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Autore: titania76    29/11/2017    1 recensioni
La vita di Shion Hayes, giovane uomo d'affari di successo, viene rivoluzionata da un messaggio che non può ignorare e al quale non può sottrarsi; viene così attirato a un appuntamento in un luogo fuori mano, in un freddo e lugubre pomeriggio autunnale. Qualcuno dal suo passato, che pensava di aver cancellato per sempre, torna nella sua vita e lo fa nella maniera più inaspettata e indelebile.
Anni dopo, l'infinita catena degli eventi innescata quel lontano giorno, sconvolge la quotidianità di una tranquilla e serena famiglia americana, portandola a cambiamenti radicali e allontanandola dalla propria casa e dalla propria città.
Quello stesso destino che in passato ha tolto, nel presente dona di nuovo.
La giovane Caroline Miller, da sempre sogna di tornare alla sua natia Boston; un incontro casuale e drammatico le dà la spinta decisiva per realizzare il suo desiderio. Ed è proprio a Boston, quando meno se lo aspetta, che incontra Saga.
Il colpo di fulmine è reciproco, ma fin da subito niente è facile per loro.
Ombre provenienti dal passato di entrambi sembrano spingerli in una direzione dove segreti e omissioni rischiano di spezzare per sempre il loro legame. Saranno in grado di resistere e rimanere assieme?
Genere: Romantico, Sentimentale, Thriller | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Yaoi | Personaggi: Aries Shion, Capricorn Shura, Gemini Saga, Nuovo Personaggio, Sagittarius Aiolos
Note: AU, Lime, OOC | Avvertimenti: Contenuti forti, Violenza
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Legacy'
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XXVIII



Aiolos non era di certo un sensitivo, ma lo aveva predetto che molto presto sulla famiglia Hayes sarebbero piovuti guai. Che poi sarebbe toccato a lui rimediare, sopratutto se questi guai riguardavano da vicino uno dei gemelli – Saga in particolare –, anche questo era abbastanza prevedibile, così come il senso di fastidio che lo avrebbe accompagnato. Eppure, quando era stato tirato in causa, aveva accettato senza pensarci un attimo; ma piuttosto che ammettere a voce alta che lo faceva perché era stato proprio Saga a chiederglierlo, si sarebbe fatto castrare. E senza anestesia! E ora, a distanza di neanche un giorno, si ritrovava ancora una volta invischiato nelle vicende sentimentali di quei due impiastri.
Con qualche difficoltà riuscì a inserire e girare la chiave nella serratura della porta d'ingresso. Una mano era occupata a tenere due grosse borse della spesa, mentre sulla spalla destra reggeva la tracolla del trasportino della gattina che al suo interno si stava agitando.
«Un'altra femmina Hayes...» sbuffò, alzando gli occhi al cielo; ma ciò che intendeva dire era: “altri grattacapi”. Non era mai andato matto per gli animali, specialmente i felini, troppo imprevedibili per i suoi gusti; e quel felino in particolare pareva rispecchiare in tutti i sensi i suoi due padroni. «E stai buona, accidenti!» sbottò, facendo un mezzo movimento con la spalla.
Aveva la sensazione che la gattina, nel continuare a muoversi, grattare e spostarsi da un lato all'altro del trasportino, gli facesse scivolare la tracolla giù dalla spalla e, nel cercare di tenerla più stabile, perdere gradualmente la presa sulle buste della spesa.
Dopo aver ritirato la chiave – ed essersela anche quasi lasciata sfuggire dalla mano –, con il piede diede una leggera spinta alla porta, riuscendo finalmente a entrare in casa. Quando aveva accompagnato Caroline non ci aveva fatto caso. Ora invece, stava subendo in pieno l'impatto con quell'ambiente e si sorprese dei cambiamenti radicali che vi erano stati fatti. Se prima dimostrava tutti i “suoi anni”, ora aveva completamente cambiato pelle. Niente più predominanza di legno scuro, carte da parati vecchie e tinte opprimenti, ma tanto bianco, alluminio e macchie di colore qua e là, che finalmente avevano fatto entrare quel vecchio appartamento nel terzo millennio.
Mentre si dirigeva verso la cucina studiò con lo sguardo il nuovo arredamento e la sua disposizione. Forse adesso la casa era persino troppo moderna. Però doveva ammettere che Saga aveva un ottimo gusto per il design; era un aspetto che non conosceva e che mai si sarebbe aspettato da uno come lui. Rallentò il passo, sovrappensiero. Fece appena in tempo a posare le buste della spesa sul piano in granito scuro dell'isola, prima che queste – o Kitty – gli scivolassero dalle mani per atterrare poco delicatamente a terra. Sbuffò nel liberarsi del trasportino, posando anch'esso sul piano di lavoro, accanto alla spesa. Al suo interno, la bestiola era forse più insofferente di lui per quella situazione: continuava a girare su se stessa come se volesse catturarsi la coda, si ribaltava prima da un lato e poi dall'altro e grattava forsennata, incastrandosi più volte nella stoffa trapuntata con le unghiette. Dall'esterno, il trasportino sembrava muoversi indemoniato.
Aiolos si chinò un poco all'altezza della grata metallica posta sul lato corto e sogghignò nel sorprenderla in una posizione contorta e imbarazzante. Anche lei lo guardava fissa, a occhi sgranati: con la testa piegata sul fondo, il sedere per aria e le zampette posteriori che si muovevano a scatti, faticando a toccare il materassino interno.
Per qualche momento si divertì a stuzzicarla dando dei colpetti con la mano, o battendo l'unghia dell'indice sulla grata. Giudicando poi che il felino aveva “sofferto” abbastanza, si raddrizzò e, con un gesto rapido, aprì la zip sulla parte superiore. Poi, con tono di sufficienza, le disse che era libera, esortandola a uscire da lì dando un altro colpetto al lato del trasportino.
Kitty si ribaltò un'ultima volta, si rimise in piedi e sbucò fuori con la testa, drizzando le orecchie. Le sue pupille si restrinsero subito in due fessure, lasciando spazio al colore ambrato delle iridi. Uno, due tentativi, che a occhi inesperti potevano sembrare tentennamenti impauriti. Invece, con un balzo elegante saltò fuori, atterrando flessuosa sul piano di granito. Per un attimo fiustò gli odori circostanti, attirata soprattutto dagli alimenti nelle buste lì vicino. Infine, si avvicinò al bordo del piano dell'isola e, allungandosi verso il basso, si lasciò cadere, atterrando sul pavimento di parquet scuro in modo perfetto. Si diede due leccate sul fianco in modo nervoso e corse via, verso la camera da letto. Era come se, nonostante il poco tempo trascorso in quella casa, tutti quei cambiamenti e l'odore stesso dell'ambiente, che non era più lo stesso di prima, lei sapesse comunque di essere tornata finalmente a casa.
Il giovane la seguì con lo sguardo per un po', finché lei non sparì dalla sua vista, distraendosi con la divertente idea che Saga avrebbe avuto il suo bel da fare con quella bestiola; e le sue labbra si piegarono in uno strambo sorriso. Peccato non sapesse quanto in realtà l'oggetto del suo scherno avesse una naturale sintonia con Kitty. Poco dopo però la sua fronte si corrugò: la casa gli sembrava troppo silenziosa.
«Caroline!» chiamò, con tono severo. Nessuna risposta. Sbuffò, commentando che non aveva voglia di starle dietro e farle da babysitter. «Caroline, ci sei?» riprovò, ma subito si diede dell'idiota. Era improbabile che nel poco tempo nel quale si era assentato – e soprattutto nelle precarie condizioni in cui si trovava la ragazza, che a quel punto erano più emotive che fisiche – fosse potuta uscire di casa.
Scrollò la testa, enfatizzando quel suo stato d'animo con un eloquente gesto della mano e si mise a sistemare la spesa nel frigorifero e nei vari armadietti. Gli ci vollero diversi tentativi per trovare la collocazione giusta per ogni acquisto. Non che avesse preso chissà che, giusto le cose essenziali per un paio di giorni e qualcosa di già pronto, affinché la giovane potesse riprendersi con tranquillità e non dovesse pensare anche a prepararsi da mangiare. Chiudendo l'antina dell'armadietto si fermò di nuovo, tendendo le orecchie, ma gli unici rumori che ora si sentivano erano quelli del leggero grattare di Kitty sulla porta e i suoi miagolii incompleti.
«Davvero buffo come in realtà siano così diversi da come ci fanno credere da bambini», commentò.
I richiami della gattina si stavano facendo via via più insistenti e rumorosi, irritanti per uno con così poca pazienza come lui. Sbuffò per l'ennesima volta e si diresse alla camera da letto padronale.
«Smettila! Sciò! Via di qui!» la rimproverò, provando a smuoverla dalla sua posizione con il piede. Kitty però, seduta a terra e con una zampetta pronta a grattare ancora sulla porta, alzò il musetto verso di lui e lo guardò con occhi sgranati, ma senza alcun timore. Sbadigliò e, subito dopo, la sua attenzione tornò alla porta, riprendendo a muovere la zampetta, anche se questa volta erano colpetti leggeri come carezze.
«Non riesco a farmi dare retta neanche da te...» grugnì, scrollando la testa.
Bussò un paio di volte con le nocche e chiamò Caroline, cercando di essere discreto, ma di nuovo non ricevette risposta. Allora aprì piano, uno spiraglio, facendo capolino all'interno della camera con la testa. E Kitty ne approfittò per intrufolarsi dentro, balzando sul letto e acciambellandosi fra i cuscini. La camera era vuota, immersa nel tenue chiarore della tenda color avorio che smorzava la luce del sole pomeridiano; le coperte erano ancora perfettamente lisce e ben tirate, persino il plaid ripiegato per bene sul fondo del letto. Borbottò qualcosa, mentre lasciava la porta socchiusa, cosicché la bestiola non rimanesse prigioniera e non combinasse guai.
Tornò in cucina. Da uno scomparto laterale del trasportino estrasse due ciotole di metallo, messe una dentro l'altra, e le sistemò a terra, vicino alla finestra. Una la riempì di acqua fresca presa dal rubinettoo, nell'altra vi versò un paio di manciate di croccantini. Se con quel rumore avesse attirato Kitty in cucina, tanto meglio, altrimenti avrebbe mangiato quando ne avrebbe avuto voglia.
Riaprì l'armadietto nel quale poco prima aveva ritirato una confezione di cookies e se n'era preso uno, come ricompensa per quella perdita di tempo, prima di passare nel salotto. Se Caroline non era nel suo letto, allora era rimasta sul divano, dove lui l'aveva lasciata prima di uscire per le commissioni. E infatti la ritrovò proprio lì, sdraiata – o meglio rannicchiata – sul divano, con il viso pallido e le guance ancora umide di lacrime.
«Caroline» Provò a smuoverla con delicatezza, ma lei sembrava così sfinita tanto da dormire profondamente.
Sbuffò. Certe cose lo rendevano più insofferente del solito; e vedere una donna prostrata come lo era Caroline in quel momento, gli dava ancora più fastidio, poiché gli ricordava sua madre – quando lui era solo un bambino – che piangeva ogni volta che Thomas le comunicava che sarebbe stato trasferito in un'altra base, più lontana da Boston. E lei andava a sfogarsi dalla nonna e a piangere sul divano di casa Hayes, fino ad addormentarsi.
Aiolos scrollò la testa e si chinò sulla giovane moglie di Saga. Se la caricò in braccio e la portò in camera, posandola sul letto e coprendola infine con il plaid. Le concesse un ultimo sguardo, mentre si massaggiava piano la spalla infortunata, prima di uscire dalla stanza: non capiva cosa lui ci trovasse in lei, o forse, quello che non capiva era cosa gli uomini in generale ci trovassero nelle donne. Prese lo smartphone dalla tasca dei pantaloni e, nel socchiudere di nuovo la porta, compose il numero della madre.
Con tutto quel movimento Kitty mosse a malapena un orecchio, continuando a dormire tranquilla, mentre Cora si lamentava in modo sommesso e si girava stancamente sul fianco sinistro.

*****

Avrebbe dovuto prendere e andarsene da lì. Il suo dovere l'aveva fatto, così come aveva promesso all'amico. Invece era rimasto in quella casa, passando il tempo a esplorarla – di nuovo – e successivamente a leggere, seduto comodo sul divano del salotto. Era stato così assorto nella lettura che non si era accorto che il sole era ormai calato oltre le case e la luce stava andando affievolendosi rapidamente.
Con un gesto secco richiuse il libro senza mettere un segno: tanto non lo avrebbe più ripreso in futuro. Prima di alzarsi dal divano girò lo guardo verso la camera da letto dove Caroline riposava ancora, o così almeno ne era convinto lui. Controllò l'ora, borbottando che era quasi il tempo della cena. Si grattò la nuca, sbottando un “ma che diavolo!” e alzandosi da lì. Non perse tempo a pensare alle conseguenze della sua permanenza nella casa di una donna sposata; le sue gambe lo avevano già portato in cucina, di fronte al frigorifero, con la mano che ne stringeva la maniglia. Con un movimento svogliato lo aprì e tirò fuori la porzione di zuppa di pollo che si era fatto fare al ristorante cinese, mentre era sulla via del ritorno verso l'appartamento sopra il negozio. Tutti dicevano che era un toccasana per quando non si stava bene e ci si doveva tirar su, quantomeno dal punto di vista fisico. La versò in una scodella e la scaldò al microonde per un minuto circa.
Quando si presentò nella camera di Caroline, con entrambe le mani occupate da un vassoio per la colazione a letto, Aiolos la trovò che parlottava con la gattina, la stuzzicava con il dito e la guardava con occhi tristi. Lei era ancora sdraiata sul fianco e non aveva accennato a muoversi neanche quando la porta cigolò un poco nell'aprirsi.
«Ti senti un po' meglio?» le chiese, mentre faceva il giro del letto. Attese che lei si raddrizzasse e si sedesse, prima di sistemarle il vassoio sulle gambe.
«Non ho fame...» sospirò lei, tornando a guardare Kitty che invece, distratta dal profumo della zuppa di pollo, si era ben presto dimenticata del gioco.
«Lo diceva anche mia madre quando stava nelle tue stesse condizioni», ribatté Aiolos, per nulla impietosito. Anzi, le parole di Cora lo aveva infastidito e non fece nulla per dissimulare ciò che provava. «Per il gelato però di fame ne aveva eccome! E ne divorava barattoli interi», aggiunse, svelando da sotto il tovagliolo una confezione alla crema variegata allo sciroppo all'amarena e con pezzi di frutta candita.
«È uno dei miei gusti preferiti! Ma come hai...»
Aiolos alzò gli occhi al cielo e fece per andarsene; non aveva affatto voglia di fare conversazione. «La zuppa non darla al gatto, devi mangiarla tu!» si limitò a dire. Era già con un piede oltre la soglia, ma si fermò, appoggiando la mano allo stipite della porta e voltandosi verso Caroline. Si era giusto appena raccomandato, invece lei aveva lasciato che Kitty salisse sul vassoio e allungasse il musetto fin dentro la scodella, limindosi a lisciarla sul dorso un paio di volte. Allora, fece dietro front, prese la gattina con una mano e si sedette sul bordo del letto, rimanendo in silenzio a guardarla.
Caroline corrugò la fronte, squadrandolo per qualche secondo: non le piaceva quel tipo di intromissione da mamma preoccupata, soprattutto in un momento difficile come quello che stava passando e in cui l'unica cosa che voleva era essere lasciata sola. Però doveva ammettere che Aiolos in quegli ultimi giorni aveva fatto tanto per lei. Nonostante non perdesse occasione di dimostrarle la sua antipatia, le era stato vicino come un buon amico. Si passò una mano sugli occhi e, dopo qualche altro momento di indugio, iniziò a mangiare timidamente la zuppa tiepida.
«Perché fai tutto questo per me?»
«Perché non può farlo lui», rispose serafico Aiolos, lisciando il morbido pelo corto della gattina. In quel momento sembrava uno dei cattivi dei film di James Bond.
Caroline respirò stanca. Non aveva una gran voglia di parlare, ma allo stesso tempo sentiva che il silenzio che si stava creato in quella stanza sarebbe stato peggio, troppo pesante da sopportare. Si portò di nuovo il cucchiaio alla bocca, mentre il ragazzo si alzava dal fondo del letto e faceva uscire Kitty, borbottando che l'ultima cosa che voleva era farsi riempire i vestiti di pelo, così come farsi rovinare le mani dalle unghiette affilate di una pantera in miniatura che aveva già cercato di affondare nella sua pelle. Poi, nello stesso momento in cui immergeva ancora una volta il cucchiaio nella zuppa, d'improvviso la stanza si fece più luminosa. Solo allora lei si rese conto di come la camera da letto fosse diversa; e i suoi occhi – stanchi e gonfi per il troppo pianto – si velarono di nuove lacrime. Tutto l'ambiente le ricordava la camera dal letto che lei stessa aveva sistemato quando aveva ristrutturato il bilocale nella palazzina di Dohko, quando aveva fatto ritorno alla sua Boston: con un'elegante sfumatura di grigio perla alle pareti e i mobili chiari, di un bel bianco avorio antichizzato; l'unica vera differenza che balzava all'occhio – se non si considerava il lavoro professionale rispetto a quello che aveva fatto lei – erano le tende alla finestra, anch'esse bianche avorio e non più rosa antico. Saga evidentemente aveva fatto tutto quel lavoro per lei. Le sue labbra si piegarono in un sorriso triste.
Come doveva considerare quel gesto alla luce di ciò che era successo quel giorno?
Le cose erano precipitate così tanto che ora non sapeva cosa le avrebbe riservato il futuro. Davanti agli occhi vedeva ancora la reazione di Saga quando aveva scoperto il suo segreto; come avesse distolto lo sguardo da lei, neanche avesse provato ribrezzo. E, nel ricordare ciò, avvertì un tremito attraversarle il corpo. Spostò il vassoio un poco di lato e si sedette sul bordo del letto, provando a fare un respiro profondo. Inevitabilmente le si spezzò in gola.
«Cos'hai intenzione di fare? Dove pensi di andare?»
«Devo prepararmi una borsa e cercarmi una camera in qualche albergo. Non credo di poter più rimanere qui», rispose Cora, fissando i suoi piedi.
«E perché mai?» ribatté Aiolos. Si potevano contare sulle dita di una mano le volte in cui era rimasto davvero sorpreso in vita sua e quella era una di quelle volte.
«Dopo quanto è successo...» mormorò lei, tormentandosi il labbro per trattenere le lacrime, stringendo la mano sul bordo del materasso.
«Ma la casa è tua! Saga l'ha intestata a tuo nome quando hanno terminato i lavori!» eslamò Aiolos.
«Cosa?» Caroline alzò la testa di scatto, fissando Aiolos a occhi sgranati e un'espressione stupefatta sul viso.
Aiolos accennò un mezzo sorriso un po' supponente, mentre incrociava le braccia al petto e si metteva in posa, appoggiato con la schiena allo stipite della porta. La sua intenzione era quella di mostrare alla donna una grande sicurezza per ciò che aveva appena asserito e farle credere che avesse partecipato attivamente alla faccenda. Di certo non poteva raccontarle la verità, ovvero che quel pomeriggio si era divertito a frugare qua e là per l'appartamento e che nella cassaforte a parete, che aveva scovato dietro un pannello di legno e che doveva essere un elemento originale degli anni '30, aveva trovato i documenti della casa e altre carte interessanti, come il certificato di matrimonio e la lettera di un avvocato di uno studio legale di Philadelphia, il quale comunicava a Caroline che dal 30 maggio del corrente anno, al compimento del suo ventiquattresimo anno di età, avrebbe avuto libero accesso al suo fondo fiduciario che ammotava a poco più di cinque milioni di dollari.
Forse, dopotutto, su di lei poteva anche essersi sbagliato. Quando aveva conosciuto Caroline – e saputo chi stava frequentando – gli era scattato un campanello d'allarme. Per come era comparsa all'improvviso nella vita di Saga, per come lo aveva cambiato e legato a sé. Persino la gravidanza e tutta la sceneggiata della sorpresa per un breve istante l'aveva considerata come una manovra astuta. Sembravano tutti segnali inequivocabili di una in cerca di soldi. Solo il dolore e lo strazio che poi aveva visto nella ragazza, gli aveva fatto cambiare idea. Quelli non avrebbe mai potuto simularli. Ora, con le nuove informazioni che aveva appreso, comprese che non aveva capito nulla di Caroline, poiché non aveva bisogno del denaro della famiglia Hayes, essendo lei stessa ricca e figlia di una celebrità. Però... anche così Saga era un partito che faceva gola a tutti.
«Questo vuol dire che posso rimanere?» chiese Caroline, con voce incerta.
«Per quel che importa a me, puoi fare ciò che vuoi», le rispose il ragazzo, con il suo solito tono di sufficienza. «Ma Saga vorrebbe saperti sistemata in modo adeguato. E soprattutto, che tu stessi bene.»
Cora si lasciò scivolare addosso la prima affermazione di Aiolos, poiché tutto sommato l'antipatia era reciproca, ma le parole seguenti invece fecero presa sulla sua fragilità. Respirò profondamente, chiudendo gli occhi per un istante. Quando li riaprì si rattristò nel vedere che il bel vestito da cocktail che le aveva regalato la madre era tutto spiegazzato. Quasi voleva piangere per quel pensiero così superficiale. Ma probabilmente, per come si sentiva, avrebbe pianto per qualsiasi cosa. Si passò una mano sugli occhi, per nascondere una lacrima intrappolata fra le ciglia. Inspirò – lo fece in modo così prolungato che le sembrò di essere arrivata al limite dei suoi polmoni – ed espirò piano, con lentezza quasi esasperata, come se in quel modo tutto potesse passare. La sofferenza che provava però era ancora lì. Si appoggiò di nuovo con la schiena alla testata del letto e riavvicinò il vassoio a sé. Ora si sentiva un poco più calma e l'appetito stava dando segni di risveglio: la zuppa di pollo non era poi così male.
Aiolos si rilassò nel vederla riprendere a mangiare, un cucchiaio alla volta. Il paragone con Georgina gli era venuto naturale: al contrario di quanto faceva a suo tempo sua madre, Caroline stava provando a reagire. Dunque, quel gelato se l'era guadagnato. Con voce pacata le disse che ora la sua presenza lì non serviva più e che quindi se ne tornava a casa. Gli parve di vedere da parte della ragazza un sospiro di sollievo e sogghignò. Mentre si girava, per uscire dalla stanza, un fulmine nero gli passò fra le gambe e lo fece incespicare e borbottare maledizioni irripetibili. Quando si girò di nuovo, vide la bestia già sul letto.
«Dovresti metterle un campanellino al collo», ringhiò.
Cora non lo sentì neanche, stupita di come Kitty forse corsa da lei e che ora le stesse chiedendo qualche carezza toccandole la mano con il muso.
«Sembra sia diventata più socievole», disse, accennando un sorriso ed esaudendo la richiesta della gattina. Le faceva uno strano effetto essere finalmente in confidenza con quella piccola palla di pelo che coincideva però con la separazione da Saga.
«Forse aveva solo bisogno di abituarsi alle persone», considerò Aiolos, passandosi le mani fra i ricci castani, per ritrovare una certa compostezza.
«Non ha avuto bisogno di abituarsi a Saga. Con lui è stato amore a prima vista.»
«Come capita a tutti», replicò Aiolos.
«Come capita a tutti...» ripeté lei; e nel fare quella considerazione, ancora una volta le labbra di Cora si erano piegate in un sorriso che però non esprimeva felicità, ma una straziante tristezza.
Scansò la zuppa e passò al gelato. Lo assaggiò, stava già diventando troppo morbido, e allora pensò che assieme non ci sarebbero stati male dei cookies sbriciolati, magari alle noci; oppure potevano andare bene anche i cereali al cioccolato, quelli per la colazione. Dopo il secondo cucchiaino lo posò accanto alla zuppa. Improvvisamente le si era chiuso lo stomaco. Sentiva che le stavano venendo i crampi e, quando con la mano si toccò il ventre, i suoi occhi si riempirono di nuove lacrime che questa volta non riuscì a trattenere.
«Scusami», sussurrò, passandosi le mani sugli occhi per asciugarli.
«Perché non ti prendi qualche giorno di vacanza e te ne vai da qualche parte?» le propose Aiolos. Nella sua voce non c'era alcuna intonazione particolare e, di certo, alcuna intenzione di essere malevolo.
«E dove dovrei andare? Non mi va di tornare a Philadelphia: mi tratterebbero come un fragile ninnolo di vetro.»
«Non c'è un posto che ti piacerebbe visitare?» insistette lui.
Caroline sospirò, abbassando lo sguardo. Non ci aveva mai riflettuto seriamente: vacanze e viaggi non erano fra le cose importanti a cui pensare. Aveva incanalato i suoi sogni e le sue speranze al raggiungimento di un unico obiettivo: ritornare a Boston, la sua città, la città di suo padre. Ora ci era riuscita; ed era andata anche al di là delle sue aspettative. Aveva trovato l'amore, una nuova casa, una nuova vita, una famiglia. Non c'era stato tempo per crearsi nuovi desideri, aveva già tutto ciò che si potesse desiderare. Scrollò la testa e si distese di nuovo sul letto, girandosi sul fianco, senza dargli una risposta vera e propria.
Aiolos scrollò la testa a sua volta. Ora sì che riconosceva pienamente quei sintomi e non ci teneva a rimanerci immischiato. Ma, contrariamente a quanto gli diceva l'istinto, era già accanto a lei, seduto sul bordo del letto e con la scodella di zuppa di pollo, ormai fredda, in mano.
«Smettila di fare la vittima e finisci di mangiare», le disse con voce dura, obbligandola praticamente a rimettersi seduta. «Ti conviene, perché prima finisci, prima ti liberi di me.»

*****

Toc toc
La giovane bussò discretamente alla porta della camera da letto. Come per gli altri abitanti della casa, anche lei era stata contagiata dall'atmosfera lugubre che aveva avvolto la villa. Ancora, dopo quasi tre giorni, tutti sembravano camminare sulle uova e stavano attenti a ciò che dicevano.
Toc toc
Doveva ammettere che si sentiva a disagio nell'insistere in quel modo. Le era stato detto che Saga passava quasi tutto il tempo chiuso nella sua stanza ed era preoccupata. Trattenne il respiro, tormentandosi un labbro. Si guardò attorno, mentre posava incerta la mano sulla maniglia. Per un momento le venne il batticuore. Sapeva che non stava bene entrare nella camera da letto di un uomo, soprattutto se questo era il fratello del suo fidanzato, ma cosa doveva fare?
Girò piano la maniglia e aprì uno spiraglio: la stanza era completamente al buio, ma al suo interno sentì una voce bisbigliare.
«È permesso?» disse con voce tremante, facendo capolino all'interno.
I suoi occhi non erano abituati a quell'oscurità e vedeva solo vaghe ombre.
«Vieni avanti, cara, accomodati pure», la invitò Nanny.
Saori trovò la donna seduta sul bordo del letto e le dava le spalle, mentre, rannicchiato al centro, c'era Saga.
«Come sta?» chiese lei, timidamente. In quei giorni, senza il suo tutor che le faceva lezione, si sentiva un pesce fuor d'acqua e messa in disparte; come se il lasciare la suite al Country Club per trasferirsi alla villa non fosse stato già abbastanza straniante, la villa stessa era avvolta da un'atmosfera surreale. Aveva capito subito che era successo qualcosa, ma non era riuscita ad afferrare cosa. Aveva raccolto solo mezze voci da parte delle cameriere, ma forse, a causa delle differenze linguistiche, non era sicura di aver compreso bene. Rimase in disparte, ferma accanto alla porta, a osservare l'anziana governante nella sua opera di convincimento.
«Tesoro mio, non puoi continuare così, guarda come ti stai riducendo. Non puoi bere in questo modo, non ci sei abituato e non ti fa bene», disse Nanny, con voce calma e materna, accarezzandogli una guancia. Era pallida e fredda. «Devi anche mangiare qualcosa. Fallo per me», lo pregò.
Da quasi un'ora era lì, che cercava di persuaderlo a scendere a mangiare. A nulla era valso provare a prenderlo per la gola, dicendogli che in cucina c'era una fetta gigante di Boston cream pie – la sua preferita – che aspettava solo lui. Sospirò: conosceva fin troppo bene l'infantile testardaggine del suo ragazzo. In parte ne era responsabile lei, perché quando era più giovane gli aveva permesso di fare come voleva; ma Saga non era più quel bambino. Ora che si era presentato alla famiglia come un uomo sposato, con tutte le intenzioni di lasciare il nido per intraprendere un nuovo cammino, doveva dimostrare di sapersi prendere certe responsabilità. E fino a quel momento non c'era riuscito un granché, rifugiandosi alla prima occasione nel falso conforto della bottiglia.
«So che ti senti ferito e spaurito per ciò che è successo; e soprattutto, che ti è difficile comprendere quello che è accaduto in seguito», disse la donna, provando ad accarezzargli la testa. Le era facile condividere il dolore e la disperazione che lui stava provando, così come poteva comprendere – senza bisogno di parole – il dolore di Caroline.
«Posso fare qualcosa?» chiese Saori, avvicinandosi di qualche passo. Anche lei era stata contagiata dalla tristezza che aleggiava in casa e avrebbe voluto rendersi utile in qualche modo, ma non osava fare di più. Sussultò per la reazione di Saga che, con un movimento brusco, aveva allontanato la mano di Nanny, alzando al tempo stesso la testa e guardandola con durezza. Lo vide tenere le labbra strette in modo capriccioso, i suoi occhi erano arrossati, lucidi, annebbiati dall'alcol. Sembrava un bambino in lacrime.
«Siete proprio fatti l'uno per l'altra!» sbottò Aiolos, sbucando fuori dalla cabina armadio che avevano in comune i due gemelli. Era passato dalla camera di Kanon per non farsi notare. In mano teneva un piccolo trolley che aveva già riempito con il necessario per un breve viaggio di qualche giorno.
Lo posò malamente sul letto, sotto lo sguardo ancora rabbioso di Saga e quello invece più perplesso di Nanny.
«Entrambi riuscite a drammatizzare e complicare la situazione più del necessario.»
«Aiolos, cosa stai dicendo?» provò a farlo smettere la donna.
«Lasciami parlare, nonna. È ora che il principino si svegli e la smetta di fare la vittima», rispose con disprezzo Aiolos. «Cos'è che ti fa sentire così, Saga? Il fatto di essere stato sottomesso da un idiota di poliziotto che non vedeva l'ora di rivalersi su una persona ricca, oppure di essere stato tradito dalla persona che ami?» gli chiese, con un mezzo sorriso di scherno sulle labbra.
«Non dire queste cose, Aiolos! Tu non sai di cosa stai parlando», lo rimproverò Nanny, minacciandolo di dargli una sonora sculacciata.
«No, nonna, invece so benissimo di cosa sto parlando. Sono stato io a portare Caroline Miller in ospedale, quando ero a Philadelphia. Ero presente quando le è stata comunicata la notizia della gravidanza e quando poi è crollata a terra, prima di essere operata d'urgenza. Ed ero sempre là, assieme alla madre, quando si è risvegliata dall'anestesia e si è resa conto di cosa le era successo.»
Saga scrollava lentamente la testa, mentre Aiolos raccontava, mormorando in continuazione dei “non è vero”, nascondendo il viso dietro le ginocchia raccolte al petto.
«Tesoro mio», disse Nanny. Questa volta lui non si sottrasse e la vecchia governante riuscì ad abbracciarlo, accarezzandogli la testa e sussurrandogli parole di conforto. Lo sentiva piangere in silenzio.
«Non rimanere qui nella tua tana a farti compatire da tutti», lo rimproverò Aiolos, in tono brutale. «Ti ho fatto mettere a disposizione l'aereo della società per domattina. Da ora in avanti i vostri casini ve li risolverete da soli», disse, sempre con voce dura e un tono che non ammetteva un “ma” come risposta. «Vieni, Saori, lasciamo che si crogioli ancora un po' nei suoi problemi, intanto che aspettiamo che inizi a crescere», si rivolse infine alla giovane ospite, rimasta così in disparte e dimenticata in un angolo, che si confondeva con la tapezzeria della camera.

*****

Uscirono dall'ascensore col fiatone e i vestiti in disordine. Si tenevano abbracciati, o forse si sostenevano a vicenda, mentre percorrevano a zigzag quei pochi metri che li separavano dalla porta del lussuoso attico degli Hayes. Entrambi avevano bevuto un po' più del lecito, quella sera. Le loro risate – più degli sghignazzi che delle vere e proprie risate – si sentivano per tutto il corridoio. Ma a chi importava, quel piano era completamente di proprietà della famiglia Hayes. Kanon piegò la testa all'indietro, passando davanti a una costosa e indiscutibilmente brutta scultura d'arte moderna posta in una specie di nicchia, per giunta illuminata. Le rivolse una pernacchia e rise ancora. Poi, si avvicinò alla compagnia femminile di quella notte e le sussurrò qualcosa all'orecchio. Lei rise a sua volta, piegando anch'essa la testa all'indietro e mostrando la gola ornata da una vistosa collana in diamanti. La donna era di un'eleganza peccaminosa, da farlo eccitare e tenerlo nel palmo della sua mano come un cagnolino a ogni sua mossa, se avesse voluto; ma quella risata gli faceva venire i nervi e rompeva l'incantesimo. E avrebbe sortito lo stesso effetto anche se fosse stato ancora più sbronzo di quanto già non fosse in quel momento.
La baciò lungamente, per non sentirla una volta di troppo, sicuro di non riuscire a sopportarla oltre; non voleva rispedirla a casa e interrompere lì la serata. Lei gli aveva fatto capire più volte che voleva portarselo a letto e lui non aspettava altro. La teneva stretta fra sé e la porta d'ingresso. Lei faceva la civetta; mentre Kanon con una mano le accarezzava il sedere e con l'altra girava la chiave nella serratura.
Neanche si ricordava il suo nome. Gliel'avevano presentata quella sera stessa, durante una specie di rimpatriata, alcuni suoi ex compagni di Università che ora lavoravano come broker a Wall Street e lei, unica donna del gruppetto, non lo aveva più mollato. Era sicuro che, oltre al suo fascino, avevano contribuito non poco anche il suo nome e i suoi soldi. Ma quella sera a lui andava bene così. Voleva solo passare una notte in compagnia. Eppure, se solo avesse immaginato quanto in realtà fosse appiccicosa... Però non baciava niente male, le sue mani così ben curate si muovevano esperte e audaci e aveva fatto capire fin dal primo sguardo le sue intenzioni senza alcuna vergogna. Proprio quello di cui aveva bisogno.
Mentre le loro bocche erano ancora incollate l'una all'altra, si girò, appoggiandosi con le spalle alla porta e, con una leggera spinta, l'aprì, camminando poi all'indietro. Era più intento a spogliare la donna, lasciando cadere nel loro percorso pezzo per pezzo ciò che aveva in dosso, piuttosto che guardare dove stava andando. Si avvicinarono così al divano, Kanon le aprì il gancetto anteriore del mini reggiseno di pizzo nero, che subito liberò – quasi in un'esplosione sorprendente – i suoi seni abbondanti. Erano sodi e perfettamente tondi, grazie alla sapiente opera del chirurgo plastico. Poi, le abbassò le spalline sottilissime sulle braccia bianche e sinuose, anch'esse troppo toniche per essere naturali. Fece due passi indietro e si prese del tempo per osservarla, commentando fra sé e sé: “Sarà anche rifatta, ma è uno schianto di bambola!”
«Come hai detto che ti chiami?» le chiese, mentre con gli occhi le accarezzava il petto orgogliosamente nudo e le sue labbra si curvavano in un sorriso sornione.
La donna sorrise a sua volta, colmando quella breve distanza con passi da modella, abbassando la cerniera della minigonna e lasciandosela scivolare giù, fino a terra. Il perizoma era microscopico e semi trasparente come il reggiseno ormai abbandonato.
«Camille Sanders», sussurrò lei, sfiorandosi maliziosamente le labbra rosso fuoco con la punta dell'indice, mentre con l'altra mano stuzzicava il pizzo delle mutandine. Si avvicinò a lui, lo guardò negli occhi e poi abbassò lo sguardo verso il basso, ad ammirare le “doti” di Kanon. Dalla sua gola arrivò un lieve ruggito, provocante e ferino. Gli posò entrambe le mani sul petto e lo accarezzò, facendogli sentire le unghie attraverso la camicia.
Kanon sentì un brivido attraversargli il corpo a quella carezza aggressiva. Di nuovo, la donna diede sfoggio della sua risata, mentre con le mani scendeva fino alla cintura e andava un poco oltre, dove le cose si stavano già facendo grosse. Si strusciò in maniera generosa su Kanon, fin quasi a fargli perdere l'equilibrio e cadere sul divano, dalla parte dello schienale. Non vedeva l'ora di giocare un po' con lui.
«Se mi avvertivi che tornavi così presto e in compagnia, preparavo qualcosa da mangiare per tutti.»
Al suono di quelle parole, la donna alzò lo sguardo al di sopra della spalla di Kanon e lo intravide lì, a pochi metri da loro, stravaccato in poltrona e con i piedi sul tavolino, che addentava senza tanti complimenti un sandwich di proporzioni inumane e sgocciolante di mostarda. Con l'altra mano invece smanettava sullo smartphone. Lanciò un urlo tale che la soglia sopportabile dei decibel fu superata in maniera preoccupante, mentre si copriva il petto con le mani come meglio poteva. Si guardò attorno in preda al panico, cercando i vestiti e continuando a urlare. Traballando sui tacchi vertiginosi, li raccolse in tutta fretta, ammassandoseli poi addosso, per coprirsi alla bell'e meglio.
«Bastardo!» urlò la donna. Lo prese a pugni e spintoni sul petto, continuando a insultarlo, perché Kanon stava ridendo di lei.
«Mi sa che la sera è rimandata», commentò a mezza voce Aiolos, con la bocca piena e le labbra sporche di mostarda piccante, proprio quella che piaceva a lui.
Kanon si girò verso l'amico, scambiando uno sguardo d'intesa come ai vecchi tempi. Poi, si avvicinò alla donna e l'afferrò per un braccio, interrompendo così la sua furia. Lui sembrava essere tornato sobrio tutto d'un colpo. «Mi dispiace, cara, sarà per un'altra volta», le disse con un sorrisetto sulle labbra.
Camille si divincolò e lo spinse con maggiore forza, fino a farlo cadere sul divano, a gambe all'aria.
«Vai al diavolo, Hayes! Vai al diavolo!» gli urlò nuovamente, mentre si rivestiva in fretta. La risposta di Kanon fu un'altra fragorosa risata. Ormai l'eccitazione della serata era passata e lui non aveva più voglia di stare con quella donna.
«Conosci la strada, vero?» le disse, con tono un po' canzonatorio. «Chiedi al portiere di chiamarti un taxi. Offro io!» continuò, alzando la voce, poiché lei se ne stava andando. Pochi secondi dopo, si sentì un gran sbattere di porte e lui si lasciò andare a una risata ancora più forte e divertita, che in sé portava però il disprezzo che provava per la situazione in cui si era messo.
«Pare che le tue quotazioni siano in ribasso!»
«Già. Ultimamente non ne mando più una in buca», sbuffò Kanon.

Passarono diversi secondi di silenzio nel salotto del lussuoso attico degli Hayes. Il respiro di Kanon si stava normalizzando, dopo tante risate amare; Aiolos invece continuava imperterrito a mangiare.
«Che diavolo ci fai qui?» gli domandò, arruffandosi i capelli.
«Non avevo più niente da fare a casa, così sono venuto a vedere cosa combinavi», rispose Aiolos, leccandosi le dita dopo aver mandato giù l'ultimo boccone.
Kanon sbuffò ancora una volta, più scocciato di prima. Avrebbe dovuto mettersi in una posizione più composta, invece era rimasto lì com'era, con un principio di mal di testa che non preannunciava nulla di buono. «Lui come sta?» chiese. Non ci credeva affatto che l'amico fosse lì, a New York, solo perché si annoiava a stare a Boston. Era più verosimile che fosse venuto per dargli notizie di Saga.
L'altro rispose con un'alzata di spalle. Posò sul tavolino lo smartphone e si alzò. Fece il giro del divano e si fermò proprio sopra Kanon, in mezzo alle sue gambe ancora imprudentemente larghe. L'erezione si stava pian piano sgonfiando con il passare dei minuti. Aiolos gli posò le mani sulle ginocchia, pesadovi sopra dispettoso e lo fissò con un ghigno ambiguo. Sapeva che così facendo avrebbe fatto sudare freddo l'amico.
«Che diavolo ti sta passando per la testa?» disse con un lieve panico nella voce, che lentamente si stava trasformando in terrore, nel vedere l'altro troppo interessato ai suoi “paesi bassi”. E nella sua, di testa, si stava già dando dell'imbecille, perché mai e poi mai doveva offrirsi in quel modo.
Aiolos sogghignò. «Ti preparo qualcosa da mangiare», disse, porgendogli la mano e aiutandolo a rimettersi in piedi. E una vendetta ancora più dolce – per tutte le volte che l'altro lo aveva sfottuto – se la prese nel vederlo barcollare e trattenere dei conati di vomito, portandosi le mani alla testa.
«Allora, me lo dici perché sei qui?» riprovò Kanon, con la mano a coprire la bocca, ora pallido in volto. Lo seguì fino in cucina, ma si bloccò sulla soglia, trattenendo il respiro. «È successo qualcosa?»
«Ne sono successe tante, di cose», disse con un mezzo sorriso Aiolos, prendendo dal frigo una bottiglietta d'acqua e lanciandola all'altro.
Kanon ne trangugiò il contenuto a gradi sorsate, sospirando soddisfatto.
«Ma lui sta bene? Dici che è il caso di tornare?»
«Sarebbe inutile, l'ho spedito alle Cascate del Niagara prima di venire qui.»
«Cosa?» Kanon strabuzzò gli occhi a quella notizia. «Ma allora la situazione è davvero grave se lo hai fatto espatriare!» esclamò quasi scioccato, ma si tradì piegando le labbra in un mezzo sorriso di scherno.
«Non ti esaltare in questo modo», disse Aiolos, tagliando con un movimento secco il sandwich appena preparato, tanto che il tac sul tagliere risuonò più minaccioso di quanto in realtà non fosse. «È andato in Luna di miele», spiegò, masticando amaro quelle parole.
La stessa reazione, o quasi, la ebbe anche Kanon. «Ah, allora me ne vado per qualche giorno negli Hamptons.»

*****

Caroline aveva dato poco peso a come aveva ceduto facilmente all'idea che le aveva messo in testa Aiolos: in quel periodo le mancava la voglia di fare qualsiasi cosa. Aveva a malapena accennato alle Cascate del Niagara e, come per magia, si era ritrovata lì. Erano bastate un paio di telefonate, il tempo di preparare una valigia, impacchettare la gattina – perché questa volta l'avrebbe portata con sé, considerato che non sapeva quanto sarebbe stata via – e arrivare in aeroporto per salire sul jet privato della Hayes Corporation. E ora si trovava lì, in uno dei più lussuosi alberghi in cui avesse mai avuto la fortuna di mettere piede, costruito quasi sulle sponde della cascata, a meno di una mezz'ora di auto da Buffalo. E poteva godere di quello spettacolo straordinario direttamente dalla finestra della sua suite.
Erano due giorni che non si muoveva dalla camera, praticamente da quando era arrivata. Stava davanti alla finestra per delle ore, seduta su una comoda chase longue e con Kitty acciambellata sulle sue gambe per la maggior parte del tempo. Il servizio in camera passava tre volte al giorno e almeno metà di ciò che le veniva portato ritornava indietro. Non era lei a ordinare: tutto era stato stabilito da Aiolos. Come avesse fatto era un mistero.
Lo sapeva già prima di partire che non sarebbe servito a nulla, non era in vena di godersi la vacanza e la solitudine che stava vivendo accentuava in lei i sensi di colpa che provava. La prima notte aveva avuto dei forti crampi allo stomaco che l'avevano costretta a passarla praticamente in bianco; ma anche in seguito aveva fatto fatica a riposare. Forse era l'aria di Buffalo che non la faceva sentire rilassata. Questo si era detta quando aveva lasciato la suite, pronta a tornarsene a casa.
«Come da istruzioni ricevute, le abbiamo prenotato una suite nel nostro hotel gemello, sul versante canadese delle cascate. Siamo spiacenti che voglia lasciarci così presto e ci auguriamo che la permanenza sia stata di suo gradimento», disse con tono professionale la donna al bancone della reception, restituendole i documenti.
Cora fu investita da quelle parole. Forse, ancora disorientata dal suo stato apatico, non si rese conto di cosa le stava capitando attorno e si ritrovò, suo malgrado, sul sedile posteriore di un taxi che la stava portando in Canada.
L'hotel era la copia esatta di quello appena fuori Buffalo, con la sola differenza che a ogni angolo c'erano bandiere del Canada e non degli Stati Uniti e la gente era più cordiale. Rimase piacevolmente sorpresa dal cambiamento. Persino l'aria sembrava migliore, più frizzante, più energizzante. E, di conseguenza, il suo umore ne fu un poco contagiato. Fece portare il bagaglio nella suite – anche questa era predisposta per ospitare piccoli animali – e accettò l'invito del receptionist di aprofittare della terrazza rialzata, dalla quale si poteva godere di una vista esclusiva della parte di cascata denominata Ferro di cavallo.
Scelse di sedersi a un tavolo vicino la balaustra fiorita. Il fragore di quell'ammasso d'acqua che precipitava per oltre cinquanta metri era potente e, nonostante la terrazza fosse a una buona distanza, si sentiva frastornante fin lì e faceva da sottofondo alle conversazioni. Ne rimase da subito attratta, tanto che il cameriere, quando ritornò al suo tavolo neanche cinque minuti dopo, fu costretto a ripetere due volte. Le portò una cioccolata calda e una fetta di torta allo zucchero di canna. O, come la chiamavano loro, tarte au sucre brun.
Cora fissò il cameriere, perplessa. Non aveva ordinato nulla, ma accettò senza muovere obiezione. Sorrise debolmente e rigirò la tazza portandosi il manico sul lato sinistro. La cioccolata calda era stata servita senza tanti fronzoli, accompagnata solo da manciata di mini marshmallow a parte. Lei li scartò subito: non le erano mai piaciuti, troppo dolci e appiccicosi alla masticazione, al contrario di Mickey che invece ne andava ghiotto.
Teneva lo sguardo fisso sulla cascata, mentre sorseggiava la bevanda densa e profumata. Il sole era alto nel cielo. Intenso e caldo, mitigato un poco dalla brezza che arrivava direttamente dalla cascata. Considerò che aveva fatto bene a tenere con sé il cappello a tesa larga, anche se si sentiva a disagio a indossarlo. Di tanto in tanto aveva la sensazione che delle goccioline d'acqua arrivassero sino a lei. Era una sensazione piacevole, anche se le provocava qualche brivido. Si passò le mani sulle braccia, indossava dei guanti senza dita, di cotone sottile, lavorati all'uncinetto e che arrivavano fino a metà avambraccio. Erano decorati con una rosellina della stessa tonalità dei guanti, anch'essa lavorata a mano.
Appoggiò un gomito al tavolino, reggendosi il mento con la mano. Per la prima volta dopo giorni le sue labbra si piegarono in un sorriso leggero. Respirava piano e una timida serenità stava rilassando il suo cuore. Si sentiva come se tutte le cose negative che le avevano gonfiato il cuore di dolore le avesse lasciate alla frontiera. Iniziò persino a spizzicare la torta con la forchettina, mettendosene in bocca una punta. Era dolcissima, ma non era affatto male. Sospirò, avrebbe voluto condividerla con Saga: anche a lui sarebbe piaciuta. Avvertì un pizzicore agli occhi quando formulò quel pensiero. Sentiva la sua mancanza, lo voleva accanto a sé.
«Signorina», richiamò la sua attenzione un cameriere. «Va tutto bene?»
Cora alzò lo sguardo su di lui. Poi, si guardò attorno: la terrazza sembrava più animata di prima. «Cosa succede?» chiese lei, cercando di capire il motivo di tale fermento.
«Più o meno a quest'ora, il sole e l'acqua della cascata formano un arcobaleno. È una delle attrattive più particolari della cascata, in questo periodo», le spiegò il cameriere che in mano teneva un vassoio con sopra una fetta di Boston cream pie e che subito posò sul tavolino, proprio di fronte alla giovane.
«Non l'ho ordiata io, questa», disse lei, rifiutandola. Nello stesso momento in cui se l'era ritrovata davanti, si domandò come fosse possibile trovare in Canada il dolce tipico della sua città.
«Gliela offre quel giovane laggiù», rispose il cameriere, indicandoglielo. «Non è gradita? Devo riferire qualcosa?»
Cora si voltò a guardare, ma non riuscì a individuare il misterioso ammiratore.
«Devo portarla via?» chiese una seconda volta il cameriere. Cora scrollò la testa, riaccostando a sé il piattino.
Non aveva fame, neanche aveva consumato metà dell'altra fetta di torta, che per inciso non aveva ordinato ma che aveva scoperto essere stata “programmata”, così come tutto il resto del suo soggiorno. Però, non se la sentiva di rimandare indietro la Boston cream pie: le ricordava casa e... lui.
Sotto il tovagliolino di carta c'era un foglietto. Lo prese e lo lesse. C'era scritto: “È la mia torta preferita. Vorresti dividerla con me?”
Subito alzò lo sguardo e si affannò a cercare la persona che aveva scritto il biglietto. E, quando finalmente la individuò, il suo cuore perse un battito.
Lo vide avvicinarsi al tavolino a passi lenti, sicuro di sé. Sembrava un turista come un altro, con quella semplice maglietta polo e i jeans, eppure riusciva a distinguersi lo stesso, perché i suoi occhi ora non vedevano altro che lui.
«Ciao»
«Ciao», rispose Caroline, con voce titubante ed emozionata.
Gli occhiali da sole, sotto quel grande cappello, nascondevano i suoi occhi nervosi che si stavano velando di lacrime. Abbassò la testa e si portò le mani al grembo, iniziando a tormetarsele: non sapeva cosa dire e quel silenzio fra loro due si stava caricando di tensione.
«Sei una ragazza difficile da inseguire», provò a scherzare, Saga. «Quando sono arrivato all'altro hotel, mi hanno detto che te n'eri appena andata.»
«Mi dispiace. È stata una sorpresa anche per me.»
Saga le sorrise: non c'era motivo che Caroline si dovesse scusare, lei non aveva alcuna colpa. Accennò a un movimento con la mano, forse per accarezzarla. Invece, si inginocchiò di fronte a lei.
«Cora...» Deglutì, nervoso. Anche lui sentiva il peso dell'emozione. «Caroline Miller», disse subito dopo, preferendo essere più formale, poiché il momento lo richiedeva. Le prese entrambe le mani nelle sue. «Vuoi essere ancora la signora Hayes?»
La giovane si irrigidì inconsciamente: era senza parole.
«Vuoi essere mia moglie?» le domandò ancora una volta, guardandola negli occhi, sfidando la barriera dei suoi occhiali da sole.
Le stava girando la testa. Per sua fortuna era seduta, altrimenti le sue gambe non avrebbero certamente retto. Una folata d'aria smosse l'ampia gonna del vestito che indossava. Si morse il labbro e il suo respiro si fece irregolare.
Saga le strinse un poco di più le mani, per incoraggiarla a dargli una risposta. I suoi occhi esprimevano tutta la convinzione di quelle parole, ma anche che non era disposto ad arrendersi a un rifiuto.
Cora mosse le labbra, avrebbe voluto rispondergli un “Ancora mi vuoi, dopo quanto successo?” ma non riuscì ad articolare quelle parole. Dalla sua bocca uscirono parole diverse: «Solo se mi prometti che mi darai un figlio.»
«Solo se questo non ti metterà in pericolo», replicò Saga, accennando un sorriso emozionato. Dalla tasca dei jeans prese una scatolina di raso e l'aprì davanti a lei. «Avrei dovuto dartela da tempo. Avrei dovuto fare le cose per bene...»
«Basta così. Non c'è bisogno di altre parole», lo interruppe lei, con un sorriso innamorato, offrendogli la mano sinistra. Saga le prese la mano e le infilò l'anello al dito. Poi, Caroline fece lo stesso con l'altra fede nuziale.
Fu solo in quel momento, quando sentirono un lungo ed entusiastico applauso, che si accorsero di essere attorniati da decine e decine di persone che si erano radunati attorno a loro e avevano assistito a quella dichiarazione, condividendone con loro l'emozione. C'erano tanti cellulari alzati che scattavano foto e filmavano. Qualcuno, in mezzo a loro, fischiava in approvazione, gridando a gran voce “Bacio! Bacio!”
Saga sorrise imbarazzato, senza però distogliere gli occhi dalla sua Caroline. Si alzò, le scoprì la testa dal cappello, le tolse anche gli occhiali da sole e, prendendole il viso fra le mani, la baciò con passione.



   
 
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