambia, e con lei le sue idee.


Tokyo, 7 aprile 2015, 15:00


Shouyou aveva già buttato tutto nello zaino prima della conclusione ufficiale delle lezioni, ma nessuno aveva avuto da ridire. Era solo il secondo giorno di scuola, con insegnanti e compagni estranei, e le novità erano troppe perché avessero già iniziato il programma.

Si era dondolato per cinque minuti buoni sulla sedia, fremendo per uscire e andare in aula musica ‒ preferibilmente prima di quell’antipatico di Tobio. Non sapeva in che classe si trovasse ‒ se fosse stata la quarta o la quinta, che stavano al piano di sopra, lui avrebbe sicuramente avuto un grande vantaggio ‒, ma ciò non lo avrebbe frenato di certo.

Quando la campanella suonò, non esitò un attimo. Afferrò la cartella con una mano e salutò frettolosamente tutti, per poi sfrecciare nel corridoio per raggiungere la porta senza alcuna indicazione sopra di essa.

Peccato non avesse notato una figura che gli venne quasi addosso.

Toccarono la maniglia nello stesso momento e nello stesso momento sollevarono gli occhi sui rispettivi visi. Sembrava quasi una scena di un film, detta così, ma in quegli sguardi non ci fu niente di romantico né tantomeno sentimentale: da disorientati e confusi, i due ragazzi passarono a guardarsi in cagnesco.

«Ma ora non puoi andare a suonare a casa?» chiese Shouyou con tono indispettito, aprendo la porta ma non smettendo di giocare a quella sfida di sguardi.

«Perché invece non ci vai tu?» abbaiò. Tobio non si tirò indietro a quell’ennesima competizione. Fece per entrare nell’aula di musica prima di lui, ma gli occhi d’ambra che si abbassarono lentamente lo fecero ricredere.

«Perché non potrei farlo.» Si morse il labbro e, con lo sguardo ancora rivolto a terra, non si accorse di quello limpido e curioso del violinista. Non prolungò, però, la sua perdita ulteriormente: riprese a guardarlo, ma senza nessuna intenzione provocatoria. «Suonare, intendo.»

La sua espressione aveva parlato ancora prima della sua voce. Tobio la conosceva benissimo: era contrita, quasi angosciata. Alcune immagini di sua madre in atteggiamenti naturali come cucinare o accennare qualcosa al piano gli attraversarono la mente. Non era la prima volta che accadeva. Non volle approfondire, non erano cose che gli sarebbero dovute interessare.

Annuì una volta sola, col volto disteso e non con quel solito cipiglio ad aggrottargli le sopracciglia. Poi si voltò sotto gli occhi perplessi di Shouyou e prese a camminare.

«Ma dobbiamo metterci d’accordo sulla pausa!» gli urlò dietro il pianista.

Tutto ciò che fece Tobio fu annuire nuovamente e proseguire.



Un lato era cambiato.

Ricordava benissimo quel pezzo, lo aveva rigirato tra le dita decine e decine di volte.

Lo toccò con malcelata titubanza, sperando che fosse finalmente diventato come tutti gli altri. Tutti gli altri erano letteralmente un trionfo di emozioni, di immagini e di passioni che, in un modo o nell’altro, facevano parte della sua vita.

Ma quella parte era sempre stata vuota come un guscio che deve ancora essere abitato. Era avvilente, stancante, perché svuotava anche lui di tutta la sua euforia.

Quando, però, il viso di Tobio gli si parò davanti agli occhi, pensò con un broncio che quello doveva il pezzo degli antipatici.


Tokyo, 8 aprile 2016, 7:35


Contrariamente a ciò che si poteva pensare vedendolo, a Tobio non piacevano solo le melodie cupe e ostiche. Anche il solo pizzicare le corde e il suono frammentato che questo generava lo rilassavano. E persino il solfeggio non dispiaceva a uno come lui, che non sopportava stare fermo.

Tutto ciò che la musica implicava era quasi sacro, per Tobio, che fosse l’esibirsi davanti a un pubblico o lo studiare uno spartito, ripetere le sue note fino alla nausea, conoscerlo così bene da poterlo fare proprio.

Per questo, chiunque non si impegnasse suscitava uno strano fastidio che strisciava sotto pelle, come se fosse un serpente intento a osservare la preda e pronto ad aggredirla appena avesse fatto un passo falso. Non aveva nulla contro chi, al contrario, era ancora alle prime armi e poteva ‒ ma soprattutto voleva ‒ ancora migliorarsi.

La voglia di migliorarsi e di vincere ‒ e non per qualcosa che non fosse la vittoria in sé ‒ l’aveva notata eccome, in Shouyou. Eppure quel ragazzo lo irritava oltre ogni limite e non era ancora riuscito a capirne il motivo.

Non che ci avesse pensato troppo, certo. Shouyou Hinata lo irritava e basta.

E la porta che si spalancò di scatto mentre lui si allenava lo confermò.

Il sole si era alzato da dietro l’orizzonte già da un paio d’ore, i suoi raggi ancora deboli inondavano dolcemente la stanza di luce. Tobio non ebbe problemi a riconoscere prima la sua voce e poi la sua figura esile.

«Di nuovo tu?» si lagnò il più basso, mettendo piede nell’aula.

Shouyou si guardò attorno solo in quel momento. Non c’era poi molto da guardare, in realtà: l’area era abbastanza grande, intorno ai venticinque metri quadrati, e il fatto che fosse quasi totalmente spoglia non faceva altro che renderla più immensa all’occhio esterno. Il bianco sporco delle mattonelle in granito del pavimento contribuiva ancor di più; a Shouyou ricordavano tanto quelle degli ospedali. Dalla parte del muro più corta, a destra dell’entrata e lontano dai raggi solari, si stagliava un pianoforte verticale, ancora non spolverato, mentre agli angoli erano ammassati banchi, sedie e leggii.

Ma una cosa gli piaceva più di tutte, e si notava subito, appena entrati: le finestre. Erano due, larghe e alte, occupavano circa metà della parete opposta alla porta, e davano sul cortile posteriore della scuola; di mattina il sole non si poteva vedere perché erano posizionate ad ovest, ma il tramonto era uno spettacolo senza prezzo.

Shouyou odiava il tramonto. L’aveva sempre visto come il colpevole della fine dei suoi allenamenti, che, se fosse dipeso da lui, si sarebbero potuti protrarre all’infinito. Il giorno prima, quando aveva visto quella sfera di fuoco tingere di mille sfumature di rosso il cielo di Tokyo, aveva pensato che forse da quel momento in poi non sarebbe stato così sgradevole.

«Voglio dire,» ciancicò poi, risentito, «perché non poteva esserci qualche persona più simpatica a suonare di prima mattina?»

Le guance di Tobio si colorarono lievemente di rosso, ma l’altro non fu capace di spiegarsi la causa. Poi avanzò, passando il violino nella mano in cui teneva l’archetto, e prendendolo per il colletto lo strattonò. «Che vorresti dire?» strillò, ancora imbarazzato.

Shouyou, se avesse potuto, sarebbe andato in bagno per la paura. Non trovava il motivo di prendersela tanto per un commento del genere; dopotutto, lui l’aveva insultato più e più volte!

Lo lasciò andare quasi subito senza nemmeno provare a sfiorarlo, per poi allontanarsi e dargli le spalle. «Si può sapere che diamine vuoi?»

«Suonare, ovvio!» Il pianista accennò un sorriso e, con passo deciso, giunse davanti allo strumento.

Tobio si voltò di nuovo, frustrato. «Ma non puoi farlo a casa?»

Shouyou storse la bocca come se avesse appena sentito qualcosa che conosceva a memoria. «Ti ho già detto di no!» Gli indirizzò un’occhiataccia da sopra la spalla.

Sbuffò tutta l’aria che aveva nei polmoni il più rumorosamente possibile. «Ma perché?» s’informò, moderando appena i toni.

«Perché non ho un pianoforte.»

Tobio, per un attimo, prima che l’altro gli desse di nuovo le spalle, rivide la stessa espressione del giorno precedente. Quella quasi addolorata, come se gli mancasse qualcosa. Ora sapeva cosa, ma lui, in ogni caso, cosa poteva fare? Provò ad immaginare casa sua senza il violino, il leggio e i mille libri di musica sparsi dappertutto; per poco non gli vennero i brividi. Sarebbe stata un corpo senza anima.

Gli rivolse uno sguardo grave, e così fu la sua voce. «Suoni da tre anni, no?»

Shouyou fece sì col capo, ma insisté a non guardarlo. Le piccole labbra rosee si erano ridotte a una linea finissima, gli occhi inchiodati in un punto a caso del muro sporco di muffa e polvere.

Tobio tentennò un poco prima di porgli un’altra domanda. Forse non era la persona più simpatica e affettuosa del mondo, tuttavia era in grado di fermarsi quando stava per urtare la sensibilità di qualcun altro. L’aveva imparato a sue spese. Inoltre, lui non aveva nessun diritto né di chiedere né di sapere: si conoscevano a malapena e i loro pochi incontri non erano stati troppo amichevoli.

Poi esalò un sospiro rassegnato. «Senti...» Shouyou si voltò di scatto, segno che lo stava ascoltando. «Non avrebbe senso ritornare a casa a quest’ora», il suo sguardo vagò per la stanza fino a riconoscere un orologio analogico a muro giallo limone, «perciò dobbiamo trovare un accordo.»

Il rosso si stupì: non sembrava il ragazzo da cercare accordi. Piuttosto, si aspettava che l’avrebbe buttato fuori a calci. «Va bene» esclamò, annuendo vigorosamente.

Tobio arricciò il naso: l’aria pensierosa che lo aveva circondato qualche attimo prima pareva magicamente svanita. Si mosse verso l’estremità sinistra dell’aula, sollevando un reggispartito di acciaio laccato in nero, un po’ rotto, e posizionandolo al centro, a qualche metro dal piano. «Quindi?» fece dopo aver sostenuto un gioco di sguardi con l’altro per dieci secondi, un sopracciglio alzato. «Qualche idea?»

Shouyou si sedette sullo sgabello, alzando le spalle. «Possiamo suonare insieme» propose con il tono di chi lo conosceva da anni.

Il violinista si accigliò, ma poggiò ugualmente lo strumento sulla spalla. «Non sei nemmeno lontanamente vicino al mio livello» replicò lui freddo, austero. «E poi chi te lo dice che abbiamo gli spartiti degli stessi brani?»

Si era imbronciato un secondo alle parole del più piccolo, ma alla domanda rispose con un sorriso smagliante. «Suono ad orecchio!» confessò con orgoglio. Sapeva che non era per niente facile e, nonostante tutto, seppur con melodie semplici, lui ci riusciva. Di certo sbagliava ‒ e neppure troppo raramente ‒, però era normale, no?

Il suo mento per poco non toccò il pavimento. Ecco, si disse, perché l’anno precedente l’aveva sentito allontanarsi dalla partitura: non l’aveva seguita dapprincipio. Si chiese ingenuamente perché, dato che almeno lì, durante l’esibizione, la aveva praticamente spiaccicata in faccia. Magari era questione di abitudine… ma ciò non rese meno seccante la notizia.

Poi un’idea molesta gli trillò in testa come una campanella. Si chinò sulla sua borsa, frugò un po’ e ne tirò fuori un mattone vecchio, con su scritto: “Rachmaninoff”.

Shouyou non riuscì a leggerlo, mentre allungava il collo per capire cosa l’altro volesse fare.

Poi lo aprì sul leggio. «Forza, suoniamo» ghignò. Alzò l’archetto fino a che esso non toccò le corde, sfiorando col mento la mentoniera.

Shouyou strabuzzò gli occhi e li sbatté un paio di volte prima di metabolizzare bene l’invito a quell’ennesima sfida. «Aspetta!» Si alzò di scatto. «Non conosco mica tutti i brani del mondo!» pigolò gesticolando.

«Vediamo se conosci questo, allora.» Prese posizione e, con lo sguardo fisso sullo spartito, iniziò.

Era indubbiamente in vantaggio, Tobio lo sapeva. Ma la vittoria non sarebbe stata soddisfacente se ne avesse scelto difficile; insomma, già il rosso doveva ascoltare bene le note, adattarsi al tempo e suonare. E, naturalmente, doveva anche averne la piena conoscenza.

Lui, contro ogni aspettativa del violinista, ghignò a sua volta. Fece il giro della sedia, lentamente, e si mise a sedere con un’eleganza che dimostrava di rado.

La decisione che Tobio aveva fatto non poteva essere migliore. Il moro ovviamente non poteva prevedere che l’amore dell’altro per tutte le composizioni di Rachmaninoff era spropositato.

Shouyou ricordava di aver sentito lo stomaco attorcigliarsi, il rumore del sangue pompato nelle orecchie e un groppo in gola, la prima volta. Al tempo non aveva potuto immaginare che avrebbe provato quelle sensazioni ogni qualvolta avesse udito i pezzi di quell’autore. Era grazie al suo arrangiamento de La Gioia di Amare di Kreisler se era entrato in quell’enorme e affascinante universo.

Non c’era un solo suo brano che non conoscesse; senza dubbio non li sapeva tutti a memoria, ma Tobio lo aveva aiutato non poco, forse inconsapevolmente. Il Preludio in fa diesis minore Op.23 n.1 l’aveva suonato centinaia di volte, principalmente perché era semplice abbastanza per il suo livello e perché con ogni probabilità era l’unico in cui riusciva a premere cinque tasti di fila senza andare nel pallone.

Le prime volte aveva provato solo con gli accordi della mano destra, che si erano dimostrati più difficili e veloci di quanto avesse immaginato. Poi, dopo un po’ di pratica e la consapevolezza di essere migliorato, era passato a quelli della mano sinistra, che servivano ad accompagnare. In questo caso aveva impiegato molto meno tempo; quando, però, si era deciso a suonare finalmente con entrambe le mani, la testa gli si era fusa come ghiaccio al sole. Piano piano, con una caparbietà che faceva in tutto e per tutto parte della sua persona, aveva imparato a premere i tasti con più disinvoltura, senza il bisogno di guardare il suo cellulare ogni dieci secondi per vedere se quello che stava suonando fosse quello giusto. Non senza errori, vero, ma esserci riuscito era appagante ed elettrizzante come poche cose. Anche ora vi dedicava almeno un quarto d’ora al giorno: era magico anche solo sapere di eseguire un pezzo di Rachmaninoff.

Di quello, sì, lo poteva dire: era a conoscenza di ogni sfaccettatura, di quando doveva aumentare o diminuire la dinamica, di come fare pressione sulla tastiera e sui pedali.

Sorrise e agì allo stesso modo di qualche mese prima, come se stesse rivivendo quei momenti di totale immersione nella musica. Esordì con la melodia principale, la mano destra che già volava.

Tobio gli lanciò una fugace occhiata sorpresa. Era partito senza alcuna esitazione e praticamente subito. Comprese altrettanto rapidamente che non stava accompagnando proprio nessuno: quella era la versione originale, da solista.

Come biasimarlo, d’altronde? Era abituato da sempre a suonare solo, senza neanche un insegnante, e l’unica volta in cui aveva cercato di accompagnare qualcuno non era finita meravigliosamente.

Ma questo Tobio non lo sapeva. Con lo sguardo fisso sulle pagine colme di note, spostò le dita sulle corde e l’archetto tra le mani. Non avrebbe potuto smettere comunque: quella era una sfida.

Gli attimi passavano velocemente, ma entrambi avrebbero saputo descrivere ogni emozione, per filo e per segno.

Shouyou, dopo venti secondi, era già sull’orlo delle lacrime: non ci poteva fare nulla, suonare quel pezzo lo emozionava sempre. Sentiva il cuore in gola e il suo rumore irregolare scuoterlo troppo spesso, esattamente come era successo il giorno prima. Quella volta, però, batteva all’impazzata a causa della perenne paura di sbagliare di nuovo e che Tobio gli dicesse di interrompersi; ora invece provava qualcosa di più grande, più tranquillo, come se si trovasse davanti a una tigre che non mangia da giorni e che, ciononostante, gli andasse bene così, perché sarebbe stato capace di domarla.

Tobio preferì non farsi domande, non mentre suonava. Lo avrebbero solo distratto.

Ancora qualche secondo e Shouyou mise in moto anche la mano sinistra, spostandola decisamente meno freneticamente e facendole compiere movimenti più dolci.

Il moro aggrottò le sopracciglia e si permise di guardare di nuovo il ragazzo. Era vero, non se l’aspettava: non aveva mai dimostrato queste capacità, dopotutto. Ma lui non aveva di certo intenzione di perdere.


Erano passati più di tre minuti da quando avevano cominciato. Il sudore di Shouyou si confondeva con le lacrime, tuttavia lui non si scompose nemmeno leggermente. Stava suonando al massimo e non poteva chiedere di meglio.

Se non fosse stato per il suo incrollabile orgoglio e la sua spaventosa concentrazione, Tobio sarebbe stato già boccheggiante, sia per la fatica emotiva sia per quella fisica. Quella situazione stava divenendo sfiancante, ma non di certo per la composizione: era la competizione con il rosso e con se stesso che lo spingeva a superare ogni suo limite. Pensò che sarebbe stato bellissimo e al tempo soffocante se quei pochi minuti si fossero prolungati nell’eternità.

A qualche secondo dal termine si accorsero che, in teoria, nessuno dei due aveva ancora vinto. E benché fossero talmente delicate da risultare a malapena udibili, nelle ultime note abbandonarono se stessi e ad entrambi si strinse il cuore. Fu come conoscersi da una vita e voler scoprire ancora di più.

Il silenzio non era pesante, né imbarazzante o fastidioso. Non era nemmeno assoluto: Shouyou poteva sentire i respiri di Tobio anche a quella distanza e viceversa.

«È un pareggio» soffiò il pianista, ancora con le mani sulla tastiera e gli occhi arrossati dalle lacrime.

Tobio lo osservò, il violino sulla sua spalla, e solo dopo mormorò un «Sì» incredulo. «Lo conoscevi bene» aggiunse, sospirando appena.

«Era Rachmaninoff.» Lo disse come se fosse una spiegazione scontata.

«Sì» ripeté in un sussurro.

Seguì un’elettrica staticità: sembrava che volessero riprendere a suonare e contemporaneamente urlarsi contro.


Tokyo, 8 aprile 2016, 12:46


Si scorsero nello stesso momento. E, per quanto pericoloso fosse tra i corridoi colmi di studenti, non riuscirono a evitare di notare anche la combattuta porta beige e di correre verso di essa con tutte le proprie forze. La distanza era su per giù la stessa da entrambe le parti: nessuno dei due poteva dire di essere partito in vantaggio.

Certo, a parte Shouyou, che si era avviato un secondo prima ‒ un secondo che faceva la differenza ‒ e che, quindi, si appoggiò per primo allo stipite per un pelo.

Sul suo viso sbocciò un arrogante sorrisetto vittorioso. «Ho vinto io!»

Tobio gli ringhiò contro e lo guardò in cagnesco, il cuore che batteva un po’ più velocemente del normale. Poi spalancò l’ingresso con veemenza, la custodia del violino in spalla, e si intrufolò impettito.

Era tutto come l’avevano lasciato quella mattina: un leggio al centro della stanza, una sedia circa un metro più in là, lo sgabello storto lontano dal pianoforte, le finestre aperte da cui entrava una piacevole frescura. Non si erano detti nulla, dopo quel breve scambio di battute. Erano stati immobili per un quarto d’ora, fino al suono della campana, e lanciandosi appena un’occhiata erano schizzati fuori dall’aula. Peccato che Tobio avesse dimenticato la borsa sulla sedia e fosse dovuto tornare indietro.

«Ehi, Kageyama!» lo chiamò Shouyou con un gran sorriso, mentre entrava e si dirigeva al piano. Lui si girò ma non disse nulla. «In che classe vai?»

«Che t’interessa?» masticò a mezza bocca, voltandosi di nuovo e aprendo la custodia.

Il rosso sbuffò e brontolò qualcosa, poi si lasciò cadere sul tessuto nera della sedia a gambe incrociate. «Io sono nella prima!» Si dondolò un po’. «Ci sono un sacco di ragazzi simpaticissimi! Dovresti conoscerli, magari ti toglierebbero quel broncio spaventoso dalla faccia...» Un’occhiata bieca di Tobio bastò a farlo zittire.

«Che diamine vuoi e perché sei qui?» Prese la colofonia e iniziò a passarla sui crini dell’archetto, tentando in tutti i modi di non lanciarla in faccia al quindicenne.

«Ma sei sordo?» disse Shouyou ironico, per poi alzarsi nuovamente e avvicinarsi al ragazzo più alto, guadagnandosi un altro sguardo torvo. «Ti ho detto che voglio suonare!»

Il violinista storse la bocca. «Per forza quando lo faccio io?»

«Guarda che sei l’unico che si sta facendo problemi.» Sbirciò da sopra la sua spalla per vedere cosa stesse facendo, socchiudendo la bocca lievemente meravigliato. «Comunque» riprese con tono offeso «l’aula musica è solo una, io posso suonare solo qui e tu non puoi andare a casa durante la pausa.»

Tobio lo squadrò per qualche attimo, volgendo solo la testa. «Dobbiamo trovare un accordo» concluse, decidendo di aver finito con la colofonia e riposandola.

«Io te l’ho detto: per me possiamo anche suonare insieme. Tanto non sono più di venti minuti e tu hai suonato un sacco di volte con degli accompagnatori.» Fece una pausa. «Chissà quanti ne avrai cambiati con la tua antipatia...» parlottò, prendendo a camminare un’altra volta verso il piano.

Se fosse dipeso da Tobio, in realtà, avrebbe suonato da solo per sempre. Ma la sua vecchia scuola non si era trovata d’accordo: il club di musica era uno dei migliori delle scuole medie di Tokyo. E seppure fosse già stato appurato che fosse un prodigio, dopo diverse esibizioni non gli era stato più permesso di suonare nell’orchestra della scuola. Uno degli insegnanti lo aveva allenato in disparte, con altri ragazzi che avevano scelto la strada da solista. Allora si era ripromesso che, una volta giunti i diciannove anni e la possibilità di suonare nella classe senior, avrebbe suonato da solo, senza neppure l’accompagnamento.

«Sei una palla al piede» lo aggredì, facendo una smorfia ed estraendo il violino e un libro ingiallito.

Con Shouyou era diverso. Era insopportabile, su questo non aveva dubbi, però… con lui, la voglia di suonare aumentava e basta. L’ultima volta aveva eseguito il brano decentemente. Non quanto lui, certo, ma gli errori di tempo e di dinamica erano stati impercettibili, e a differenza del giorno precedente non aveva sbagliato nessuna nota ‒ non gli avrebbe fatto nessun complimento, naturalmente. Tuttavia, più di tutte le sue discutibili abilità, lo aveva colpito la totale fiducia che aveva nella musica e nel pianoforte. Infondeva tutti i suoi sentimenti in ciò che suonava; Tobio poteva quasi sentire tutto il suo spirito combattivo urlare ed essere rumoroso esattamente come lui.

«Ci riesci a stare qualche secondo senza insultarmi?» rispose Shouyou a tono, indignato. Si sedette e stavolta diede anche lui le spalle al moro.

«Non è colpa mia se sei uno stupido.» Pose il libro sul leggio e fissò una pagina, poi sollevò il violino e lo adagiò sulla clavicola.

«E magari ti aspetti anche che ti dia ragione!» Sbuffò, ma tornò di buon umore appena vide la tastiera sotto di lui. «Allora, che suoniamo?» fece concitato, girandosi per guardarlo. «Hai qualcos’altro di Rachmaninoff?»

«Ho più di dieci libri di Rachmaninoff, a casa.» L’altro s’imbronciò. «E in ogni caso prima si fanno le scale, idiota» puntualizzò.

«Scale?» chiese il pianista come se non ne avesse mai sentito parlare. «Non servivano solo ad imparare le note e ad accordare gli strumenti?»

Tobio sgranò gli occhi, scandalizzato. Ebbe, per l’ennesima volta, l’irrefrenabile voglia di buttargli addosso qualsiasi oggetto contundente avesse a portata di mano. «Ma sei deficiente?» tuonò, puntandogli l’archetto contro. «Le scale sono le basi della musica! Sono fondamentali, ti preparano a movimenti più difficili e rendono le dita diecimila volte più agili!»

Shouyou parve colpito da quello scoppio improvviso. «Ma sono noiose...»

Scelse una di quelle più semplici, che si imparano giusto dopo qualche mese: quella in Sol maggiore. Ci era abituato, la faceva ogni giorno da quasi un decennio. Finì in pochissimo tempo per quanto rapidamente la eseguì, dando a malapena il tempo a Shouyou di spalancare le labbra.

«Dato che sono così noiose, perché non ci provi anche tu?»

Il rosso si concesse un risolino nervoso. «Saranno diverse per pianoforte, come gli spartiti...»

Tobio depositò con garbo il violino e l’archetto nella borsa di spugna rossa ancora aperta. Poi, con poche e grandi falcate, raggiunse l’altro alla sua sinistra e si abbassò abbastanza per toccare i tasti.

«Che stai facendo?» Notò che il suo fianco gli sfiorava la spalla, così scivolò a destra, sgabello compreso.

«Sta’ un po’ zitto!»

Optò ancora una volta per quella in Sol maggiore. Dovette farla di un’ottava più bassa per impedirsi di spiaccicarsi addosso al ragazzo. La fece a due mani e terminò quasi con la stessa velocità con cui l’aveva suonata col violino, le dita lunghe che si muovevano come se fosse la cosa più semplice e naturale del mondo. Ancora una volta Shouyou non riuscì a non restare attonito da tanta maestria.

Il violinista si raddrizzò e le sue labbra si piegarono in un ghigno sfacciato. «Su, provaci tu» incalzò con l’aria di chi sa di avere già vinto.

«Suoni anche il piano?» Shouyou, però, non lo stette a sentire.

Tobio scrollò le spalle con nonchalance. «Ovvio.»

«Mica tanto» brontolò arricciando il naso e tenendo gli occhi bassi sui pedali. Poi lo guardò di sottecchi. «In pratica sarebbe ovvio se io suonassi il violino, allora...»

«No,» disse tornando al centro dell’aula, «perché sei un idiota.»

Il pianista gonfiò le guance indispettito. «E tu sei insopportabile!»

«Come te!»

Shouyou fissò i tasti con stizza. Provò a mettere il pollice sul Sol centrale ma, dopo averlo pigiato e aver continuato con le altre quattro dita, si bloccò: non sapeva più come continuare. Tobio gliel’aveva mostrato, ma aveva a malapena visto i suoi polpastrelli toccare la tastiera. Era stato troppo rapido perché lui imparasse anche solo con gli occhi.

«Idiota...» Tobio non lo aveva visto, tuttavia si aspettava un errore del genere. Riprese in mano il suo strumento. «Ascolta bene di nuovo e prova a rifarla. Non hai sette dita, perciò vedi di trovare una soluzione!»

Strinse le labbra: il giovane aveva ragione, ma non gli avrebbe mai dato una soddisfazione del genere. Guardò le sue dita per un istante, poi, come sentì la melodia allegra, tornò con lo sguardo sul violinista. Accadde di nuovo tanto velocemente che registrò appena le note. L’unica fortuna era che, dopotutto, si trattava comunque di una scala: andava dal Sol al Sol, e di certo non si dovevano fare salti mortali.

Il moro lo affiancò di nuovo mentre Shouyou fece nuovamente aderire il pollice al tasto.

Sentiva un po’ di pressione ad essere osservato e giudicato in quel modo, non lo poteva negare. Era abituato a suonare da solo o al massimo con Izumi o qualche altro suo amico attorno, ma loro non se ne intendevano e si complimentavano indipendentemente da cosa faceva.

Sino al Re eseguì la scala con le cinque dita; poi, non trovando alternative, spostò la mano e concluse col medio. Nemmeno un secondo dopo qualcosa di duro gli colpì la nuca. «Ahi!» strepitò, portandosi le mani alla parte interessata e reclinando la testa indietro per vedere degli occhi blu che lo scrutavano con fastidio e sufficienza. «Perché l’hai fatto?»

«Perché, oltre ad essere un idiota, sei anche impedito!» gridò a sua volta Tobio, picchiettando un dito sulla sua fronte. «Ti ho detto di trovare una soluzione, non di rallentarti ancora di più!»

«Ma io che ci posso fare?» gemette Shouyou, storcendo la bocca. «Non sono mica nato riuscendo a suonare, che so, Mozart! Non ho mai fatto le scale, quindi non lo posso sapere!»

Il moro sbuffò e, mormorando un «Ma ti si deve insegnare tutto?», si chinò, ripetendo la stessa azione di qualche minuto fa ma più lentamente. Shouyou notò che le prime tre note le suonava con il pollice, l’indice e il medio, per poi ricominciare col pollice e tornare indietro.

Pollice, indice, medio, pollice, indice, medio, anulare, mignolo. Se lo disse e ridisse come se fosse una nenia.

Appoggiò il polpastrello al tasto, le sopracciglia corrugate per la concentrazione. Con molta più lentezza, ma se la cavò ‒ o almeno così credette. Finché non avvertì un altro scappellotto in testa. Si girò con impeto e gli indirizzò un’occhiataccia rabbiosa, tirando pugni a vuoto, poiché Tobio si era già spostato e le sue braccia erano troppo corte. «La vuoi finire?» esclamò esasperato.

«Ma se tu non mi ascolti!» ribatté il violinista a voce altrettanto alta. «Te l’ho anche fatta vedere, idiota! Suoni ad orecchio e non sai distinguere il Fa dal Fa diesis

Il viso di Shouyou si tinse di una decina di smorfie incomprensibili: ancora una volta, Tobio aveva ragione. Si era concentrato troppo sul movimento delle dita e si era affidato come sempre al suo udito per la natura delle note. Buttò fuori un «Uffa!», ma subito ci riprovò. Soffermandosi sul cambio del pollice e del medio e raggiungendo a fatica il tasto nero per era appena stato rimproverato, ci riuscì. Non importava quanto poco svelto fosse stato, ci era riuscito e tanto bastava a fargli gettare un urlo eccitato.

Si voltò verso il ragazzo dietro solo per trovarlo a ridere sotto i baffi. «E ora che hai da ridere?»

Tobio lo guardò con scherno. «Hai le dita piccolissime! A stento arrivi ai diesis e bemolle!»

Shouyou arrossì, colpito nell’orgoglio. «Non è colpa mia se sono nato così!» balbettò, cercando nuovamente di mollare qualche pugno nella pancia dell’altro, sbilanciandosi però troppo e rischiando di cadere.

«No, almeno questo no» gli concesse coi lineamenti più addolciti. «Però di solito i pianisti hanno le dita lunghe… Magari avresti più successo con la batteria.» Ci pensò un attimo e l’aria altezzosa riapparve. «Ma faresti schifo anche con quella, figuriamoci!»

«Cosa c’entra adesso?» sbottò Shouyou con il tono di chi sta per scoppiare. «Le mie dita saranno piccole, ma sono veloci!»

Non poteva dargli del tutto torto: aveva suonato un pezzo, seppur uno dei più semplici, di Rachmaninoff, e per giunta senza la partitura davanti. «Resti un incapace» disse comunque.

Il pianista ringhiò, frustrato. «Tra poco quel violino te lo sbatto in testa!» Non si accorse del lampo di orrore negli occhi di Tobio. «E poi» proseguì, il tono più pacato ma pieno di fierezza, «mi stai insegnando le scale! Significa che vedi del talento in me.» Fece un sorrisetto gongolante e alzò il mento.

Tobio sbarrò le palpebre, ma si costrinse a non farlo almeno con la bocca, già dimentico di ciò che aveva detto prima il quindicenne. Era vero? Riconosceva del talento in lui? Certo, pensò, ma non pensava fosse così lampante. In realtà, non sapeva nemmeno lui perché gli stava mostrando le scale come se fosse una questione di vita o di morte.

Perché ha detto un mucchio di cazzate, si rispose istintivamente.

Qualche istante dopo si riebbe dal momentaneo smarrimento. «In te vedo solo idiozia! E io non ti sto insegnando un bel niente, ti sto facendo capire che le scale sono molto più importanti di quanto pensi!» Shouyou schivò per poco un altro pugno. «Se proprio avessi voluto insegnartele, sarei partito da quella del Do, imbecille.»

S’indispettì, ma non replicò al colpo dell’altro. «Ma prima hai suonato con me e ti ho tenuto testa!» Incrociando le braccia al petto, si rese conto che la persona con cui stava parlando non era una qualunque: l’anno scorso aveva gareggiato fino ai regionali del torneo e, per di più, non aveva mai perso un concorso. Sorrise. «E abbiamo pareggiato! Quindi non sono poi così tanto più scarso di te.»

Tobio lo fissò con ira e, al tempo stesso, determinazione. «Fino a prova contraria, ho vinto io sia l’anno scorso che ieri.» Si voltò e camminò fino al centro della stanza. «Quella di ieri pomeriggio sarà stata solo fortuna!» sibilò mentre sistemava il violino e l’archetto dentro la borsa.

Shouyou inclinò la testa da un lato, curioso. «E adesso che fai?»

«Me ne vado a suonare sul serio! Qui perdo solo tempo.»

«Ti hanno mai detto che sei odioso?» sbraitò alzandosi improvvisamente e stringendo i pugni. «Qualunque accompagnatore riesca a sopportarti è un santo!»

Tobio chiuse la zip della custodia nera con uno scatto violento, riversando tutta la rabbia nei suoi gesti. Le ultime parole del pianista lo inquietarono e innervosirono ancora di più. «Suono da solo, non ho bisogno di nessun accompagnatore!»

«Perciò non parteciperai al torneo di quest’anno.» Shouyou contrasse le labbra: meglio star zitto che dire qualcosa di cui avrebbe potuto pentirsi. Quelle poche volte in cui perdeva le staffe ne diceva sempre, di cose del genere.

«Perché, tu sì?» Sogghignò a denti stretti, quasi gli facesse pena, e si mise la borsa in spalla. «Ti ricordo che è per violinisti e per pianisti.»

Il rosso lo guardò come se avesse detto una cosa e poi fatta una totalmente diversa. «Dovresti ricordartelo anche tu! Oppure farai concorsi a pagamento? Ah, ecco perché vinci sempre!»

Voilà: era successo. Fu anche più velenoso di quanto si aspettava. Non sembrava nemmeno averle dette lui, quelle parole: non era un ragazzo che si arrabbiava spesso, o almeno non seriamente. Era gentile e dolce con tutti, e a stento riusciva a dimostrarsi sarcastico, figurarsi acido o rancoroso. Non si sarebbe mai sognato di parlare in questo modo a qualcuno.

Nonostante se ne fosse pentito subito dopo averle sentite scivolare sulla lingua, la collera e l’orgoglio erano troppi affinché si scusasse.

Lo sguardo di ghiaccio di Tobio divenne mare in tempesta. Fece appena tre passi per raggiungerlo e lo prese per il colletto, ma non alzò l’altra mano per colpirlo. Incatenò gli occhi a quelli d’ambra dell’alto, che al contrario sembravano fuoco divampante. «Io vinco sempre e in ogni caso

Benché fosse in una posizione scomoda e sconveniente, non osò abbassare lo sguardo. Non ribatté: lo osservò lasciarlo e andarsene, sbattendo la porta con impeto.

Il suono della campana fece sgusciare via tutta la rabbia che aveva in corpo e lo lasciò con un tremendo senso di vuoto allo stomaco.


Tokyo, 9 aprile 2016, 12:47


Ora si trovavano faccia a faccia.

Sia il pomeriggio precedente sia quella mattina aveva potuto suonare liberamente, con l’aula tutta per sé. Naturalmente, Tobio non gli avrebbe ceduto anche la pausa pranzo, dal momento che non aveva materialmente tempo di tornare a casa.

Erano di nuovo da soli nell’aula e Tobio era appena entrato, molto più calmo dell’ultima volta.

Shouyou si morse il labbro e abbassò lo sguardo: doveva mettere da parte l’orgoglio. «Scusami per ieri...» scattò con voce acuta e lo osservò: aveva un’espressione vagamente sorpresa. «Ho detto delle cose cattive solo perché ero arrabbiato…»

Sbatté le ciglia un paio di volte, spaesato. Non era abituato a ricevere scuse così esplicite, soprattutto quando lui non si era comportato tanto meglio dell’altra persona. Annuì lentamente, con il volto più rilassato del solito.

Il pianista gli indirizzò un’occhiata piena di qualcosa molto simile all’aspettativa, ma appena due attimi dopo s’immusonì e sospirò pesantemente. Non si poteva aspettare che Tobio facesse lo stesso: a quanto pareva non era tipo da aver mille e più relazioni sociali.

«Dobbiamo trovare un accordo, eh?»

Il moro annuì di nuovo. «Potremmo dividerci l’aula» suggerì, facendo di tutto pur di non fissare gli occhi del ragazzo. Si sentiva a disagio. «Intendo, un giorno io e un giorno tu. Va… bene?»

Shouyou gli sorrise come se non avessero battibeccato in continuazione da quando si erano conosciuti. Non si sarebbe mai sottratto alla musica, certo, ma si sentì quasi in dovere di cedergli la stanza per primo.

Si voltò con una piroetta, per poi uscire saltellando ed esclamando: «Domani tocca a me, Kageyama! Ci vediamo!»

Domani sarebbe stato una domenica, ma non fece in tempo a dirglielo.

Era una tregua.


Tokyo, 12 maggio 2016, 12:53


Era una tregua a metà, a dirla tutta.

Eseguì la scala con naturalezza e velocità, poi rilasciò il fiato trattenuto. Aveva finito col riscaldamento e poteva finalmente esercitarsi su ciò che più gli premeva in questo momento: il brano per il concorso. Era vero, non aveva nessun accompagnatore, ma aveva tempo fino ad agosto ‒ sarebbe stato meglio almeno qualche settimana prima, dato che non poteva raccattare qualcuno e mettergli sotto il naso uno spartito che avrebbe dovuto imparare perfettamente in pochi giorni.

Cacciò fuori il libro per violino di Bach, lo posizionò sul leggio e appoggiò il mento alla mentoniera.

Ma la porta si aprì.

O meglio, venne aperta.

Già pronto ad urlare contro a colui che aveva interrotto il suo allenamento, si girò verso l’ingresso. La voce gli si fermò in gola come riconobbe uno dei tanti custodi della scuola.

«Ehi, ragazzo!» lo chiamò, come se ci fosse qualcun altro nell’aula, la voce gracchiante e un accento che Tobio non seppe identificare.

Calò il violino e l’archetto e lo stette a sentire con un viso imperturbabile.

L’uomo grassoccio si accostò a lui. «Allora, ti devo parlare. E poi lo devi dire anche all’altro ragazzino che suona qui, il tappetto. Hai capito?»

Il violinista comprese subito a chi si riferiva: di tappetti che suonavano lì ne conosceva solo uno. Fece sì col capo.

«Questa stanza verrà usata per le attività di un club che si formerà l’anno prossimo, quindi dopo le vacanze estive toglieranno tutte ‘ste cose.» Indicò con il capo il pianoforte e tutte le cianfrusaglie ammassate agli angoli. «Tu potrai ancora suonare fino ad aprile, ma il tappetto no. Ci tiene tanto, vero? Resta qui fino a tardo pomeriggio ogni giorno» si rispose da solo senza aspettare una parola dal ragazzo davanti a sé, «ma oggi non l’ho manco visto una volta.»

Nemmeno Tobio lo aveva notato da qualche parte quella mattina. Di solito lo incontrava per caso nel corridoio ‒ era normale, d’altronde stavano sullo stesso piano ‒ e si lanciavano occhiatacce che avrebbero incenerito una casa, se solo avessero potuto. Certe volte, senza una vera e propria ragione, correvano senza una meta ben precisa e alla fine venivano beccati da qualche professore.

Quella era la metà di tregua che era andata a farsi friggere.

Per il resto, il loro accordo non aveva subìto cambiamenti e loro non ne avevano più parlato.

«Diglielo tu, che magari lo vedi più di me. Hai capito?» ripeté con quel suo tono basso che faceva capire le frasi che pronunciava solo per intuito.

Il quindicenne annuì un’altra volta, per poi acconsentire: «Va bene».

L’uomo sorrise compiaciuto, i pochi denti giallastri e macchiati, ed uscì.

Tobio fece vagare lo sguardo fino a trovare l’orologio a muro giallo: mancavano pochissimi minuti all’una e lui non aveva ancora provato il pezzo. Poi guardò la custodia, il libro sul reggispartito e infine il violino.

Il suo istinto decise che, quel pomeriggio, sarebbe andato a casa un poco più tardi.


Tokyo, 12 maggio 2016, 15:02


Si era preso lui la briga di spolverarlo e di pulirlo. Lo faceva abbastanza frequentemente e si portava tutto il materiale necessario da casa. C’era bisogno di una delicatezza che lui solitamente non possedeva, ma per evitare di rovinarlo era attento anche alle più piccole inezie.

Non gli dispiaceva nemmeno troppo, anzi: era come se quel pianoforte fosse suo, e lui se ne prendesse regolarmente cura, come una madre con il proprio bambino.

Posò lo zaino a terra, e si sedette con un sospiro di sollievo. Aprì il coperchio con accortezza, lentamente, e scrutò innamorato la fila di tasti bianchi e neri.

Mosse un po’ le dita in aria, poi posò il pollice della mano destra sul Do centrale e il mignolo della sinistra su quello di un’ottava più bassa.

Da quando Tobio gli aveva fatto vedere la scala in Sol maggiore aveva cominciato a fare ricerche e, diversamente da come aveva sempre pensato, si divertiva tantissimo a fare avanti e indietro con le mani, a giocare con le sue dita sulla tastiera. E il violinista aveva ragione: era un riscaldamento perfetto. Gliene era profondamente grato, ma si sarebbe morso la lingua pur di non ringraziarlo ‒ anche perché gli avrebbe certamente risposto con un muso lungo e un “Ma che vuoi?”.

Premette i polpastrelli sulla plastica e le sue labbra si piegarono in un sorriso leggero.

Ma la porta si aprì. Di nuovo.

Si bloccò subito e girò il collo di scatto, con gli occhi stralunati dallo sgomento. Appena capì chi era, non si fece problemi a guardarlo male. «Non è che potresti entrare con più gentilezza?» abbaiò, incrociando le braccia al petto e dandogli di nuovo le spalle.

«Entro come voglio!» replicò Tobio a tono, avvicinandosi al ragazzo. Tornò serio quando notò che aveva già cominciato ad allenarsi: non gli piaceva per niente dargli quella notizia. «Hinata...»

Shouyou non esitò a voltarsi ancora una volta: forse quella era la prima volta che lo chiamava per il suo cognome senza accompagnarlo a nessun insulto. Puntò i suoi occhi in quelli di Tobio per fargli capire che lo stava ascoltando.

«Tra un po’ il pianoforte verrà tolto.»

Per Shouyou fu come una pugnalata. Il moro prevedeva già grida da tutte le parti, che non poteva essere possibile, che non poteva accadere a lui, e invece schiuse la bocca e basta.

Si ritrovò quasi ad ansare come se stesse soffocando: il groppo era già là, nella sua gola. «Tra poco… quanto?» sussurrò. Non guardava più nulla in particolare, solo il vuoto.

La reazione del pianista sorprese Tobio nuovamente. Si stava palesemente arrendendo a quella decisione. D’altronde non avrebbe potuto far altro: la scuola così aveva preferito e loro così dovevano fare. Ciò non significava, tuttavia, che fosse normale.

Mosse due passi avanti, fino ad arrivare a qualche centimetro da lui, e lo sollevò dal colletto della camicia bianca della divisa. «Che ti prende?» sbottò scuotendolo. «Perché non reagisci, imbecille? Ti stanno portando via la musica!»

Shouyou lo fissò con quanta più fermezza e rabbia gelida potesse possedere. «Che dovrei fare, eh?» grugnì amaramente, senza liberarsi della stretta. «A casa non ho un piano, e a quanto pare lo toglieranno anche qui. Ho sempre trovato una soluzione, e lo farò anche ora! Anche perché non posso mica oppormi alla scuola, stupido! Che dovrei dire? Che un ragazzo vuole continuare a suonare qui e che quindi non dovrebbero levare un bel niente? E secondo te lo farebbero davvero?»

Non lo aveva mai visto arrabbiato e ragionevole allo stesso tempo ‒ non che si vedessero così spesso.

Lo lasciò e lui cadde di nuovo a sedere sullo sgabello. «Lo hai capito subito» osservò atono.

Shouyou non commentò. «Quindi quando? Quando lo toglieranno?» ribadì invece, lo sguardo di nuovo vacuo.

Tobio aggrottò le sopracciglia e sentì un sapore amarognolo in fondo alla bocca, ma lo ignorò. «Dopo le vacanze estive cominceranno a sgombrare tutta la stanza. Di preciso non lo so.»

Strinse le labbra e abbassò il capo. Si graffiò l’anulare: si stava torturando le dita da quando gli aveva dato quell’annuncio.

Non seppe la ragione, ma quella visione gli fece sconquassare lo stomaco e venire la pelle d’oca. Lo odiò e si odiò per essersi immedesimato in lui, perché quello che disse dopo, a mezza bocca, fu:

«Appena lo sapremo verrai da me. Ho un pianoforte.»

Shouyou lo guardò come se stesse diventando pazzo proprio in quel momento, dinanzi a lui.

«Ma se alle tre precise non ti trovo fuori dalla classe te ne puoi restare qui.» Si innervosì ancora di più come scorse un sorriso ad illuminargli il viso. «Non ti aspetterò manco morto, sappilo.»




― Nota d’autrice:

No, non sono morta! Secondo voi mi faccio uccidere così facilmente?

Sì ok la finisco

Finalmente ci sono riuscita! *i cori cantano Alleluja in lontananza* Per compensare alla mia immensa lentezza, il capitolo è lunghetto! In teoria dovevano succedere altre diecimila cose, ma ho deciso di tagliarlo subito prima che la faccenda mi sfuggisse di mano, perché avevo paura che diventasse troppo pesante per voi (e di aggiornare nel duemilamai).

Pensate che sia stata cattiva a togliere il piano a quel povero disgraziato di Hinata? Ovviamente no, perché alla fine c’è Kageyama che salva la situazione! Ma vedremo, vedremo. BD *scoppia in una risatina malvagia* E no, mi dispiace, ma ancora al secondo capitolo non si sono innamorati.

Ok giuro che la pianto

Ma comunque, passiamo a cose più serie. So che di fatto è successo poco in questo capitolo, ma c’è il primo incontro tra questi due idioti e ho provato a svilupparlo il meglio possibile. Non è perché sono assurdamente prolissa ed è venuto tutto il doppio di quanto avessi calcolato, assolutamente!

Ora, vorrei ringraziare _Lady di inchiostro_, Maiko_Chan e shatiaslove per aver recensito (e per ascoltare i miei scleri su twitter)! Ringrazio inoltre tutti coloro che hanno messo la storia tra le seguite, ricordate e preferite. Non sapete quanto mi aiutiate e mi facciate felice, grazie davvero! <3

E sì, insomma, nonostante ora come ora non ne sia troppo soddisfatta, spero che a voi sia piaciuto! ~

Al prossimo capitolo (sperando che venga fuori un po’ prima)! :3


Baci

Shizuha





  
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