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Autore: Adeia Di Elferas    11/12/2017    2 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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L'odore delle bacche d'alloro che erano state tritate e miscelate per ottenere la crema che la Contessa stava spalmando sui fianchi di Giovanni riempiva la camera in modo tanto prepotente da coprire perfino il profumo persistente della notte estiva che entrava dalla finestra.

“Scommetto – disse a un certo punto il Medici, mentre la moglie continuava a massaggiarlo – che se Ricciardo da Chinzica avesse avuto sottomano il tuo ricettario, non avrebbe imposto alla moglie così tante feste comandate...”

Caterina sorrise a quella citazione del Decamerone, ma era distratta, tanto da non trovare nemmeno una battuta di spirito con cui ribattere.

Il fiorentino, per quanto tentato di lasciar stare il can che dorme e godersi il resto della serata senza pensieri, si fece serio e le fermo una mano, guardandola: “Che c'è?”

La Tigre smise di passare il suo unguento sul corpo magro del marito e sospirò: “Stavo ripensando a Bernardino. Non ti ho ancora ringraziato per averlo consolato al posto mio. E non ti ho nemmeno chiesto che aveva da piangere a quel modo...”

Giovanni strinse le labbra e sollevò un po' le spalle: “Ha sentito Bianca e Ottaviano parlare di suo padre e credo che abbiano detto cose che non voleva sapere.”

La Leonessa restò un attimo in silenzio, le mani in mano e un'espressione strana in volto. Quando il marito stava per aggiungere qualcosa, per stemperare un po' quello che le aveva riferito, la donna si alzò di scatto dal letto.

Indossava una camicia da camera sottilissima, così fine che il Medici poteva intravedere alla perfezione tutto il suo profilo, benché la stanza fosse quasi al buio.

La donna andò vicino alla finestra e annusò l'aria fresca del luglio inoltrato. Era da qualche giorno che le sembrava di essere più sensibile ai profumi. Anche in quel momento, per quanto la nota estiva fosse prevalente, poteva ben individuare anche l'odore dei bracieri accesi sui camminamenti e perfino quello più secco del fieno che era stato da poco portato nelle stalle.

“In ogni caso – disse Caterina, tornando a guardare il marito, che era rimasto seduto sulle coperte, nudo, ma apparentemente del tutto a suo agio – non sarebbe compito tuo badare ai miei figli. Sei stato molto gentile, con Bernardino.”

Giovanni si sistemò un po', mettendosi il cuscino dietro la schiena per sostenerla, incurante dello sguardo della moglie, che dopo un primo momento si era posato sulle sue caviglie arrossate e un po' gonfie, e obiettò: “Non devi ringraziarmi, l'ho fatto volentieri. E poi, per la legge, ormai sono anche figli miei.”

Quell'affermazione ebbe uno strano effetto sulla moglie. I suoi occhi lo scrutarono dapprima indagatori e poi quasi impauriti.

Il fiorentino attese con pazienza che la strana creatura che aveva sposato ragionasse sulle sue parole e poi la riaccolse tra le sua braccia quando, scesa a patti con se stessa, la Contessa si rimise a letto dicendo: “Sono stata così fortunata a trovare te, da non poter credere che possa durare...”

“Basta fare discorsi tragici.” la richiamò all'ordine Giovanni, che però, proprio in quei giorni, si era messo a rivalutare la propria salute, già dimentico dei primi giorni di luglio, in cui si era sentito forte come un leone: “Piuttosto, voglio scrivere ancora a mio fratello, affinché si decida a proporre e sollecitare la condotta per Ottaviano.”

“Pensi sempre che sia una buona idea?” gli chiese la Sforza, tenendo il viso premuto contro il suo collo.

“Ottaviano ormai è adulto.” rispose il marito, sicuro come non mai della sua valutazione, mentre con una mano accarezzava lentamente la chioma bionda e bianca della Leonessa: “Dato che non vuoi lasciarli il tuo Stato, dobbiamo trovargli qualcosa da fare. Un uomo, a diciotto anni, non può starsene tutto il giorno a far nulla se non andare in un postribolo di quando in quando. Una condotta gli darebbe qualcosa di concreto da fare e la possibilità di dimostrarti che vale qualcosa. E poi gli darà anche una certa indipendenza economica.”

“Intendevo dire se pensi che sia una buona idea per la tua famiglia.” specificò la Contessa: “Da quel che ho capito tuo fratello sta facendo fatica ad avere un ruolo importante nella Signoria e finché non si rovescerà Savonarola...”

“Mio fratello sa quel che fa – la interruppe il Popolano, appena più bruscamente di quanto non volesse – e saprà fare la sua proposta al momento giusto.”

Ci fu un lungo silenzio, durante il quale la Sforza si chiese se stesse pretendendo troppo dalla famiglia del marito, e il Medici si arrovellò nel dubbio che forse la moglie cominciasse a rendersi conto che legarsi a un fiorentino appartenente a una casata come la sua non fosse stata una mossa strategicamente accorta.

“Intendevo solo dire...” cercò di spiegarsi meglio la Tigre, allargando un po' le braccia: “Con tutti i problemi che avrete...”

“La scomunica a Savonarola non è stata ritirata. Presto ci si aspetta una presa di posizione chiara da parte di Roma.” riprese Giovanni, il tono che si ammorbidiva un po', mentre con una mano si ravviava i corti riccioli castani: “Venezia sta aizzando ancora i pisani e mio fratello mi ha detto che ci sono già stati i primi scontri. Vedrai che appena scoppierà la vera guerra, Firenze implorerà il tuo benestare e a quel punto dovranno concederti una condotta per Ottaviano. Altrimenti minacceremo di passare dalla parte di Venezia.”

“Non lo permetteresti.” fece subito la Contessa, certa che il marito, attaccato com'era alla sua Firenze, mai avrebbe accettato di schierarvisi contro.

“Per te lo farei.” la contraddisse subito lui, gonfiando un po' il petto.

La Contessa annuì appena, un occhio alle coste del fiorentino, così evidenti quando respirava a quel modo.

Anche se nel complesso non lo si poteva definire scarno, Giovanni si era fatto sempre più sottile e, se non fosse stato per qualche sgarro alimentare fatto di recente, probabilmente non avrebbe potuto più avvalersi nemmeno dei muscoli che gli restavano.

“Nel frattempo – riprese il Medici, sfuggendo gli occhi verdi della moglie, che lo stavano facendo sentire più nudo di quanto non fosse – dovresti far riprendere l'addestramento a Ottaviano, o finirà per farsi uccidere dopo mezza giornata, anche se riuscisse a restare al sicuro in qualche padiglione mentre gli altri combattono...”

Quella frase, detta con leggerezza dal Popolano, fece tornare in mente a Caterina l'abitudine vigliacca che era stata propria di Girolamo di restare al sicuro nella tenda mentre gli altri andavano a rischiare la pelle al suo posto. Non si sarebbe sorpresa, in effetti, se Ottaviano avesse fatto qualcosa di simile.

Dopotutto, assomigliava a suo padre in molti modi, non solo nell'aspetto.

La metteva in ansia il pensiero di lasciare il suo primogenito libero di agire con la propria testa. Se una condotta fosse arrivata, allora avrebbe dovuto cercare il modo di farlo tenere sott'occhio, per impedirgli di coprirla di ridicolo.

“Hai ragione, devo fargli riprendere in mano le armi. Sono anni, ormai, che non fa nulla...” disse piano Caterina, stringendosi le braccia sul petto: “Dirò al maestro d'armi di includere anche lui nelle lezioni che sta dando a Galeazzo e Bernardino.”

“Sì, credo che sia meglio.” rincarò Giovanni, che, similmente alla moglie, già temeva di essere messo in ridicolo da Ottaviano, una volta che i fiorentini l'avessero visto all'opera.

Se solo Galeazzo fosse stato più vecchio, avrebbero potuto mandare lui sotto le armi. Di certo li avrebbe fatti sentire molto più sicuri e avrebbe dato risalto alla loro famiglia.

“Adesso basta parlare...” concluse la Tigre, che non voleva passare la notte a discutere di affari di Stato e di famiglia.

A quell'incipit, Giovanni sollevò le mani in segno di resa e si lasciò fare da Caterina tutto quello che voleva, senza nemmeno lamentarsi del fatto che la moglie non aveva finito di massaggiarlo con la crema alle bacche di alloro.

 

“Non mi interessa.” soffiò Alessandro VI, guardando Cesare con occhi strani: “Che pensino quello che vogliono, tanto lo fanno sempre. Anche a un santo verrebbero a fare le pulci, questi dannati uomini di chiesa. Pettegoli e basta, ecco che cosa sono.”

Gli appartamenti borgiani erano tiepidi. Dalla finestra un po' aperta arrivava un alito di ponentino che smuoveva appena i fogli che il papa aveva disordinatamente ammucchiato sulla scrivania.

“Ho bisogno di avervi lontani, tutti. Non ne voglio sapere nulla di voi, per un po'.” concluse Rodrigo, la voce che si faceva più mesta man mano che parlava.

Il figlio non disse nulla, temendo che il padre, forse, avesse passato gli ultimi giorni a riflettere e stesse per esplodere a scoppio ritardato.

L'amore paterno non era una garanzia sufficiente, secondo lui, per potersi ritenere del tutto al sicuro. Non sarebbe di certo stato il primo padre a punire un figlio in modo crudele, dopotutto.

Mentre ragionava a quel modo, Cesare si allargava di quando in quando il colletto dell'abito talare, sentendo una vaga difficoltà nel prendere aria.

“Tu andrai a Napoli.” decretò Rodrigo, togliendosi la papalina e iniziando a passarsela da una mano all'altra, agitato: “Re Federico è stato incoronato da tempo, ormai, e aspetta una mia ambasciata ufficiale da troppo. Ci penserai tu. Farai le veci di un ambasciatore e ti scuserai del fatto che non sono potuto andare in prima persona. Sonderai il terreno e capirai che cosa hanno in mente gli Aragona e se possono essere o meno un pericolo. E vedi anche di scoprire da loro cosa hanno intenzione di fare con Isabella di Milano. Adesso che il Moro l'ha liberata, dobbiamo aspettarci, forse, che la sua famiglia torni a volerla usare...”

Cesare avrebbe voluto rifiutarsi, convinto che il suo posto, in quel momento, fosse vicino al padre e non nel Regno di Napoli a perdere tempo.

Gli Aragona stavano vegetando da mesi e mesi e non si erano ancora ripresi dalla batosta subita durante l'ultima guerra. Che senso aveva, per il papa, mandare il suo erede designato a perdere tempo alla loro corte?

Proprio mentre il Cardinale stava per cedere e dire la sua, però, qualcosa gli fece cambiare idea.

Il papa, infatti, aveva abbassato gli occhi pesanti, in chiaro segno di chiusura verso qualsiasi eventuale richiesta: “E tuo fratello Jofré se ne andrà a Squillace con la moglie.” disse, liquidando in un solo attimo tutte le possibili rimostranze di Cesare: “Sono stanco di aver qui anche Sancha. È stato divertente, per un po', ma a lungo andare la sua presenza sta nauseando tutti. Ha portato solo guai. Solo guai...”

Il Cardinale, dato che il padre taceva, schiuse le labbra per dire la sua, ma ancora una volta il Santo Padre fu più rapido di lui, spegnendo sul nascere ogni sua velleità.

Gli indicò la porta con l'indice e ordinò: “Vedi di essere pronto per partire prima di fine mese. Ti farò avere un dispaccio ufficiale non appena avrai fatto i bagagli.”

 

Bianca stava sfuggendo il caldo di quel luglio in ogni modo possibile. Anche se seguiva, come richiesto dalla madre, tutte le lezioni dei suoi precettori, non appena aveva un momento libero lasciava la sala delle letture e scendeva nelle cucine.

Malgrado vi fosse quasi sempre il fuoco acceso, il semplice fatto di essere interrate dava a quelle stanze una frescura ristoratrice che la giovane Riario amava moltissimo.

Senza contare che lì poteva incontrare le sue amiche e chiacchierare con loro per un po', distraendosi dalle preoccupazioni che la inseguivano tutti i giorni.

A ottobre avrebbe fatto sedici anni e come non mai temeva che i faentini si stessero preparando a stringere la morsa sul suo matrimonio con Astorre, di quattro anni più giovane di lei.

Anche se sua madre continuava a dirle di non pensarci, che tutto si sarebbe sistemato ben prima di arrivare alla necessità di farla partire verso la corte del marito, la ragazza cominciava a convincersi che in realtà nessuno avrebbe fatto nulla per salvarla.

Faenza era sempre più una pedina di Venezia, ma la recente peste l'aveva indebolita e non era assurdo pensare che Castagnino stesse pensando a cambiare rotta, lasciando la Serenissima e tornando a cercare un'alleanza stabile con Imola e Forlì e – di rimando – con Firenze.

“Mi ha dato una moneta d'argento, e me ne ha promesse ancora, però io non riuscirei mai a permettergli ancora di...” stava dicendo una voce che Bianca conosceva poco.

Si trattava di una delle serve arrivate da poco alla rocca. La Contessa, riaperte le porte, aveva subito incentivato l'assunzione di servidorame e il reclutamento di reclute, in modo da far circolare soldi e permettere a molti giovani rimasti senza famiglia o colpiti da gravi lutti di cavarsela da soli.

“Madonna Bianca...” salutò una delle cuoche, un po' impacciata, quando vide la Riario varcare la porta.

Alla ragazzina non sfuggì il modo in cui la donna aveva guardato la serva che stava parlando. A uno sguardo più attento, poi, Bianca riconobbe in quella giovane la serva che Ottaviano aveva portato fuori con sé dal salone la sera del banchetto.

“Se è di mio fratello che state parlando – cominciò, sedendosi sulla panca e cominciando a giocherellare con uno dei mestoli che giacevano abbandonati sul tavolo – fate pure, non me la prendo. Lo so anche io che uomo è.”

Malgrado quella rassicurazione, però, la giovane serva restò in silenzio e, dopo un momento di smarrimento, si andò a mettere vicino al paiolo e riprese a mondare la verdura per la cena.

Bianca fece finta di non essersela presa e, per fortuna, non ebbe nemmeno il tempo di inventarsi qualcos'altro da dire, che arrivarono due sguattere di cucina di cui era amica ormai da tempo.

Aiutandole nei loro umili lavori di preparazione della cena, la Riario parlò con loro del più e del meno, dimenticandosi del resto della sua famiglia per un bel po', almeno finché una delle due sguattere – la più giovane – non disse: “Ma ancora vi fa studiare, vostra madre? Davvero? Ma che vi serve? Ormai siete una donna fatta...”

“Parli solo per invidia, tu che non sai nemmeno scrivere il tuo nome!” la rimbrottò subito l'altra, dandole uno scappellotto.

“Mia madre pensa che una solida istruzione mi permetterà di farmi rispettare, un giorno.” fece Bianca, quasi ripetendo una lezione imparata a memoria: “Se ne saprò più di mio marito, dice, potrò mantenere un certo grado di libertà anche da sposata.”

“Ma voi siete già sposata...” si intromise la cuoca anziana, mettendo sul ripiano del tavolo mezza dozzina di lepri da scuoiare: “Quindi anche io mi chiedo che vi serve studiare ancora... Sapete cantare, cucire e perfino cucinare. Una donna non ha bisogno d'altro.”

“Se poi trova un marito come messer Medici...” insinuò la sguattera più giovane, con un sorrisetto malizioso: “Che altro può volere dalla vita?”

Bianca si morse il labbro. Sapeva molto bene che in tutta la rocca e anche fuori la gente sparlava di sua madre e di Giovanni. Erano stato scoperti, o forse solo intravisti, mentre stavano insieme. Era ormai un pettegolezzo sulla bocca di chiunque.

La giovane Riario non aveva nulla in contrario nel sapere che sua madre amava quell'uomo. Lo stimava, lo apprezzava e poteva addirittura dire di volergli bene in modo sincero. Però non le sembrava il caso che dessero spettacolo a quel modo, come se fossero incapaci di trattenersi e aspettare di essere nella loro stanza per fare certe cose.

“Per permetterti un marito come messer Medici e per sperare che ti sia anche fedele, però – obiettò la sguattera più vecchia, all'incirca coetanea di Bianca – devi avere una testa istruita come la Contessa. Altrimenti uno così si stufa in fretta, credete a me, che di uomini ne capisco!”

l'ultima affermazione sollevò una serie di commenti poco lusinghieri e camerateschi che stemperarono molto la tensione che si stava accrescendo nella figlia della Tigre e perfino la serva che si era lamentata poco prima di Ottaviano si era messa a ridere, prendendo in giro la sguattera.

Malgrado l'ilarità del momento, però, mentre una delle ragazze prendeva la prima lepre e si metteva a cavarle la pelliccia e a sventrarla, Bianca si trovò a pensare che la sguattera più vecchia non aveva proprio tutti i torti.

 

Suor Girolama Pichi guardava Lucrecia senza trovare parole. Stringeva le mani al petto, appena sopra al crocifisso che portava al collo, e le sue tempie pulsavano con tanta forza che la giovane Borja poteva indovinare il ritmo folle del cuore della badessa.

Il convento di San Sisto era immerso nel silenzio della sera e in quell'ala non c'era nessuno a parte loro due.

Dato che la figlia del papa aveva fatto intendere alla suora che le doveva parlare di una cosa molto importante e che necessitava gran discrezione, Girolama aveva preferito congedare anche la consorella che la stava aiutando a riordinare alcuni documenti.

“Ne siete sicura?” chiese alla fine la badessa, il viso battagliero improvvisamente colmo di paura.

Non era donna facile a spaurirsi, ma se quella notizia si fosse rivelata fondata, Dio solo sapeva come avrebbe reagito il papa.

“Abbastanza, sì.” rispose Lucrecia, arrossendo e guardando altrove.

“Ma da quel che mi dite, è ancora troppo presto per esserne certi...” provò suor Girolama Pichi, aggrappandosi a quell'ultima speranza: “Bisogna attendere, perché sapete com'è la natura di noi donne, specialmente in un'età come la vostra... A diciassette anni non è infrequente che...”

“Vi dico che ho pochi dubbi.” rimarcò la Borja, quasi arrabbiandosi: “E poi ho parlato con una vostra suora che conosce bene queste faccende per via del mestiere che faceva sua madre e mi ha dato ragione.”

La badessa si fece il segno della croce e poi, sforzandosi di mettere in moto il cervello, chiese: “Vi rendete conto che se quel che dite si rivelasse giusto, starebbe a significare che agli occhi di vostro padre io sono complice di questo adulterio?”

Lucrecia si sentiva emotivamente instabile in quei giorni e quasi si stava pentendo di aver cercato conforto e aiuto in quella suora. L'aveva creduta diversa. Evidentemente, dietro a tutte le sue belle parole di comprensione e carità cristiana, era un'ipocrita come tutte le altre.

“Se non avete intenzione di darmi il vostro appoggio, allora ditemelo subito e me ne andrò da questo convento questa notte stessa.” disse la Borja, alzandosi.

Suor Girolama allungò una mano, fermandola: “E dove andreste?”

“Non sono affari vostri.” ribatté Lucrecia, quasi in lacrime per il nervosismo e la stanchezza.

Da quando aveva avuto i primi sospetti, aveva perso intere notti di sonno, cercando di capire come uscire dalla sua situazione senza macchiarsi di un crimine orrendo.

“E va bene, va bene!” esclamò la badessa, riacquistando il suo consueto cipiglio: “Vi terrò qui fino alla nascita del piccolo, se così vorrete. Vi permetterò di partorire in tutta discrezione e a suo tempo penseremo anche a che farne del bambino.”

Lucrecia scoppiò a piangere dal sollievo, e si gettò tra le braccia spigolose della suora, trovandole accoglienti come un nido.

“Però prima dobbiamo essere certi che siate davvero incinta.” sottolineò la badessa: “Quindi per il momento non dite niente a nessuno. Fate come nulla fosse. Se tra un paio di mesi saremo certe del vostro stato, allora farò in modo di tenervi qui, anche se il papa dovesse scoprirlo e cercare di avervi indietro con la forza.”

La giovane Borja la ringraziò ancora e scambiò con la badessa ancora qualche sfilza di ringraziamenti e abbracci.

Alla fine, quando stava per ritirarsi, stremata, ma molto rincuorata, la figlia di Alessandro VI si sentì chiedere: “Almeno posso sapere chi è il padre?”

Con un sospiro a metà strada tra il reticente e il rassegnato, Lucrecia si rimise a sedere e rispose, nel modo più semplice che le riuscì, la sua versione dei fatti.

 

Forse era perché il giorno prima si era stancata tantissimo, trascorrendo mattina e pomeriggio a passare in rassegna il quartiere militare per rilevarne le criticità e per quantificare l'effettiva efficienza del suo esercito, o forse era stata la passione feroce che Giovanni le aveva riservato quella notte, o forse era solo stato il caldo di luglio, ma quale che fosse il motivo, Caterina aveva dormito come un sasso fino all'alba, senza avere nemmeno mezzo incubo.

Quella condizione di grazia la stava facendo sentire così bene da renderla quasi incredula. Inspirava lentamente l'aria della camera, satura dell'odore delle sue creme e dell'afa che arrivava dalla finestra e passava con delicatezza una mano sulla schiena del marito, che ancora dormiva accanto a lei.

Passò qualche secondo, durante il quale la Contessa si beò come non mai della sensazione di benessere che la pervadeva e poi, senza quasi alcun preavviso, un forte senso di nausea e un conato d vomito tanto violento da farle dolere il ventre la portarono a cercare il vaso da notte.

Risvegliato bruscamente dai movimenti rapidi della moglie, Giovanni aprì gli occhi appena in tempo per vederla rimettere.

Dopo appena qualche istante, la Tigre si rese conto che non c'erano altri conati in agguato e rimise in terra il vaso da notte.

“Credi di aver mangiato qualcosa che ti ha fatto male?” chiese il Popolano, mettendosi dietro di lei e massaggiandole la schiena con dolcezza, come se quello fosse un metodo infallibile per far passare la nausea.

Caterina scosse il capo e poi venne fulminata da un ricordo. Quando si era trovata ad aspettare Ottaviano, ancora ragazzina e inesperta di certe cose, aveva avuto attacchi di nausea molto simili a quello, tanto forti e improvvisi che all'epoca l'avevano terrorizzata per qualche giorno, fino a che una serva, accorgendosene, le aveva fatto una diagnosi molto semplice.

“Credevo che ormai il mio utero fosse freddo...” sussurrò tra sé la Leonessa.

Quella costatazione fece rizzare le orecchie del fiorentino, che, facendolesi ancor più vicino le sussurrò: “Credi di essere..?”

La Sforza si passò istintivamente una mano sul basso ventre e si mise a fare due calcoli. Quando si rese conto che non era certo un'ipotesi campata per aria le scappò un sorriso.

“Be' – disse, voltandosi appena verso il marito: “Potrei. Dopotutto, non ci siamo certo risparmiati, ultimamente...”

Giovanni allora la strinse a sé con forza e disse: “Oddio, Caterina, sarebbe meraviglioso... Io non ci speravo quasi più...”

“Però è molto presto per esserne sicuri.” lo mise in guardia la Tigre: “Dobbiamo avere pazienza e tra qualche settimana chiederò anche al nostro medico. Non dobbiamo sperarci troppo, capito?”

“Con moderazione.” convenne il Medici, che però era visibilmente euforico.

La Contessa avrebbe voluto mettere ancor di più l'accento sulla necessità di non illudersi troppo, soprattutto perché lei aveva già trentacinque anni e i rischi di essersi sbagliati non erano pochi, ma quando il marito cominciò a baciarla prima sulla spalla e poi sul collo, lasciò perdere tutto il buon senso di cui era capace e gli permise di festeggiare come preferiva.

Anche Giacomo, quando aveva saputo che sarebbe diventato padre, l'aveva amata subito, quasi a rimarcare la sua proprietà, con un impeto difficile da dimenticare, quasi con arroganza.

Giovanni, invece, la prese con dolcezza, seppur con passione, riempiendola di attenzioni e facendola sentire ancora una volta la donna più importante del mondo.

 
   
 
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