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Autore: SparkingJester    03/11/2017    6 recensioni
Storia partecipante al contest 'Phobos & Deimos' di Little_Rock_Angel5 sul forum di EFP
Pacchetto: La Cassa Oblunga.
Prompt: Viaggio in nave.
Citazione: Quando mi guardo intorno, mi vergogno delle mie precedenti paure.
Obbligo: Il vostro protagonista si troverà vivo sotterrato all’interno di una tomba.
Nel Nuovo mondo, un Conquistadores maledetto è tormentato da un'oscura presenza che rischia di compromettere l'atteso rientro in patria.
Genere: Dark, Sovrannaturale, Storico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Nakay
“Il sole calò all’orizzonte, il richiamo di un soldato annunciò il rientro all’accampamento. Affaticato dalla corazza, appesantito dall’elmo e dal fucile, trascinai il mio bottino in fila con gli altri. Conquistadores, ci chiamavano.
Marciammo al crepuscolo, tra la giungla, seguendo un sentiero con torce e cavalli. Non fu facile localizzare e attaccare il piccolo villaggio. Inca, i combattenti più acuti che abbia mai affrontato. Di solito me la prendevo con altri attaccabrighe, ubriachi o gente a cui dovevo rubare qualche spicciolo. Poi iniziarono i viaggi verso il ‘Nuovo Mondo’ e guadagnare spaccando qualche grugno indigeno non mi dispiacque affatto. Soldi e protezione divina possono ispirare chiunque a fare qualunque cosa. Ma i locali difendono la loro stessa vita, diversa dalla nostra come un cane lo è da un gatto. Sanno muoversi nella giungla meglio degli animali stessi che la abitano.
Fortuna volle che le nostre corazze e i nostri bastoni sputa-fiamme fossero estremamente efficaci. Macellammo il villaggio in un’ora o poco più: tende depredate e incendiate, guerrieri uccisi e donne legate, niente bambini ma ovviamente tutti gli animali.
Non sarei mai dovuto salire sulla Compridos!
Quel dannato galeone ci guardava da lontano, in mezzo alle tenebre ma dotato di lanterne brillanti e rincuoranti. Vivevamo in quel accampamento da ormai tre settimane, altri due giorni e saremmo tornati a casa nostra, in Portogallo. Alcuni dei nostri si ammalarono dopo soli due giorni di permanenza, li perdemmo. Volevamo tornare a casa, ormai avevamo segnato i posti migliori per un insediamento e saccheggiato il possibile.
Ma quella sera bevemmo e cantammo, insieme, un branco di zoticoni in mezzo ad una giungla sperduta nell’oceano, lontano dalla civiltà. Quel villaggio fu l’ultimo della lista, sarebbero seguiti due giorni di puro svago tra schiave, alcool e lunghi pisolini pomeridiani. Uomini come me vivevano un sogno, potevano fare ciò che amavano di più: stuprare, uccidere e distruggere. Alcuni divennero comandanti, chi credi che organizzasse tutte quelle scorribande? Il caos non è fatto per gli uomini di fede, né per quelli di scienza. Una volta tornato infatti avrei chiesto al nostro comandante, Braulio, di raccomandarmi a qualche ufficiale per una promozione. D’altronde la sua pedofilia e il suo sadismo erano al sicuro tra i miei segreti, ero uno che non parlava molto.
«Rui, cavolo, svegliati!»
E Banto, un mio vecchio amico, mi tirò una manciata di sterco dritto in faccia. Sputai e imprecai, risero i bastardi. Eravamo attorno ad un grosso falò. Chi in preda all’alcool, chi divorando carne e chi facendo a botte per qualche scommessa. Banto stringeva sotto di sé, tra le gambe, una prigioniera. Disse spesso di avere un debole per le donne esotiche. Con le mani cercava di versare altro rum, ormai finito, nella sua tazza di latta.
Gli risposi, ma non ero in me: « Che schifo! Che volete, idioti? Guardate che vi ammazzo tutti stanotte!»
Mi piaceva prenderli in giro, ridevano anche loro ogni volta che mi arrabbiavo o bestemmiavo.
Banto si stancò di sprecare energie e lanciò la tazza sotto di lui, sulla testa della prigioniera. Si scostò, le calciò il ventre per la frustrazione ed eslcamò: «Bhé, a dopo verginelli. Gli adulti adesso vanno a letto.»
Ma tra volgari saluti e risate, non riuscì a non notare lo sguardo di quella ragazza: veniva trascinata per ciò che restava delle sue vesti, dalla collottola. Non opponeva resistenza, mi fissava, il sangue le copriva metà volto e con le braccia si reggeva il grembo. Nemmeno una parola. Non ebbi pietà, non mi interessava. Rubai del rum dal paffutello di turno, a quel poveretto non entrava nemmeno la corazza.
Cercai di finire la bottiglia cercando un posto per pisciare. Mi allontanai dagli altri, vagai dietro le tende dove l’oscurità si faceva più fitta. Sentì un rumore, quasi uno squittio. Era qualcos’altro: una scimmia. Mi osservava tra i rami di un albero, immerso nell’ombra, vedevo chiaramente però i suoi occhi. Mi fissavano. Non riuscivo a mantenere l’equilibrio, distolsi lo sguardo molte volte ma la scimmia sembrò non muoversi. Andai oltre, mi mise di cattivo umore.
Trovai un angolo tra delle casse piene di cibo e delle galline ingabbiate, c’era persino un cane poco più avanti, potevamo incrociare i nostri sguardi. Iniziai e dopo aver preso la mira, diedi una rapida occhiata in giro. Mi sentii osservato, lo ero. Galline e cane, con lo sguardo puntato su di me. La mia bocca si spalancò e vi rimase per un bel po’. Il cane era semplicemente seduto, testa inclinata lateralmente ad indicare curiosità, ma le galline erano molto più spaventose: rivolte verso di me, occhi puntati sui miei, ferme e silenziose. Smisi di pisciare, mi caddero i pantaloni ma iniziai comunque a camminare velocemente verso la mia tenda. Ovviamente inciampai, caddi e altri si presero gioco di me.
Mi rialzai, mi sistemai e sudato proseguì. Passai di fronte ad una gabbia, in legno ma grande e robusta. Schiavi, maschi, erano legati alle sbarre, feriti e abbandonati a loro stessi. Non ricordai nessuna delle loro facce, tutti uguali ai miei occhi. Ma ai loro occhi dovevo avere qualcosa di divertente, mi fissavano anch’essi. Sorridevano però. Uno addirittura parlò nella sua lingua, un guerriero tatuato e devoto: «Qam rinki a wanuy, Supay!» E gli altri risero dietro di lui. Non riuscì ad aprire bocca, non potevo comprendere quelle parole, non seppi come reagire. La mia arroganza non sarebbe servita. Allora corsi alla tenda e mi rannicchiai tra le luride coperte, senza luce. Volevo solo dormire, volevo finisse. Non mi sdraiai nemmeno, rimasi accovacciato con il mio viso barbuto rivolto all’ingresso.
Le palpebre iniziarono a cedere, minuto dopo minuto. Ero spaventato, ma tutto sembrava tranquillo.
Lievi fruscii nell’erba, normali. Forse dei sussurri, pensai fosse il vento tra le fronde degli alberi. Chiusi gli occhi e iniziai a sentire un lieve dolore al petto, al cuore. Era talmente lieve però, che non ebbi le forze di rimettermi in allerta. Volevo solo dormire e lo feci.

Il risveglio fu particolare. Nel mio cuore si aprì una voragine: oscurità e puzza di umidità. Più mi muovevo e più l’ansia saliva, ero in trappola. Chiuso in una cassa di legno, nemmeno delle mie dimensioni. Avevo le gambe piegate da un lato e iniziai a balbettare come un poppante. Gridai più e più volte il nome dell’intero equipaggio della Compridos e la parola aiuto. Mi tocca ammetterlo ora, piansi. Non avrei mai pensato di esserne capace. Tra il tremore e la disperazione iniziai a prendere a pugni la cassa. Tanti e forti, in un unico punto. Mi sentivo strano però, tremori esclusi, sentii meno dolore alle nocche di quanto pensassi. Il legno stesso sembrava cedere sotto i colpi. Incredibile, pensai fosse un sogno fin troppo realistico.
Sfondai la cassa e terra iniziò a scendere dal foro. Usai anche le ginocchia, digrignai i denti e feci a pezzi più legno possibile per potermi muovere. Nuotai tra la terra, scavandomi una via di fuga verso l’aria.
La mia mano perforò la superficie, mi aprii un varco e tossii fuori tutta la sporcizia per poter respirare. Impiegai qualche secondo a realizzare dove mi trovassi: il cimitero dei caduti. Doveva essere pomeriggio ma la nebbia che mi circondava era troppo opprimente.
La terrà iniziò a tremare, una seconda volta e una terza ancora. Polvere e sassi si mossero e un’altra mano venne fuori dalla terra. Mi si gelò il sangue. Un mostro orribile strisciò fuori e goffamente stirò i muscoli mostrando la sua forma eretta, grottesca: quattro metri di terrore, due persone. Era come se i due fossero stati tagliati ad ogni loro giuntura e ricomposti con i pezzi di uno tra quelli dell’altro. Un torso cucito su un altro torso, coscia con coscia, stinco con stinco, piede con piede, dita con dita. Una testa, un uomo anziano, indigeno, teneva gli occhi chiusi e la bocca corrugata dalla tristezza. Sopra di lui, quella di una donna, capovolta e anch’essa anziana. Ma i suoi di occhi, i suoi mi guardarono. Dal collo di lei, la cima delle due teste, partivano i capelli della creatura: lunghi lisci e neri come la pece arrivavano fino al bacino del secondo torso, quasi tre metri più in basso. Le doppie dita collegate ad un carpo e poi un altro ancora così come le braccia, sfrecciarono nella mia direzione.
Mi parai la faccia d’istinto e urlai, ma la creatura rise. La donna rise, svegliando l’uomo sotto di lei. Aprii gli occhi e una di quelle viscide dita reggeva una pistola, la mia, dal grilletto. La creatura si abbassò per parlarmi.
«Prendila.» Serio, privo di emozione.
«No, non è una trappola, mio caro. E non possiamo farti del male.» Aggiunse lei, più amichevole.
«Prendila. Un solo colpo, ne farai buon uso.» Ritornò lui. Non riuscivo a credere alle mie orecchie.
Io deglutii e strinsi ancora i denti, come facevo quando avevo paura. Non riuscii a parlare, non volevo farlo. Era un incubo?
«No, mio caro. Non è un incubo, è la mera realtà.» Che la vecchia mi leggesse nel pensiero?
«Oh, tesoro. Tu sì che sai come rincuorare gli altri.»
«Non perdiamo la concentrazione, mio amato. Ma dovrò pur ricompensarti per questo, ihihih!»
Incredibile, i due si concedettero non solo questo incantevole momento da coniugi, ma mimarono un bacio, poiché la loro giunzione non lo permetteva.
«Sbrigati!» Saettò improvvisamente lui, tremai e afferrai la pistola. Non la guardai nemmeno, la puntai verso la creatura e fissai il vecchio.
«No, no, mio caro. Non ci ucciderai mai. Solo tu puoi vederci. Ora vai, gli altri stanno partendo senza di te.»
Inarcai un sopracciglio e sparai. La pallottola fendette l’aria e il fumo riempii le mie narici. Ma la creatura era ancora là, anzi sembrò delusa. Mosse la mano con un gesto teatrale, dissipando la nebbia in una precisa direzione: intravidi la spiaggia.
«Mi dispiace figliolo, ma noi una via d’uscita te l’abbiamo data.» Disse la donna, mentre l’uomo assunse un’aria imbronciata, di disapprovazione.
Ignorai le loro parole e mi concentrai sulla fuga. Ero nella giungla, potevo correre e arrivare in pochi minuti, ma come diavolo ero finito alle tombe dei miei compagni? E perché stavano partendo? C’erano ancora due giorni davanti a noi. Non riuscii a capire se si trattasse o meno di un sogno o di una droga, era troppo reale, mi sentivo bene fisicamente, anche troppo, ma tutto ciò non aveva senso. Iniziai a correre all’impazzata e, come dicevo, non ero in me. Non avevo mai corso così.
Ancora pochi metri e avrei raggiunto la sabbia, dimenticai di controllare se quel mostro mi stesse seguendo ma non ce ne fu bisogno. Si materializzò come un’ombra plasmata dal nulla, molti metri davanti a me. Parlò, ma lo sentii come se fosse dietro di me.
«Il mio nome è Deshi.» Ancora impassibile, lui.
«Il mio nome è Kala.» Con un sorriso, lei.
Non li guardai, quando li superai. Vidi all’orizzonte tre barche in prossimità del galeone e ancora due in fase di carico. I miei amici, stavano davvero per partire. Non ebbi tempo di spiegare niente a me stesso, figuriamoci cosa avrei mai potuto dire a loro.
E da qui in poi, le cose peggiorarono.
Banto stesso e una nuova recluta puntarono i fucili verso di me, mi fermai subito, rotolando in terra. Il comandante Braulio in persona si avvicinò, con la pistola puntata alla mia testa ma tenendosi a debita distanza.
«Andate, andate!» Strillò, facendo segno ai marinai di partire immediatamente con una delle due lance rimaste.
Le ombre si materializzarono dietro il comandante Braulio, assunsero la forma di quell’immonda creatura e parlò ancora:
«Oooooh, guarda amore. Il suo primo confronto! Accetterà il suo destino?»
«Non ci sperare, cara.» Rispose lui, carezzandosi con un braccio i suoi lunghi capelli. Afferrò persino la testa di Braulio e la leccò. Il comandante non se ne accorse ovviamente, anche perché stava urlando contro di me. Aspettava una risposta, o qualcosa del genere. Non capii cosa disse. Ma la creatura me lo suggerì.
«Dai tesoro, diglielo tu per una volta, cosa ha detto il suo temuto comandante. Non lo aiuti mai! Solo ordini sai dare!»
Il vecchio sbuffò: «Per gli dei, va bene. Mpppffff. Ti ha chiamato per nome, ti ha chiesto se sei davvero tu. Credo ti spareranno se te la giochi male.»
Non potevo crederci.
«Sono io! Sono Rui, Rui Ospotos! Banto, maledetto non mi riconosci più? Allora dovrò riferire al qui presente comandante che la notte dell’ultimo attacco ti sei scopato una delle schiave. Si, esatto, comandante. Ne ha presa una senza il suo permesso.»
Panico; sputtanare il mio amico era l’unico modo per conquistare un po’ di fiducia.
«Mhe, dilettante.» Sbuffò il vecchio Deshi.
Il comandante girò lentamente il suo sguardo di disapprovazione verso Banto, il quale cercò di trattenere l’imbarazzo e la voglia di spararmi subito per averlo smascherato.
«Allora di questo ce ne occuperemo dopo, ma di sicuro sei tu, Rui. Perché diavolo ti trovi qui?»
«Cosa? Perché non dovrei? Mi sono svegliato in un dannato cimitero! Mi ci avete messo voi con gli altri?» La mia voce si alzò, ero arrabbiatissimo. Non potevo giustificare la mia paura.«Cosa vi è preso!?»
Gli sguardi dei tre si fecero tristi, imbarazzati, spaventati.
«Sei morto.» Fece Banto, quasi in lacrime. I miei occhi si spalancarono. Il cuore… non lo sentii più! Non riuscii a sentire il battito del mio cuore. Come faccio a sapere quanta paura ho senza battito?
Deshi-Kala mi lesse nel pensiero, ancora. Stringeva in una di quelle articolate e mostruose mani il mio minuscolo cuore. Batteva ancora.
«Sei morto nel sonno, Rui. La notte dopo l’ultimo attacco. Pensavamo stessi bene! Sei andato a pisciare e poi sei sparito!»
«Ma, ma io mi sentivo bene! Certo un pò stanco, ma…»
«La mattina dopo ti trovammo rannicchiato nella tua coperta. Il cuore non batteva più ed eri viola sul petto. Forse un attacco di cuore o una pianta. Ricordi cosa hai mangiato quella sera, Rui?»
«Piantala con queste stronzate! Sono vivo e vegeto! Sto bene! Sono io, fatemi salire su quella lancia. Non vorrete mica lasciarmi qui, vero?»
Banto non riuscì a coprire il dolore, ma Braulio e la recluta erano più spaventati che sorpresi.
«Perché adesso allora?» Parlò il comandante. «Perché ti mostri ora? Sono passati due giorni. Non sarai mica…»
«Un demone? Un morto che cammina?» Mi scappò una risata nervosa. «Non lo so cosa mi sia successo, mi sono risvegliato in una bara, sono uscito e sono corso qui. Ne so meno di voi! Non sapevo nemmeno di essere morto! Ma ora sono qui, accidenti! Andiamo via da questo posto maledetto e torniamo a casa!»
Tremavo, lo videro tutti. Lacrime solcarono il mio viso, nemmeno me ne resi conto.
Fecero un cenno col capo e Braulio mi condusse all’imbarcazione che ci avrebbe portato sulla Compridos. Gli altri non li conoscevo bene, ma stavano tutti stretti vicino la prua, lontani da me, isolato a poppa, sorvegliato da due fucili, ammanettato e osservato costantemente. Solo Banto sgorgava lacrime di gioia nel rivedermi, nonostante mi stesse minacciando con la sua arma.
Il viaggio fu silenzioso, mi fecero arrampicare sul cordame fin sopra al ponte della nave. Il capitano, un certo Ivo, mi attendeva con altri soldati. Un prete era con loro.
Attraversai delle scalette, per avvicinarmi a loro. Tutto l’equipaggio, i miei amici, Banto, tutti iniziarono a fissarmi. Alcuni strinsero rosari, altri cercarono le ultime file come per evitare di contrarre chissà quale malattia.
Deshi-Kala apparve, dietro al prete, poggiando le mani sulle sue spalle.
«Può salvarti, odio ammetterlo.» Deshi per primo. «Poveretto, ancora non sai cosa ti aspetta!»
Quella figura cadaverica, non riuscivo a capire cosa fosse. Esclusi la possibilità di essere impazzito, ma non riuscivo davvero a capire. Così lo lasciai agire. Non potevo liberarmene e lui non poteva farmi del male. Tanto valeva continuare.

«In nome del Signore, Dio, Onnipotente. Benedico questo tuo figlio, per protegg…» La cantilena fu lunga, non ricordo le esatte parole, non presto mai attenzione. L’acqua santa però non mi fece niente, era solo acqua. Ma la tensione iniziò a diminuire, bastò quel gesto a stabilizzare gli animi.
Venni condotto in infermeria, fecero uscire tutti tranne il medico, il comandante e il capitano. Dopo un controllo accurato, risultai sano.
Deshi-Kala rideva alle mie spalle, vidi l’ombra delle sue braccia agitarsi al lume di candela, stava davvero rotolando per il divertimento.
«Mi dispiace, Rui. Ti conosco, sei un buon soldato; ma dovrai restare in isolamento per un po’ di tempo.» Fece il comandante Braulio.
«Cosa?»Risposi. «Hey, mi avete controllato! Sto bene, io mi sento in forma! Di che avete paura?»
Nessuno rispose, tutti con lo sguardo basso. Il capitano Ivo lasciò la stanza, il medico si accostò al muro e il comandante finì: «E’ per la sicurezza di tutti. Nostra e tua. Entrate!»
Quattro, ben quattro enormi marinai entrarono con prepotenza. Mi accerchiarono e lì scelsi la via pacifica, seguendoli verso la mia cella.
Passarono due giorni, me ne accorsi dai cicli di luce. Almeno avevo uno spiraglio sul mare. Passarono solo per i pasti, due volte al giorno, e per gli esorcismi, tre volte al giorno. Ogni volta Deshi-Kala rideva e si prendeva gioco di loro. Mi fece compagnia, sussurrandomi tutto ciò che gli altri dicevano alle mie spalle. Un morto contaminato dalla magia nera, un folle mangiatore di funghi, l’appestato che comprometterà il rientro a casa. Imitava persino le voci, fu scoraggiante sentirsi offendere da persone con cui giorni prima avresti condiviso un pasto o una banale battuta.
Tapparmi le orecchie non funzionò, non potei nemmeno urlare o battere la testa al muro, dovetti mantenere una parvenza di sanità mentale o non mi avrebbero mai ammesso tra di loro.

La porta si spalancò, forte. Ancora una volta il comandante e il capitano, seguiti da soldati armati con spade e scuri.
«Co-cosa succede?» Balbettai, stupito da tutta questa irruenza e dai loro sguardi terrificati. «Cosa ho fatto stavolta?»
«Diccelo tu, Rui.» Disse calmo Braulio. Ivo invece perse la pazienza e aggiunse: «Dicci la verità, mostro!»
Mi pietrificai, due giorni rinchiuso lì e venni anche accusato.
Ivo continuò: «Il prete, il medico e due dei miei migliori marinai sono morti!»
Non capivo. Mi alzai un po’, notai altri curiosi dietro la schiera di fucili che mi puntavano. Orrore nei loro occhi. Continuò: «I loro cuori non ci sono più! Ogni corpo ha una voragine al posto del cuore! Ci sono sangue e brandelli di carne dappertutto lì sopra! DEVI essere tu il responsabile!»
Iniziarono a levarsi sussurri di assenso, ce l’avevano tutti con me.
«Vi assicuro che non sono stato io!» Mi alzai e scattai cercando di raggiungere le loro mani, per impietosirli probabilmente. «Vi dico che sto bene, mi ci avete chiuso voi qui dentro! Non c’erano guardie a controllarmi?»
I loro volti non mutarono, ancora terrore. Rispose Ivo: «Infatti è stato il demone che è in te. Sono morti tutti a poca distanza di tempo l’uno dall’altro. Sei tornato dai morti per prenderne altri! Sei maledetto!»
Il cuore non c’era, fui comunque terrorizzato da quell’espressione. Due marinai si avvicinarono e mi afferrarono per una spalla ciascuno, iniziarono a trascinarmi fuori. Tentai di divincolarmi, afferrai le loro di braccia per spezzare la presa.
La creatura però apparve:
«Non lo capisci, figliolo?»Chiese la vecchia Kala. La bestia si avvicinò ai due energumeni e con entrambe le sue braccia e dita affusolate strappò contemporaneamente i loro cuori. L’effetto stavolta fu reale. Urla di terrore si levarono, spararono due colpi. Mi centrarono in pieno, testa e collo. Caddi.

Riaprì gli occhi, mi alzai, portai la mano alla testa per verificare se anche quegli spari fossero reali e… lo furono. Mi rialzai con la gola e la testa sanguinanti. Molti fuggirono, altri urlarono altri caricarono con le spade. Mi fecero a pezzi. Sia il mio che il loro di sguardo era di puro terrore: loro non sapevano cosa stavano uccidendo, io non volevo accettare quel destino.
Ma fu tutto vano. Non ebbero il tempo di riprendere fiato che i loro cuori esplosero. Dashi-Kala rideva, Kala masticava i cuori che Deshi gli passava, come fossero fragole durante un incontro galante. Non era rimasto nessuno lì, solo corpi e sangue. Tra cui i miei pezzi. Gli altri fuggirono, ma non il mostro. Fu in quel momento che realizzai: avevo toccato il medico, due marinai mi aiutarono a scendere sul ponte e strinsi le mani al prete. Era il mio tocco.
Dashi-Kala mi afferrò la testa e la portò fuori dalla stanza. Attraversammo un corridoio, superammo le cabine, salimmo le scale e passammo per il ponte dei cannoni, fin sopra il ponte esterno. La gente scappò urlando al mio passaggio. I più coraggiosi si rannicchiarono in preghiera puntandomi contro dei crocefissi.
Il tragitto per me fu ininfluente. Mi sentii stordito, come dopo una potente sbornia, compresa la vista offuscata. Sentii l’aria fendermi le guance calde e sporche di sangue. Non sentii però le gambe. Mossi solo le palle degli occhi verso il basso: vidi un rivolo di sangue scorrere da ciò che restava della mia spina dorsale. Ero una testa fluttuante e questo terrorizzò anche i più forti. I miei vecchi amici non erano presenti sul ponte, Banto era sul punto di buttarsi in mare. Smisero di scappare, io smisi di muovermi. La creatura parlò con la voce di Kala:
«Adesso ripeti dopo di me, tesoro.» Mi afferrò la mascella e iniziò a muovermi le labbra con quelle orribili dita.
«Se tornerete, morirete.» Ripetemmo insieme. Tutti si ammutolirono, smettendo di piangere e pregare.
Deshi concluse: «Hai visto che bravo il nostro figliolo, mia adorata? Ubbidiente e devoto!» I due sghignazzarono e mi mollarono.
La mia testa cadde ma non per colpa loro, qualcuno mi infilò un crocifisso dorato nel cranio, come fosse un pugnale.

I miei resti vennero raccolti e gettati in mare e quelle persone non tornarono mai più nelle Americhe.
Sai? Adesso che mi guardo attorno, mi vergogno delle mie precedenti paure.”
Intorno a Rui, una distesa di carne, secca, putrefatta. Brandelli vengono trasportati da un fetido vento. Il cielo ospita una tempesta violacea e silenziosa. Al suo fianco, seduto e decomposto, un anziano Inca. Un profondo squarcio gli apre il petto. Rui, invece, ha la testa poggiata su un cumulo di pezzi appartenenti al suo vecchio corpo.
“Le paure dell’uomo non sono niente di più che mancate conoscenze che ci portano alla rovina. Al vuoto. A… questo.”
L’anziano volta le sue vuote orbite verso di lui.
“Mi dispiace di averti ucciso, mi dispiace di avervi ucciso. Non conoscevo né rispetto né bontà.”
I denti scricchiolarono e l’anziano poggiò la sua mano sul teschio di Rui.
“E questo è quello che è successo dopo averti ucciso. La tua maledizione ha funzionato, dannato. Ma ora dimmi, perché anche tu sei qui?”
 
 
  
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