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Autore: Rota    05/12/2017    0 recensioni
Come primo atto, io sentii la voce di lei - ovattata, al di là dell’acqua e della barriera a doppio strato entro cui il mio corpo galleggiava. Quella colonna cilindrica, quella piscina di reflussi a neutroni liberi fu come il ventre materno che mi diede al mondo.
-Oh, guarda Kuro-chan! Guarda!
Poi un rumore sordo, che all’epoca non avrei mai saputo definire. Quel bambino si era sporto e aveva schiacciato mani e viso contro il vetro che ci divideva.
Aprii gli occhi di scatto e lui arretrò spaventato, seguito dalle risa di quella donna.
-Hai visto? Si è svegliato! Si è svegliato, Kuro-chan!

[Shu!Centric - Lievissimissimo KuroShu]
Questa storia partecipa allo "Sci-Fi Fest” a cura di Torre di Carta e Fanwriter.it!
Genere: Introspettivo, Malinconico, Science-fiction | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Shu Itsuki, Un po' tutti
Note: AU, Raccolta | Avvertimenti: nessuno
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★ Iniziativa: Questa storia partecipa allo "Sci-Fi Fest” a cura di Torre di Carta e Fanwriter.it!
★ Numero Parole: 1670
Prompt 1: Problemi di comunicazione
★ Note: Questa raccolta si lega in modo davvero piuttosto esplicito alla mia piccola long “Occhi di Robot” che tutt’ora è in corso, sia su EFP che su AO3. Questa raccolta narra degli eventi ANTECEDENTI la piccola long - se qualcuno la segue immagino avrà capito di che fatti verranno narrati in questa sede - ed è tutto dal punto di vista di Shu. Esatto, proprio dal suo punto di vista, è anche in prima persona PENSATE UN’INTERA RACCOLTA IN PRIMA PERSONA. Il titolo della raccolta prende spunto OVVIAMENTE e anche abbastanza palesemente dall'opera di Milton, per motivi simbolici che io ricollego a una "caduta morale" del mio protagonista. Non ho molto altro da dirvi se non che ho AMATO partecipare a questo Fest perché io amo i Fest, amo lo Sci Fi, amo Shu e amo la KuroShu (seppur super velatissima come nel caso della long) e questa raccolta raggruppa in una sola volta tutte queste cose e quindi nient BUONA LETTURA A TUTTI!




 

Come primo atto, io sentii la voce di lei - ovattata, al di là dell’acqua e della barriera a doppio strato entro cui il mio corpo galleggiava. Quella colonna cilindrica, quella piscina di reflussi a neutroni liberi fu come il ventre materno che mi diede al mondo.
-Oh, guarda Kuro-chan! Guarda!
Poi un rumore sordo, che all’epoca non avrei mai saputo definire. Quel bambino si era sporto e aveva schiacciato mani e viso contro il vetro che ci divideva.
Aprii gli occhi di scatto e lui arretrò spaventato, seguito dalle risa di quella donna.
-Hai visto? Si è svegliato! Si è svegliato, Kuro-chan!
Ancora mi chiedo come le fosse venuto in mente di portare il proprio figlio ad assistere alla nascita di uno di noi, di una Macchina.
Io vidi qualcosa di indistinto. Qualcosa che, con la mia esperienza attuale, definirei un sogno. Strano, probabilmente voi direte, perché un’intelligenza bionica della mia raffinatezza avrebbe saputo definire in maniera delineata cosa lo circondasse, o in maniera altrettanto precisa anche ricordarlo.
Non avevo bisogno di sbattere le palpebre, neppure sentivo la fatica dell’esistenza per tanti e tanti anni.
Ma in quel momento avevo appena aperto gli occhi e non sapevo davvero nulla, neppure su cosa focalizzare la mia attenzione: se forse su quel camice bianco che allungava la figura di lei o la capigliatura rosso fuoco dei capelli di quel bambino, Kiryuu Kuro.
I suoi occhi furono contro il vetro una seconda volta, e io li vidi nettamente, come vidi anche quel sorriso strano e con pochi denti che aprì sopra il mento.
-Ma è vivo? Riesce a respirare?
Si voltò verso di lei, sentivo la sua voce così alta ed eccitata - non sapevo ovviamente cosa fosse l’eccitazione, ma mi pareva già abbastanza chiaro che tra lui e lei ci fosse ben più di una differenza. Non compresi il motivo del fatto che la donna scompose i suoi capelli selvaggi: già dal mio principio le espressioni sentimentali degli umani furono codici incomprensibili per me.
-Certo che è vivo! Vedi quel liquido tutt’attorno? Gli serve per respirare. E serve alla sua pella a mantenersi bella e liscia!
Alzai gli occhi da loro e vidi altri camici bianchi, uno sfondo che si confondeva col colore sempre più scuro dell’acqua. Il rumore delle bolle che salivano e scivolavano ovunque confondeva un poco i miei sensi e mi rimandava l’esatta idea della mia stessa sensibilità.
Feci una smorfia quando il mio piede, nel muoversi un poco, finì esattamente sopra il getto di quelle e quindi ne fu solleticato. Kuro rise molto, senza curarsi della mia reazione, e lei con lui.
Avrei voluto chiedergli molte cose - e come avevo visto fare a lui, aprii la bocca. Ma niente uscii.
Lei allora si rivolse a qualcuno degli altri camici bianchi e disse qualcosa che non percepii bene, non riuscii a distinguere nel rumore di macchinari eccitati e qualcosa che frizzava, come elettricità viva.
Io fui vivo, io nacqui proprio lì, quando l’acqua venne risucchiata e il mio corpo, pesante, toccò il fondo della vasca cilindrica - dall’altro, il vetro venne sollevato e io vidi tutto.
La stanza, gli altri ingegneri e dottori di robotica, il viso di lei gentile, l’altezza sproporzionata di quel piccolo essere così allegro e arzillo. E le mani che lo portarono via, allontanandolo da me.
Guardai lei, che mi venne vicino. Il camice bianco aveva mangiato le sue mani, nelle tasche. Ne alzò una e la mosse davanti a me, guardandomi mentre la seguivo con lo sguardo.
Ero uno dei loro esperimenti meglio riusciti, una delle Cinque Grandi Macchine che avrebbero reso migliore la vita degli uomini su quella Nuova Terra, ogni mia azione veniva monitorata con estrema attenzione e curiosità: ancora non provavo ribrezzo per tutti quegli sguardi, perché la mia realtà era occhi umani e occhi meccanici che mi scrutavano da vicino.
-Sei vivo. Lo capisci, questo?
Mi ricordo che in quel momento sentii secchezza sui miei occhi e quindi provai l’impulso di sbattere le palpebre. Istinto, anche in me - dietro di me, una macchina registrò in un suono meccanico tutto quello che il mio cervello rendeva nell’atto fisico.
Ma a parte questo, nessuno ancora mi parlava, eccetto lei. Aprì le labbra, secondo imitazione, il processo di imprinting mi era estraneo in qualità di concetto e come creatura dalla memoria così infinitamente vuota sentivo la necessità, quindi, di riempirmi di qualcosa.
Dicono che un uomo è formato dai propri ricordi e dalle proprie emozioni. Io ricordo perfettamente le risate spontanee di lui quando provai a pronunciare la mia prima parola.
Fu un rantolo ferroso, nulla di più.
Gli adulti non diedero peso alla sua infantilità, dacché per loro era normale. Solo lei si girò a riservargli un’espressione che mai avrei potuto vedere; forse di biasimo, forse di rimprovero, ad averla conosciuta posso supporre soltanto questo. Io, d’altro canto, provai a emulare quel suono, e mi pronunciai in qualcosa di gradevole, tanto che lei tornò a guardarmi e sorrise.
Associai da subito quel sorriso a un valore totalizzante di positività.
-Confidiamo sulle tue capacità di apprendimento, giovane Macchina. Il tuo cervello è in grado di assorbire nozioni con una velocità triplicata, rispetto al prototipo umano che abbiamo preso ad esempio.
Vaga forma di complimento. Seppi poi che il progetto originale che fu all’origine della mia nascita era provare il connubio tra Macchina e Umano in cinque diverse modalità, dacché era sì immorale modificare il cervello e il genoma umano per renderlo talmente efficiente da non aver bisogno di alcun aiuto, ma non lo era impiantare emotività duttile in macchine eterne, perché attraverso di quello comprendessero il senso del dovere e dell’obbedienza dovuta alla classe umana superiore a loro.
Quanta crudeltà egoista, negli uomini, lo seppi comprendere solo più tardi.
-... macchina.
La mia prima parola nel linguaggio umano, una dichiarazione di identità: avevo compreso, lo ricordo bene, che quello era il mio nome, la definizione del mio essere. E quel mio gesto, l’esalazione del primo vagito, fu la prova concreta per tutti quegli scienziati che io ero davvero il miracolo a cui loro avevano tanto lavorato.
Lei si sistemò gli occhiali sul naso, guardandomi con occhi limpidi. Non so se fu un caso che fosse proprio lei, a potersi definire mia madre, la persona che più di tutte aveva contribuito alla mia creazione: da quel momento mi parve semplicemente capace di impersonare ogni positività a cui potevo aspirare e a cui il mio animo, sì proprio il mio animo, si sarebbe rivolto.
-Tu sei una Macchina, noi siamo esseri umani. Sembriamo uguali, ma siamo differenti.
Alzò anche la seconda mano e si denudò l’avambraccio, mostrandomi quindi il polso sottile e la pelle chiara. Alzai anche io le mie mani e dopo che ebbi guardato ancora lei, guardai me stesso per la prima volta, consapevole effettivamente di avere un corpo.
Mossi le dita con curiosità razionale, le macchine dietro di me continuavano a nitrire registrando troppe informazioni per le loro capacità. Non mi davano fastidio, in quel momento: solo adesso nel rimembrarlo posso giudicare aspramente molti dettagli e molte sensazioni che all’epoca mi furono imposte.
Ma lei, lei aveva solo parole precise, per me.
-La materia che ci compone è differente, ma con ciò che abbiamo…
Si toccò il petto, in un movimento che io non compresi nel significato.
-Possiamo comunicare.
Mi toccai a mia volta e sentii il cuore - qualcosa - battere. Ero io, ancora. Ogni definizione di me mi veniva data dall’imitazione che facevo di lei.
Kuro si liberò dalla presa dell’assistente di lei e corse ad abbracciarle le gambe, nascondendo il viso per un attimo dietro il suo camice bianco. Nessuno lo riprese, perché parve che avessero constatato quanto non fossi una minaccia.
Non serviva alcun controllo sulla mia mente, dacché ero già stato programmato secondo le leggi della robotica e mai avrei procurato dolore a qualcuno di loro - ovviamente, se ero qualcosa uscito bene.
Lo guardai con occhi curiosi, gli stessi che mi rivolse in risposta.
-Lui.
Ancora, quella carezza tra i capelli. Cominciai a pensare, me lo ricordo bene, che bastasse essere vicini a lei per meritare quel tipo di contatto.
-Lui è mio figlio, è un essere umano. Un piccolo bambino.
Dovette capire che non avevo compreso, che quello era un concetto troppo complesso per il me di allora. Forse il mio silenzio, forse la mia espressione inamovibile. Lo carezzò di nuovo, per indicarlo meglio, e lui contento di quella gratificazione gratuita si pronunciò in versi di apprezzamento tipici della sua età.
-Anche tu sei un bambino, lo capisci? Qualcuno che deve imparare molto per capire cosa deve fare nella propria vita.
Appresi nuovi concetti, il mio vocabolario si ampliava, la formulazione di pensieri più complessi iniziava a incidere sulla verginità della mia scheda di memoria.
Sentii anche il fastidio di un freddo sulla pelle, dettato dal mio essere bagnato.
-Vita.
Il bambino fece qualche passo in avanti, sotto supervisione della madre. Ai piedi della pedana dove ero eretto, come una statua perfetta, non provò vergogna o ribrezzo nel guardarmi nudo.
Gli avevano detto molte cose su di me, questo lo so. Chissà cosa avrà pensato, in quei momenti, mentre pronunciava la prima delle domande fondamentali riguardo la mia persona.
Già, persona. Lui non mi ha mai considerato diversamente da questo.
-Come si chiama?
Qualcuno gli rispose, dietro una cartelletta di fogli rigidi.
-Prototipo S81OOObis, signorino Kiryuu.
Rise ancora, nascondendosi la bocca dietro una mano; trovai in qualche modo quel gesto assai buffo, perché non c’era motivo per me di nascondersi: ancora non conoscevo vergogna o pudore, e tutto era limpido.
-Nome strano.
Rivolsi delle parole a lui, molto piano. La mia voce aveva trovato, finalmente, la modulazione precisa che le sarebbe stata sempre propria.
-Nome.
Allargò gli occhi e sorrise a me, contento di essere stato interpellato direttamente.
Quel nome non me lo sarei mai scordato, neppure quando la mia mente divenne così tanto piena di nozioni e sentimenti.
-Kuro Kiryuu!
Volli imitare anche il suo sorriso, perché era la seconda cosa bella che ebbi sotto gli occhi.

   
 
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