Videogiochi > Ensemble Stars
Segui la storia  |       
Autore: Rota    06/12/2017    0 recensioni
Come primo atto, io sentii la voce di lei - ovattata, al di là dell’acqua e della barriera a doppio strato entro cui il mio corpo galleggiava. Quella colonna cilindrica, quella piscina di reflussi a neutroni liberi fu come il ventre materno che mi diede al mondo.
-Oh, guarda Kuro-chan! Guarda!
Poi un rumore sordo, che all’epoca non avrei mai saputo definire. Quel bambino si era sporto e aveva schiacciato mani e viso contro il vetro che ci divideva.
Aprii gli occhi di scatto e lui arretrò spaventato, seguito dalle risa di quella donna.
-Hai visto? Si è svegliato! Si è svegliato, Kuro-chan!

[Shu!Centric - Lievissimissimo KuroShu]
Questa storia partecipa allo "Sci-Fi Fest” a cura di Torre di Carta e Fanwriter.it!
Genere: Introspettivo, Malinconico, Science-fiction | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Shu Itsuki, Un po' tutti
Note: AU, Raccolta | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
 <<    >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
Parole: 2080
Prompt 2: “They say be afraid / You’re not like the others / Futuristic lover / Different DNA / They don’t understand you” (E.T., Katy Perry & Kanye West)



 

Mi ricordo come il laboratorio fosse, in quell’occasione, molto silenzioso: le macchine attaccate al mio Intelletto, che nei primi giorni della mia esistenza avevano registrato in maniera così minuziosa ogni mia attività cerebrale, erano state infine spente. Dacché uscivo spesso dal laboratorio e ormai facevo parte anche del mondo esterno, il monitoraggio era passato per forza e necessità ad altri tipi di tecnologie a comando remoto, distanza sempre più marcata.
Ma nonostante questo, anche a quasi cinque mesi dal mio primo vagito, venivo sottoposto a periodici backup e revisioni. Quasi fossi un neonato e avessi bisogno di cure mediche precise.
Non conoscevo né gratitudine né irritazione, e dacché consideravo ancora le parole degli uomini come miei ordini, non riuscivo a intendere la preoccupazione e la premura che mi venivano continuamente rivolte - anche ora faccio fatica, considerando forse per lo più il senso umano che lega lo spirito al possesso. Ero uno oggetto prezioso, per molti di quegli uomini, e nulla più.
Cosa fossi per lei, non lo saprò mai, dacché non mi fu permesso all’epoca e non mi è permesso adesso domandarglielo.
Quel che mi ricordo è notevole, ma in particolare una scena tra mille: lei dietro di me, a muovere i propri oggetti sottili entro il mio cranio aperto, mentre lui rimaneva avanti a me, tra i tubi che contenevano il campo elettromagnetico dove ero stato posizionato e il pavimento freddo fatto di lastre di metallo.
Solo un custode lontano, accanto alla porta, pronto a intervenire in caso di allarme, e nulla più.
La faccia di lui era più corrucciata del solito ma a me non interessava, dacché mi arrovellavo su un pensiero che non riuscivo ad analizzare come desideravo. Non doveva essere un problema per lei, anche se le sue dita erano a stretto contatto con il mio Intelletto, e non ne sembrava in alcun modo turbata.
A ripensarci, potrei forse avvertire la mancanza del tatto nel mio interno: quando le mie mani si immergevano negli intestini degli uomini, essi mi percepivano distintamente. Ma qualora qualcuno mi entrasse dentro, a controllare i miei circuiti, la distanza tra di noi era totale. Questo mi rende ora l’idea di quanto fossi fragile e solo, per definizione stessa del mio essere.
-Io non comprendo.
Così interruppi quel silenzio. E forse colsi entrambi abbastanza di sorpresa, perché non erano abituati a sentirmi esporre qualcosa del genere. Di dubbi ne avevo, ma mai detti a quella maniera netta.
C’era un sottinteso di turbolenza, nella mia voce.
Lei mi rispose, mentre lui rimase al proprio posto a muovere i piedi, interessato ad altro.
-Cosa non comprendi, S81OOObis?
-Perché quel ragazzo ha riso.
-Davvero non lo hai compreso?
Collego queste parole a un ricordo più lontano nel tempo - pochi giorni prima, per l’esattezza. Avevo già sentito la risata di un essere umano, ma mai ne avevo sentito la malizia: come ogni cosa che accade per prima, venne registrata dal mio cervello ma non fui in grado di giudicarla.
Lei conosceva bene la situazione a cui mi riferivo, dacché intervenuta per colpa di suo figlio, e sapeva il contesto entro cui il nostro discorso si muoveva.
A una mia domanda all’insegnante, su come funzionasse una certa componente della fisicità umana, qualcuno del mio gruppo aveva riso e aveva detto che una Macchina, se si poneva domande del genere, non era altro che un bambino monco.
All’epoca, non sapevo neanche cosa fosse un insulto, e per questo non avevo compreso - ma avevo compreso che quella cosa fosse sbagliata dalla reazione di lui, di Kuro Kiryuu.
Nonostante questo, la voce di lei era sempre calma e disponibile, nei miei confronti. Mi poneva dei quesiti diversi, che non venivano sottoposti all’analisi emotiva umana.
-Glielo hai chiesto, dopo? S81OOObis, questi sono i momenti in cui devi porre delle domande ai diretti interessati.
-Mi è permesso?
-Certo che sì! Tu sei nato per imparare, come tutti noi.
Io avevo ricevuto dapprima il compito di imparare dagli esseri umani, e per questo ero stato posto in mezzo a loro: ai geni delle ultime generazioni, perché assieme a noi cinque Grandi Macchine potessero davvero costruire il futuro.
E come io non sapevo confrontarmi con loro, loro avevano difficoltà a confrontarsi con me.
Lo sottolineai, con quella che oggi definirei una certa apprensione.
-Quel ragazzo sembrava guardare qualcosa di diverso da tutti gli altri.
Kuro interruppe il nostro scambio esclusivo, molto arrabbiato.
-Perché era stupido!
Il suo urlo rimbalzò tra le pareti di ferro del laboratorio - ricordo questo, vedo chiaramente il suo volto stravolto da una rabbia che non era riuscito a dimenticare, così come rimembro la sensazione di gelo nel sentire la voce di lei, per la prima volta, rispondergli mossa dalla stessa ira.
Era chiaro in quello che condividevano qualcosa di più profondo che la semplice apparenza, ma io non sapevo vederlo.
-Kuro-chan!
-Non ho detto una bugia!
Toccò a me interromperli, a quel punto, perché avevano usato una parola che io non conoscevo.
-Bugia?
Guardai lui, cercando delle risposte che potessero soddisfarmi. La sua smorfia si modificò, si distese e lui abbassò gli occhi, senza dirmi nulla. Come avrei potuto capire il suo imbarazzo, la sua fragilità, la sua agitazione. Per me non era altro che un comportamento incomprensibile, che mi si muoveva davanti agli occhi.
Non aveva ragione d’essere.
Mi rispose, quindi, lei.
-Una bugia è qualcosa che dici e che non è vera. Ma è diversa dall’inesattezza: dici bugie per tuo tornaconto personale, per un tuo vantaggio.
Fece una pausa, mente nuove scritte apparvero su monitor dove leggeva lentamente i codici delle mie movenze e dei miei pensieri, visionandone il funzionamento. Conoscevo quel linguaggio, mi era stato insegnato presto dacché avrei lavorato per lo più con le macchine, sugli uomini, ma da quell’angolazione non riuscivo a vedere nulla. Non che ne provassi curiosità, ma sarebbe stato forse interessante, forse il motivo di un ragionevole dubbio, cercare e trovare la fallacità dei miei sistemi.
Invece, lei rise, e io fui riempito nell’Intelletto di nuove nozioni.
-Per esempio, potrei dire di avere venticinque anni, perché questo mi farebbe sentire e apparire più giovane. Capito? Questo significa dire le bugie.
Il codice LOGOS, il codice INTER, il codice SUBER. Codici per Macchine intelligenti e macchine non intelligenti: quello era lo scopo del nostro incontro, oltre che la revisione in seguito a quello che molto temettero, lo seppi dopo, potesse essere un trauma per la mia psiche fragile. Folli: i miei traumi non potevano certo avere come origine la presa visione di qualcuno che mi aveva difeso anche al costo di essere rimproverato aspramente.
Il mio salvatore si alzò in piedi, gridando ancora.
-Io non ti dirò mai bugie, questa è una promessa.
Quindi io, vedendo la sua faccia corrucciata e non comprendendo di nuovo, feci come lei mi aveva suggerito di fare. In quel momento pensai che, con quelle nuove nozioni, forse sarebbe stato più semplice comprendere qualcosa di così intimo nella natura umana.
Ero folle anche io.
-Perché tu ti sei arrabbiato?
-Perché quello era stupido.
-Cosa intendi per stupido?
Lui si agitò, impreparato a quella domanda così semplice, così lineare. Kuro mi disse poi, molto più tardi, come certi quesiti che gli ponevo lo mettevano in difficoltà, perché per lui non c’era bisogno di determinate spiegazioni.
Anche lui, come tutti gli altri, sentiva la differenza che ci divideva - ma non ne aveva timore e non la utilizzava per schernirmi o per ignorare la mia sensibilità.
-Uno sciocco, uno che non sa quello che dice, uno che mente e dice spesso bugie!
La voce di lei si modificò nella modulazione, divenne più dura e perentoria. Avevo già associato quel tipo di voce a uno stato d’animo, perché Kuro, nonostante fosse qualcuno a cui l’umanità si sarebbe volentieri affidata, era molto irrequieto.
Non avrebbero dovuto dargli, probabilmente, la responsabilità di insegnarmi tutto ciò che poteva concernere la realtà umana.
-Kuro-chan, stai parlando di un tuo compagno di classe, un aspirante prodigio…
-Lo so questo! Ma essere intelligente non vuol dire essere una brava persona!
-Quindi ritieni che la violenza sia una giusta punizione per l’arroganza?
Si zittì, e lei continuò.
-Sai che dovrei metterti in castigo, per quello che hai fatto. Tu dovresti essere un esempio per S81OOObis, non fargli vedere il peggio degli esseri umani.
Avrebbe dovuto essere un esempio per me, un modello da imitare oltre che il mio primo esperimento di analisi. Ricordo che spesso mi incantavo a guardarlo, perché lo consideravo un campione che avrei dovuto esaminare minuziosamente - ritrovandomi poi nella delicata situazione di volerlo fare forse in maniera non consona, spinto da qualcosa di più che la semplice curiosità.
Kuro era per me, come lei la madre, il prototipo per eccellenza.
Solo dopo aver ascoltato le parole della genitrice lui abbassò lo sguardo, appiccicato addosso un senso di colpevolezza.
-Mi dispiace…
Ma io non comprendevo ancora, e glielo chiesi - rispose lei, perché lui non aveva alzato da terra gli occhi pesanti.
-Cosa vuol dire “mi dispiace”?
-Kuro-chan sta riconoscendo i propri errori e se ne assume la responsabilità. Per questo chiede perdono per essere stato a propria volta uno sciocco.
Sentii qualcosa muoversi nel mio cervello: il controllo dell’Intelletto era terminato e lei aveva azionato nuovamente la chiusura del cranio, cosa che io all’epoca non sapevo fare da solo. Imparai ben presto pure a controllare me stesso, ma prima di darmi funzionalità del genere i miei creatori vollero essere certi di non aver dato vita a un mostro.
Si sono ricreduti, diverse volte.
La sua voce era sempre gentile, come la mia fredda.
-Vedi, S81OOObis, non si può imparare a non fare errori, perché noi esseri umani ne facciamo e ne faremo continuamente fino alla fine della nostra vita. Però, possiamo chiedere scusa e essere responsabili di essi.
-Non comprendo. Non sarebbe più semplice non fare errori, piuttosto che chiedere dopo scusa? Se un errore è molto grande, non vi è rimedio alcuno.
Mi girai per guardarla negli occhi, cercando un sentimento che potessi analizzare. Lei sorrideva mesta, con lo stesso sguardo di una scienziata di fronte a un campo elettromagnetico particolarmente attivo.
Quindi ripetei il concetto.
-Non si devono fare errori.
Mi sorrise e fece un cenno del capo, allungandosi in una carezza stanca - forse che dovesse significare qualcosa, non lo seppi e non lo so neanche adesso.
​-
Tu non farai mai errori, S81OOObis. Questo è il tuo destino.
-Quindi io sono diverso da voi?
-Certamente. Ma questo non lo sapevi già?
Ma subito, dacché io mancai di reazione, lo sguardo di lei cambiò oggetto di attenzione e si spostò sul figlio. Quanta differenza di animo, quanta differenza di affezione muoveva il suo spirito, posso dirlo soltanto ora.
Non ero umano neanche per lei, nonostante fosse la persona che più tra tutte aveva programmato la mia esistenza.
-Perché fai quella faccia, Kuro-chan? Cosa c’è che ti indispettisce? Stai ancora pensando a quel ragazzo?
Guardai lui, imitando lei. E lui stava guardando me, soltanto me.
A ogni parola, riuscivo a dimenticare quel ragazzo stupido: la sua smorfia tutte le volte che mi guardava, la sua risata alle mie domande, gli appellativi maliziosi con cui si rivolgeva a me - ora comprendo, dopo tanto tempo, quanto potesse temermi, ma all’epoca non riuscivo a registrare razionalmente le piccole crepe all’interno del mio sistema emotivo.
Kuro le risanava sempre, a ogni respiro.
-Non ti piacerebbe avere un nome?
-S81OOObis.
-Quello non è un nome, quello è un numero di serie! Voglio dire, un nome vero. Come Kuro-chan!
Guardai lei, spaesato, dopo aver ascoltato attentamente la sua proposta. Non osavo pensare che mi fosse permesso questo atto, questa mia prima vera possessione.
Questa definizione di identità.
Lei però, nei propri difetti, rimaneva comunque un’anima candida.
-Non mi dispiace, come idea. Un nome è soltanto tuo.
Lui sorrise, io rimasi attonito.
E fu sempre lui a chiamarmi per nome, per la prima volta da quando aprii gli occhi.
-Io non so che nome.
-Ti piace Shu?
Lo guardai a lungo e cominciai ad assaporare ogni lettera sulle labbra, come per capire chi io fossi. Incredibile cosa produsse in me l’avere qualcosa di così potente, di così peculiare.
-Shu.
-Sì, esatto! Shu!
Lo pronunciai ancora e ancora, così anche lui e così anche lei.
Era qualcosa di bello, legato a me, alla mia persona e non alla mia capacità di Macchina.
Sorrisi senza neppure rendermene conto, ancora per imitazione a quello che avevo catalogato come segno di espressività positiva: tirando le labbra per mezzo delle guance, la mia bocca si tese.
-Mi piace.

   
 
Leggi le 0 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Videogiochi > Ensemble Stars / Vai alla pagina dell'autore: Rota