Daccapo.
E gli uomini,
innocenti,
a infilarsi le
forcine dei capelli
negli occhi, a sbattere la testa contro il muro altissimo, ben sapendo
che il
muro non cede né men si fende, per consentirgli di vedere
almeno da una fessura
un po' di
azzurro non offuscato
dalla loro ombra e dal tempo.
G. Ritsos, Elena.
Un
giorno, stanco di sentirsi le spalle gravate del peso di salvare Hyrule
e
dell'angoscia di vedersi addossare compiti e richieste d'aiuto ovunque
volga lo
sguardo, Link riempie due bisacce di provviste, chiude dietro di
sé la porta
della sua casa di Finterra, monta a cavallo e si allontana senza
voltarsi
indietro.
Tutto
ciò
che vuole è scappare e nascondersi.
Non sa
neppure da cosa. Link scappa perché si sente sopraffatto ed
estenuato da questo
universo che gli è stato imposto, da questa missione di
salvezza ch'egli teme
di non avere le forze per assolvere ma che ha troppa vergogna di
rifiutare, e
dalla quale perciò non può fare altro che
sottrarsi e fuggire di nascosto, come
uno di quei cani feriti e storpi, mutilati, ch'egli vede talvolta
inseguiti dai
ragazzini. Si sente proprio così. Prova la stessa sensazione
di terrore,
ancestrale e innominabile, che ha provato quando per la prima volta, il
giorno
del suo risveglio, egli si è trovato faccia a faccia con un
mostro orribile,
dalla pelle secca e squamosa, bitorzoluta, e il suo cuore è
stato così oppresso
dalla paura ch'egli neppure è stato in grado di urlare. Non
aveva mai visto un
mostro, prima di quel momento, o almeno non lo ricordava, e la sua
mente priva
di ricordi non aveva idea che qualcosa di tanto orrido e grottesco
potesse
esistere al mondo.
Quel
giorno è stato il suo corpo a rispondere per lui e a
salvarlo, agendo mentre
egli ancora era confuso e istupidito e aveva troppa paura per fare
qualsiasi
cosa: la sua schiena è stata rapida e flessibile, i suoi
occhi più svelti della
sua mente, le sue braccia hanno afferrato un ramo e hanno agito come un
tempo
il vecchio Link avrebbe fatto con la sua spada. Non aveva mai saputo di
saper
maneggiare un'arma prima di quel momento: lo ha realizzato solo dopo, a
combattimento finito, quando si è ritrovato a un tratto sano
e salvo,
ansimante, a fissare quel grosso corpo odioso e immobile e ormai
incapace di
recare qualsiasi minaccia.
Il suo
corpo sta agendo per lui anche stavolta. Quando l'angoscia e il senso
di
oppressione si sono fatti troppo grandi e insopportabili ed egli ha
sentito
l'aria mancagli nei polmoni e neppure urlare gli è parso
più abbastanza, quando
si è accorto di non aver sognato, per giorni interi, che di
Mipha e del suo
sacrificio, il suo corpo si è mosso per lui ed è
scappato via. Tutto ciò che
vuole è trovare un posto in cui nessuno possa più
ricordargli ch'egli ha un
compito da svolgere e che sta perdendo tempo, che ogni minuto che
trascorre per
se stesso è un minuto sottratto a Zelda; un posto in cui
nessuna parola paia
più carica di rimprovero e di biasimo verso la sua
incapacità e la sua
inadeguatezza.
Ma dove sia
questo posto egli non lo sa, e si accorge di non saperlo solo quando
Nemeŝek si
ferma scalpitando a un bivio. Guardandosi attorno, egli si accorge
d'essere già
stato qui. È proprio qui che d'un tratto, sporgendosi
sull'acqua, egli si è
imbattuto nel principe Sidon che cercava aiuto.
Sidon,
già. Se ora andasse da lui, Link sa che Sidon lo aiuterebbe,
lo ascolterebbe,
cercherebbe per lui una soluzione con tutta la positività e
l'entusiasmo del
suo modo di vivere. Sidon è l'unico e il migliore amico
ch'egli abbia al mondo
e del suo affetto sincero, strabordante come la piena del fiume, Link
non ha
mai dubitato; ma proprio con il suo affetto Link non vuole avere nulla
a che
fare, ora. Sidon lo ama come il fratello e il compagno d'armi che
avrebbe
voluto avere, ma la sua gente lo ama come l'eroe ch'egli non
potrà essere mai.
No, Link non può andare dagli Zora.
Ma
proprio quando si ritrova a riflettere al crocevia, mentre Nemeŝek
scalpita
nella polvere e nitrisce, d'improvviso gli viene in mente che Sidon non
è l'unico
che gli abbia mostrato gentilezza nella sua vita. Gli torna
in mente che
c'è stato un altro, una volta, un uomo
simpatico e taciturno che gli ha
dato una dritta per comprare una casa ma che poi se n'è
andato, prima ch'egli
avesse il tempo di conoscerlo, e che prima di andarsene gli ha chiesto
la sua
mappa Sheikah e ha messo un segno in un certo punto, in un villaggio in
cui
sarebbe andato a lavorare, e lo ha invitato a passarlo a trovare, se
per caso
un giorno fosse passato per le terre di Akkala.
Chissà,
forse il villaggio che Miceda gli ha promesso e che ancora non esiste
può
essere un buon posto per nascondersi e fingere che ciò che
sta accadendo nel
mondo non sia un suo problema.
Quando fa
il suo ingresso al villaggio, caracollando su un cavallo nervoso e
schiumante
di fatica, l'uomo che sta spaccando le pietre ai piedi di una vasta
parete
rocciosa non accenna neppure a spaventarsi, forse perché ha
capito, anche senza
averlo ancora riconosciuto, che da questo cavaliere che procede a passo
d'uomo
non proviene realmente alcun pericolo.
Allo
scalpitio di zoccoli sul selciato Miceda si è raddrizzato,
appoggiandosi al suo
piccone, si è asciugato la fronte e si è messo a
guardare. Non pare così
sorpreso di vedersi capitare lì, di punto in bianco, quel
ragazzo enigmatico
con cui ha parlato solo una o due volte a Finterra, e si limita a
seguirlo con
sguardo interrogativo via via che si avvicina a lui.
Per
salutare quest'uomo che non vede da mesi e che è andato a
scovare fino in capo
al mondo, Link (che, a onor del vero, non è mai stato
particolarmente portato
per l'eloquenza) non trova niente di più significativo da
dire che: «Ehi.»
Per tutta
risposta Miceda lo squadra per un po', puntellandosi con le braccia al
proprio
piccone, e chiede: «Tu sei quello che ha comprato la casa di
Finterra, eh? Ce
l'hai fatta a trovarmi.»
Ma la
domanda che sarebbe stata ovvia e lecita da parte sua, e che Link ha
paventato
fino al momento di arrivare, non arriva, per fortuna. Che questa
mancanza sua
dovuta a una mera dimenticanza o a semplice discrezione, Link gliene
è
egualmente grato, perché come potrebbe spiegare a parole per
quale motivo è
venuto fin qui, se neppure lui lo sa fino in fondo?
«Passavo
di qui e mi sono ricordato» risponde in tono noncurante,
balzando agilmente da
cavallo. «Stavo andando alla Città dei Goron e ho
pensato di fermarmi a
salutarti quando ho visto il segno sulla mappa.»
Dopo un
attimo d'incertezza, come se fosse indeciso se dirgli o no qualcosa che
potrebbe non fargli piacere, Miceda obietta: «Non credo che
ci si arrivi per di
qua, sai. Su questo fianco del Monte Morte non c'è proprio
niente.»
«Davvero?»
La cosa ovviamente non lo tange più di tanto, dato che non
stava davvero
andando lì; ma l'esser stato colto in fallo su un aspetto
tanto macroscopico
della sua storia lo fa sentire in qualche modo inadeguato e scoperto
come un
bambino smentito nel pieno di una bugia. Cerca di ricomporsi in fretta.
«Ah,
sai... mi sarò sbagliato.»
Di fronte
alla palese evidenza della sua spudorata bugia, Miceda non fa una
piega. Nel
tempo che impiega a stabilire nella sua mente che la sua spiegazione
è
sufficientemente patetica perché non valga la pena
d'indagare ancora e metterlo
in difficoltà, Miceda sbatte le palpebre per un po',
dopodiché si stringe nelle
spalle e torna a imbracciare il piccone. «Già,
è facile sbagliarsi. Ma credevo
che vivessi a Finterra, tu... non ti piace la tua casa?»
«È
una
gran bella casa» dice Link per evitare di rispondere
direttamente. È la verità,
naturalmente, ed egli è davvero alquanto certo che sia la
cosa più bella che
abbia mai posseduto: ha mura calde e spesse, un focolare immenso capace
di
scaldare tutto l'edificio, e grandi finestre da cui osservare il mondo
che lo
circonda. Il punto è che nel preciso momento in cui ci si
è ritrovato, egli si
è accorto di quanto sia stato assurdo anche solo credere
di poter
possedere un'altra casa al di fuori di quella stanza deserta in cui
è venuto al
mondo, là sull'Altopiano delle Origini...
«È solo che ho delle cose da fare tra
i Goron. Degli affari, capisci, e cose del genere.»
«Ah,
certo» risponde Miceda, col tono
eloquente di chi non ha intenzione di credere a una sola parola. Non
trovando
evidentemente nient'altro di interessante da dire, decide di tornare a
imbracciare il piccone. «Comunque, se vuoi restare a
riposarti per qualche
giorno, sei il benvenuto... solo che non sarò di grande
compagnia fino a
stasera. Devo fare tutto da solo, e non sono ancora molto avanti coi
lavori,
come puoi vedere.»
Così,
mentre Miceda riprende a lavorare, Link inizia a togliere la bardatura
a
Nemeŝek e tira fuori qualche mela dalla bisaccia, nel tentativo di
placare un
po' questo povero cavallo esausto, e poi gironzola lì
intorno per un po', senza
far niente. Miceda lo lascia fare, forse perché ha capito
che quel ragazzo
biondo dall'aria smarrita, che una volta a Finterra gli ha chiesto in
che anno
siamo – in che anno siamo, al diavolo! - e di poter comprare
un rudere di casa
in via di demolizione, ha bisogno di star lì.
«Hai
dei
lavori pesanti da fare?»
Per la
seconda volta oggi pomeriggio, Miceda s'interrompe e si asciuga la
fronte per
guardarlo. «Lavori pesanti di che genere?»
«Legna
da
tagliare, pietre da spaccare. Roba così.»
«Sembri
gracilino» obietta Miceda.
Link sa
di non essere gracilino e vuole dimostrarglielo. Allora si avvicina di
nuovo a
Nemeŝek che pascola lì vicino, recupera un'ascia dalla
quantità dei bagagli che
è costretto a portarsi continuamente appresso e si allontana
dal villaggio.
Quando
ritorna, sul far della sera, Miceda ha ormai concluso il suo lavoro
giornaliero
e si sta avviando lentamente verso il magazzino verde che si staglia al
limitare del villaggio. Link gli rovescia davanti vari fasci di legno
d'acero,
senza dir nulla, e Miceda ne rimane molto colpito.
«Però»
commenta a bassa voce. Si passa una mano dietro la nuca.
«Avrei proprio bisogno
di uno come te, però non posso pagarti. Le regole delle
costruzioni Cerada...»
«Lo
so,
lo so» lo interrompe Link. «Non importa che mi
paghi. Però puoi darmi da
dormire e da mangiare. Questo puoi farlo, no?»
Miceda si
gratta la testa. È evidente che la sua proposta lo tenta
davvero, dato che è da
solo a cercare di realizzare un progetto che richiederebbe un villaggio
intero,
ma c'è qualcosa che lo trattiene. «Non lo dirai al
signor Cerada, vero?»
Link gli
porge molto seriamente la mano e ribadisce con voce chiara e netta:
«Promesso.»
Con un
sospiro profondo, Miceda getta un'ultima occhiata a tutti quei fasci di
legna e
gli stringe la mano.
Link si
carica di tutti i lavori più pesanti, in questo villaggio
che esiste non perché
qualcuno vi abiti, ma per il semplice fatto che qualcuno l'ha
progettato (anche
se è alquanto sicuro che le cose non funzionino esattamente
così, con i centri
abitati. Ma non gli va di discuterne, al momento).
Questo
villaggio ancora tutto da plasmare è esattamente quello di
cui aveva bisogno
quando è partito da Finterra: un posto dove nessuno lo
conosce – tranne Miceda,
che lo considera pazzo, cosa che a lui sta benissimo – dove
non deve fare altro
che spaccare pietre e bruciare sterpaglie e abbattere alberi. Lui e
Miceda
lavorano ogni giorno fino a spaccarsi la schiena, in silenzio, e questo
è un
bene per Link. Tutto quello che voleva, in fin dei conti, era
nascondersi in un
luogo in cui nessuno potesse trovarlo e non pensare a niente.
Ma
nascondersi non è poi così facile quanto gli
sarebbe piaciuto. Dalle pendici
del vulcano fumigante, egli scorge ogni notte levarsi in cielo quella
rossa
luna furibonda, e in lontananza, là, da qualche parte nella
piana, egli avverte
i pensieri profondi e vischiosi del gran male che s'annida nella
foschia del
castello...
Qua
nessuno sa che lui dovrebbe trovarsi là, a combattere il
male e a salvare la
principessa. Qui, nelle terre di Akkala, egli è solo uno
sventurato come tanti
che si guadagna, alla sera, il suo tozzo di pane e il suo piatto di
minestra, e
lotta per sopravvivere anche se Hyrule è dominata dal male,
senza neppure
pensare a qualcosa di tanto folle come sfidare la Calamità.
Forse è questo che
Link avrebbe dovuto essere – un contadino impotente che
attende pazientemente
alla sua vita nei campi, aspettando che arrivi qualcuno forte
abbastanza da
cambiare le cose. Dopotutto, perché proprio lui dovrebbe
essere quel qualcuno?
Nessuno gli ha chiesto il suo parere. Egli si è svegliato un
giorno nudo e
intorpidito dal freddo, senza alcuna memoria di se stesso o del mondo,
e gli è
stato detto di vestirsi e di affrettarsi a salvare Hyrule e Zelda e a
nessuno,
mai, è venuto in mente che non fosse corretto fargli una
richiesta ch'egli non potesse
rifiutare.
«Da
dov'è
che vieni, tu?» gli chiede Miceda una sera di queste, davanti
al fuoco del
magazzino dove dormono – perché non può
definirsi propriamente abitare,
questo.
«Dall'Altopiano
delle Origini» risponde Link onestamente.
Per tutta
risposta Miceda lo guarda e scoppia a ridere. Link si sente molto
confuso,
perché non capisce che cosa abbia detto di così
divertente. «Sì, come no.
Guarda, se non me lo vuoi dire, basta dirlo.»
«Perché
non dovrei venire da lì?» chiede cautamente Link,
saggiando il terreno come
contro un nemico di cui non sappia ben valutare la forza e la stazza.
Questa
conversazione lo sta facendo sentire molto stupido, e non è
una sensazione che
gli piaccia.
Il fuoco
crepita un po' più debolmente, perciò Miceda si
protende in avanti per
attizzarlo. «Ma dai... non ci vive nessuno lì. E
poi è impossibile scendere, le
pareti sono troppo ripide. È abitato solo da mostri, questo
lo sanno tutti.»
Link
capisce che sarebbe inutile insistere, ma Miceda non gli sembra
arrabbiato od
offeso per quella che considera una storia di fantasia. Lo considera
solo un
bello stravagante un po' pazzo, e pare che proprio per questo lo abbia
preso in
simpatia.
«Mi
hanno
chiesto di salvare Hyrule» gli dice perciò qualche
secondo dopo, per
sperimentare la sua reazione. Anche stavolta Miceda pare
incredibilmente
divertito.
«Sicuro,
come no. E per questo ti hanno dato un'ascia da boscaiolo e un martello
per
spaccare le pietre?»
«Mi
hanno
dato anche questa tunica azzurra.»
«Nientemeno»
commenta Miceda sorridendo eloquentemente.
Ha
ragione lui, pensa
Link con rabbia il mattino seguente, mentre lavora a spaccare
faticosamente gli
enormi massi che bloccano il transito. I suoi muscoli tonici si tendono
e si
contraggono sotto il sole, e sulla sua pelle luccicante di sudore i
segni di
antiche cicatrici spiccano ancora come cento anni prima. Ha
ragione Miceda,
continua a pensare. Nessuno gli ha mai spiegato come fare. Hanno
lasciato che
si svegliasse da solo, là sull'Altopiano, e che cercasse da
solo non solamente
le risposte, ma persino le domande... e in tutto questo nessuno
ha mai
chiesto il suo parere. Tutti hanno dato per scontato ch'egli fosse e
volesse
essere l'eroe e non volesse essere altro, per esserlo stato cento anni
fa; ma
s'egli ha perduto ogni ricordo di tutto ciò che è
avvenuto prima di svegliarsi,
come può essere ancora la stessa persona? È forse
lecito che altri addossino
sulle sue spalle il peso di un destino che non si è scelto e
nel quale fatica a
riconoscersi, e che persino lo accusino di non ricordarsi di Mipha e di
non
aver fatto abbastanza per proteggerla, quando non c'è nulla
che egli possa fare
per cambiare le cose...?
Quando
lavora così, sotto il sole, a petto nudo perché
ormai quella tunica azzurra gli
pesa addosso di un peso insostenibile, Link pensa che in fin dei conti
tutte le
sue riflessioni suonano molto ragionevoli. In questo mondo ch'egli sta
faticosamente imparando a conoscere, non ha forse lo stesso diritto di
chiunque
altro di scegliere il proprio destino e di vivere una vita semplice, a
costruire case per chiunque ne abbia bisogno? Per quale motivo dovrebbe
esser
proprio là, e non qualcun'altro, a farsi carico del destino
di Hyrule?
Ma ogni
notte in cielo si leva una luna sempre più rossa, e Link la
osserva con
preoccupazione.
Ogni
tanto, quando interrompono lo sfiancante lavoro di spaccar pietre e
segar
legna, e attizzano il fuoco sotto le ceneri per preparare qualcosa di
caldo da
mangiare, Link prende un pezzo di pane e va a sedersi vicino allo
stagno, per
conto suo. La statua della dea che ha intagliato
Miceda è rozza, certo, eppure egli se ne
sente enormemente rassicurato.
È
stata
una statua della dea la prima figura di donna ch'egli abbia mai visto,
lassù,
sull'Altipiano. Era molto più bella di questa, naturalmente,
un'opera d'arte
senza tempo dalla cui bellezza rassicurante, persino materna egli si
è sentito
confortato, quando si sentiva solo e confuso e stava imparando a
conoscere un
mondo nel quale era appena venuto alla luce. La statua del villaggio
è appena
sbozzata, certo, ha un aspetto goffo e in qualche modo infantilesco che
a
malapena ricorda una figura umana, eppure Link se ne sente egualmente
rassicurato.
Ha veduto
altre donne da allora, certo; ha ricordato la tormentata saggezza di
Zelda e la
tenerezza di Mipha; ma quando Link scava nel suo passato, e ricerca
nella
propria memoria un po' di dolcezza, il suo pensiero corre
invariabilmente alla
statua della dea che ha visto lassù, nel Santuario del
Tempo, dov'egli andava a
rifugiarsi la sera, quando fingeva di credere di farlo solo
perché pioveva ed
era troppo freddo, e invece lo faceva perché,
così facendo, provava l'illusione
di avere anche lui una casa a cui tornare e una madre presso cui
dormire.
Gli
piacerebbe che qualcuno gli avesse parlato di sua madre, quando si
è svegliato.
Evidentemente a nessuno dev'esser venuto in mente di parlargliene,
tutti presi
com'erano a dargli ordini e compiti e missioni da compiere e terre da
salvare,
ed egli non intende neppure fargliene una colpa. Ma è
pentito egualmente di non
aver chiesto a Impa quando ne avrebbe avuta l'opportunità...
eppure una madre
deve averla avuta anche lui, una volta.
Vorrebbe
davvero che gliene avessero parlato, ma non perché s'illuda
che le cose
sarebbero in qualche modo potute cambiare: né sua madre
né suo padre avrebbero
in alcun modo potuto sopravvivere alla Calamità e ai cento
anni che ne sono
intercorsi, ed egli non potrebbe comunque conoscerli. Ma gli piacerebbe
sapere
se erano ancora vivi all'epoca della Calamità, se si sono
preoccupati per lui e
se qualcuno ha detto loro che era sopravvissuto e stava bene; se sono
mai
venuti a vederlo mentre dormiva e se sono morti aspettando che si
svegliasse...
Ma nel
frattempo, almeno fino a quando non vedrà di nuovo Impa e
non potrà chiederle
se per caso abbia conosciuto i suoi genitori, sperando che le sue
parole
possano risvegliare in lui qualche nuovo ricordo, questa statua appena
sbozzata
è l'unica immagine che Link abbia di sua madre, ed egli
rimane a osservare il
suo riflesso specchiarsi nell'acqua bassa e pulita rifranta dai raggi
di sole.
Sulla
sponda del lago, la sera, è troppo freddo per fare un vero
bagno, per non
parlare del fatto, naturalmente, che Miceda non ha ancora provveduto a
fabbricare una vasca. È stato troppo impegnato.
A sera,
perciò, quando rientrano a buio fatto, Link e Miceda possono
soltanto
riscaldare il più possibile la stanza, fino a riempirla di
una nebbia
indistinta di funo e di vapore, e lavarsi pazientemente con spugnature
d'acqua calda.
Una sera,
durante una di queste noiose abluzioni, Miceda si mette a osservarlo
per un
po', assorto tanto che Link potrebbe credere che stia pensando a
tutt'altro, e
chiede: «Come te le se procurate quelle cicatrici?»
Gli
piacerebbe davvero saper rispondere con precisione a questa domanda.
Il primo
ricordo ch'egli abbia, dopo il suo risveglio, è di aver
steso le mani di fronte
agli occhi, per chissà quale istinto, e di essersi stupito
di vederle, come
s'egli avesse avuto nella propria mente una precisa idea di come
dovessero
apparire le sue mani, e ora si stupisse di scoprire che l'immagine
mentale non
andava a sovrapporsi esattamente a quella che aveva di fronte. Questo
gli dava
motivo di pensare che, con ogni probabilità, almeno la
grande maggioranza delle
ferite che aveva risalivano alla sua lotta durante la
Calamità, e che egli non
aveva perciò mai avuto modo di vederle.
Per i
primi tempi guardarle lo ha messo molto a disagio, come se si trovasse
a spiare
il corpo nudo di una persona ferita, e toccarle lo nauseava
profondamente. Ce
n'è una che non ha neppure mai visto: facendo scorrere le
dita tra i capelli,
egli sente sotto la pelle dei polpastrelli il duro nodo sottile,
parzialmente
rilevato, di una cicatrice che gli percorre la tempia sinistra.
Districando i
capelli con le dita, con l'aiuto di uno specchio, egli potrebbe
guardarla
meglio, ma ne è così impressionato e disgustato
che preferisce non vederla
direttamente.
Il suo
primo impulso è quello di dire la verità: che non
se lo ricorda come possa
essersele procurate. Ma se Miceda non gli ha creduto quando gli ha
detto di
provenire dall'Altopiano delle Origini, a maggior ragione non gli
crederà di
certo se gli dirà di aver dormito per un secolo dopo
l'avvento della Calamità.
«Sono
stato aggredito da due della banda degli Yiga, un paio d'anni
fa» risponde
senza guardarlo. Miceda lo fissa sgomento, perciò si sente
in dovere di
proseguire: «Non so, devono avermi scambiato per
qualcun'altro. Lo sai, quelli
sono dei fanatici.»
«E
sei
sopravvissuto?»
Se ha una
così scarsa fiducia nelle sue capacità guerriere,
non c'è molto da sorprendersi
che Miceda non lo creda capace di salvare Hyrule.
«Se ne sono andati
pensando che fossi morto»
taglia corto Link, sfregandosi nervosamente le braccia con un
asciugamano
ruvido. I pallidi segni sottili che gli percorrono il petto in
grotteschi
arabeschi rilevati e spezzati lo mettono a disagio, improvvisamente, ed
egli
non desidera altro che tornare a vestirsi in fretta. «Mi ha
trovato un
contadino di passaggio col suo asino e mi ha portato fino al villaggio
Calbarico. È tutto qui.»
Dal lungo
silenzio di Miceda, che continua a scrutarlo senza risolversi a
distogliere lo
sguardo da lui, Link intuisce che il suo collega non gli ha creduto
nemmeno per
un momento. Non che ci avesse sperato troppo, in realtà.
Miceda lo considera
essenzialmente un folle e un contastorie, e a entrambi sta benissimo
così. È
forse l'uomo più scettico che abbia mai incontrato.
«La
banda
degli Yiga, eh?»
«Già»
ribadisce Link con convinzione, e Miceda se lo tiene per detto e non
dice più
niente. Va bene così tra di loro, in fin dei conti.
È uno strano modo di
comunicare il loro, dopotutto, con Miceda che gli fa domande su di lui
e non
crede mai a una parola di tutto quello che gli dice, e che nonostante
ciò non
insiste mai più di così, accontentandosi delle
sue risposte incredibili e
implausibili, e ha accolto in casa sua un ragazzo misterioso e come
pazzo
ricoperto di cicatrici come un assassino.
Una sera,
la lugubre eco di un ululato raggelante lo distoglie dal suo piatto di
minestra. Mentre Miceda continua a mangiare tranquillamente, Link si
dispone in
ascolto.
«Che
cosa
è stato?»
«I
mostri» risponde Miceda distrattamente, esattamente come
avrebbe potuto dire: il
vento.
Link si
accorge d'esser balzato in piedi solo quando sente il frastuono della
sedia
rovesciata al suolo, ma neppure si ferma a sollevarla. È
già affacciato alla
finestra, curvo sul vetro a scrutare nel buio: per il momento, non vede
niente.
Miceda è rimasto al tavolo e lo sta guardando stupito.
«Sono
là
fuori?»
«Beh,
evidentemente. Ma non c'è da aver paura, per il momento...
non si avvicineranno
a un edificio chiuso, non aver paura. Torna pure a mangiare.»
Le urla
dei boblin sembrano ancora sufficientemente lontane da non doversene
preoccupare
per almeno qualche ora, se non di più, ma la risposta del
suo compagno non lo
ha tranquillizzato a sufficienza. Link passeggia nervosamente in su e
in giù
per il magazzino scuotendo la testa, col corpo tutto proteso e
già pronto
all'azione e la sensazione d'essere stranamente nudo e indifeso senza
le sue
armi.
«Perché
hai scelto proprio questo posto per costruire il villaggio?»
«Che
cosa
vuoi dire?»
«Perché
hai voluto fondarlo qui?» insiste Link cocciutamente.
Miceda
non ha ben capito dove voglia andare a parare, ma nonostante
ciò prova comunque
a rispondergli: «Perché in questa zona non c'era
nessun altro villaggio, direi.
Si costruisce qualcosa perché ce n'è bisogno. E
poi... Link, ma che domande mi
fai? Un posto vale l'altro.»
«Ma
tu lo
sapevi che c'erano dei mostri, in questa zona?»
Miceda ha
capito, finalmente, e quando capisce il suo volto si fa molto triste.
Gli
rivolge un sorriso strano. «Oh, Link...»
«Che
c'è?»
«Link...
i mostri sono ovunque.»
«Sì,
ma...»
«Ci
sono
mostri fuori da Calbarico. Ci sono membri della banda degli Yiga tutti
attorno
a Finterra, eppure la gente ci vive lo stesso. Pensi forse che se
esistesse un
posto più sicuro, non sarei andato là a costruire
il mio villaggio? Però la
gente da qualche parte deve pur vivere.»
Sì,
Link
lo ha visto come vive la gente di cui parla Miceda, barricata
all'interno del
villaggio, a vivere una vita quieta facendo finta che i mostri, quattro
o
cinquecento metri più a valle, non esistano...
chissà come ha fatto a
illudersi, per qualche giorno, che qui le cose stessero diversamente.
Che
boblin e lizal avessero dimenticato questo buco abbandonato dagli dei,
e che
qui la gente avrebbe potuto vivere e morire in pace, beatamente
dimentica della
rovina di Hyrule tutto attorno a loro; che il pericolo non sarebbe
venuto a
cercarlo mai fin lì, ed egli avrebbe potuto dimenticarsi
d'esser stato, un
tempo, un eroe...
D'improvviso,
Link si sente molto stanco. «Che cosa farai quando
arriveranno gli abitanti?»
«Quello
che facciamo da tutta la vita, Link» risponde Miceda
pazientemente. Forse è la
prima volta che lo sta prendendo davvero sul serio. «Ci
adatteremo.»
Ma questo
non è accettabile, non è ammissibile, Link non
può tollerare che si viva così,
circondati dai mostri a due passi da casa. E come farà la
gente ad andare a
prendere acqua finché i pozzi non saranno efficienti? E la
legna come se la
procureranno, quando sarà freddo ma i mostri discenderanno
giù dalle montagne?
Eppure, se lo stesso Miceda non vede una soluzione, per quale motivo
dovrebbe
essere lui a crearne una...? Non sta in fondo già facendo
tutto quel che può
per quel villaggio? Non ha diritto anche lui, come gli altri, a
starsene fermo
e al sicuro ad aspettare che altri vengano a salvarlo?
«Link,
dai, torna a mangiare... c'è il formaggio...»
Già...
sarebbe bello, poter pensare soltanto al formaggio...
La terza
notte, Link indossa l'armatura cheMipha ha creato per lui –
l'unica armatura
che abbia, in realtà – controlla lo stato delle
sue armi, ed esce a sellare il
suo cavallo. I ruggiti dei boblin si sono fatti di notte in notte
più vicini,
ed egli non ha più dubbi: stanotte o domani, al
più, saranno qui.
«Link,
che cosa stai facendo?»
Miceda lo
ha seguito fuori con gli occhi colmi di preoccupazione. Non intende
lasciarlo
andare, Link ne è consapevole al solo guardarlo, ma proprio
per questo non può
permettergli di fermarlo. Continua a stringere più
saldamente la bardatura di
Nemeŝek e si sforza di apparire tranquillo e rassicurante anche
così, ricoperto
della sua corazza. «Ehi... ho una questione da risolvere, ma
non preoccuparti,
non ti abbandono. Conto di tornare domattina.»
«Link...»
inizia Miceda in tono di supplica. Link lo sa, lo percepisce che
quest'uomo è
devastato, che vorrebbe disperatamente trattenerlo, e che non sa come
farlo;
che sente che gli sta sfuggendo dalle mani come acqua da una rete, e
tutto ciò
che può fare, per trattenere questa fiumana che si
allontana, è pregare.
«Senti, se è per i mostri, troveremo
un'alternativa, va bene? Possiamo
costruire delle mura... con tutti quei macigni, possiamo provare
a...»
Da quando
Link si è svegliato lassù, nell'unica casa che
mai potrà avere, Miceda è il
primo che si sia mai veramente preoccupato per lui –
preoccupato a tal punto da
cercare di salvarlo e da non richiedere da lui il sacrificio della sua
vita; ma
proprio per questo motivo Link non prova nemmeno per un momento la
tentazione
di tirarsi indietro e lasciar perdere. Proprio ora che non gli viene
richiesto
da nessuno e che nessuno lo biasimerebbe se decidesse di non provarci,
Link
vuole davvero rischiare la vita e gettarsi a
capofitto nel pericolo per
salvare questo carpentiere che è stato il primo a offrirgli
ciò di cui aveva
veramente bisogno: un lavoro e un piatto di minestra e l'illusione di
una vita
normale.
Ci è
voluto un po', certo, e gli è toccato venire fin qui, ma
finalmente Link lo ha
capito che questa vita nascosta a far finta che i mostri non esistano
egli non
potrebbe viverla mai. Questa consapevolezza lo fa sentire talmente
risollevato
che sorride, e Miceda rabbrividisce e si ritrae di scatto al vederlo
sorridere.
Forse pensa che sia diventato matto davvero.
«Non
preoccuparti, Miceda. Ti prometto che non mi succederà
nulla, ma bisogna che i
mostri non ci siano quando la gente arriverà.»
Tutte le
obiezioni che Miceda sta per muovergli Link le conosce già,
per averle troppe
volte formulate nella propria mente: che i mostri esistono ovunque e
sono una
realtà inevitabile, che nessuno al mondo è tenuto
a fare più di quanto... ma
quelle obiezioni Link non ha più intenzione di ascoltarle,
nemmeno da parte
sua. Quali che siano i suoi diritti come essere vivente, se
c'è qualcosa che sa
per certo è che non può rimanere qui ad aspettare
che i mostri arrivino alle
porte del villaggio. Allora scosta gentilmente Miceda per una spalla,
sale a
cavallo e lo sprona a partire: alle sue spalle, al centro del
villaggio, Miceda
rimane a fissare la sua figura che si allontana col cuore infranto, e
Link si
domanda se essere un eroe voglia dire anche questo.
Link ha
mentito. Quando ritorna al villaggio il giorno seguente, ormai, l'ora
di pranzo
è passata da un pezzo. Ha fatto tardi.
Miceda
non è al lavoro, stranamente, e neppure è vicino
al grande pentolone su cui
soliti cucinarsi il pranzo verso mezzogiorno. Quando si rende conto di
non
trovarlo in giro, Link si sente stupito e parzialmente preoccupato,
mentre
rientra stanco e trionfante a cavallo, bello di sangue e di polvere,
colle
bisacce cariche del bottino della sua vittoria. Che Miceda si sia
cacciato in
qualche guaio per venirlo a cercare?
«Link!»
Solo a
questo punto Link capisce che la voce proviene dall'alto. Per vederlo
tornare,
Miceda deve aver trascorso tutta la notte issato sul tetto della loro
casa-magazzino, nella speranza di avvistarlo...
Mentre
Miceda si precipita giù, Link gli conduce stancamente
Nemeŝek incontro, al
passo, ma non smonta di sella. Aspetta.
Lo
sguardo di Miceda è attonito e stupefatto, incredulo, il suo
petto vibra di un
sollievo cui non riesce ancora ad abbandonarsi. Esita ad avvicinarsi al
cavallo, mantenendo da lui una distanza dettata dalla prudenza, e dal
timore
che gli legge negli occhi Link intuisce che stenta a riconoscerlo. Si
sono
visti solo poche ore fa, ma non è così poco
empatico da non comprendere che,
dal punto di vista di questo carpentiere, il guerriero che è
tornato da uno
scontro per lui inimmaginabile non ha più nulla del ragazzo
con la tunica
azzurra che trascorre le sue giornate a piallare legno. Miceda ha di
fronte a
sé una persona nuova che credeva di non aver mai conosciuto,
e questo lo sorprende.
«Sei
sporco di sangue» dice Miceda esitante.
«Non
è
mio» risponde Link, anche se è una parziale bugia.
In parte è anche suo, ma è
certo che non sia nulla di più di qualche graffio. La
corazza di Mipha e
l'ardore della sua preghiera lo hanno protetto a sufficienza, e poi
è bello
avere finalmente delle ferite sue, che appartengano
a lui e non al Link
del passato.
Miceda
non appare persuaso dalla sua risposta, ma Link non vuole che si
preoccupi per
una simile sciocchezza. Nel tentativo di cambiare argomento,
d'improvviso gli
torna in mente d'aver portato qualcosa per lui e subito si affretta a
sganciare
una grossa sacca dalla sella. Quando precipita a terra, le armi che
contiene
emettono un suono sinistro, un insieme di scricchiolio di legno e di
tintinnio
di metallo, e Miceda se ne ritrae di scatto con un brivido d'orrore.
«Che
cosa...?»
«Sono
le
loro armi. Quei mostri non vi daranno più alcun fastidio, ma
non posso evitare
che ne discendano altri dalle montagne. Io tornerò ogni
tanto a controllare la
situazione, ma quando non ci sarò, bisognerà che
la tua gente possa...»
«La
nostra gente» lo interrompe Miceda, e senza neppure
rendersene conto Link
ripete macchinalmente: «La nostra gente, certo.»
Solo dopo averlo detto si
rende conto del reale significato di queste parole, ma neppure per un
momento
pensa di ritirarle o minimizzarle. Per avervi lavorato e averlo difeso,
in fin
dei conti, questo villaggio appartiene un po' anche a lui.
Miceda
esita ancora un po', ma stavolta il
suo
silenzio è insolitamente melanconico. Dalla tristezza che ha
velato i suoi
occhi, è chiaro che ormai ha capito che le cose sono
cambiate. «Tu non scendi?»
Il suo
cuore vorrebbe restare. Se Link avesse veramente scelta, se davvero gli
fosse
possibile decidere liberamente come spendere questa vita che gli
è stata resa,
questo è l'unico posto dove vorrebbe vivere e morire, e
questo è l'unico lavoro
che gli piacerebbe fare. Ma non ha una vera e propria scelta
– o meglio ce
l'ha, poiché con la memoria egli non ha perduto anche il
libero arbitrio: se
restasse qui a nascondersi per tutta la vita, crogiolandosi nella
consapevolezza d'avere tutto il diritto di essere egoista, nessuno
verrebbe a
cercarlo. Ma Link ha scoperto una cosa molto interessante su se stesso,
durante
la sua fuga, e cioè che, per quanto esista una parte di lui
profondamente
vigliacca, egoista, che vorrebbe soltanto strisciare in un buco a
nascondersi e
uscirne solo quando altri abbiano sistemato le cose, non è
quella la parte più
forte di lui; che esiste un'altra porzione del suo animo, un po'
più silenziosa
ma molto più determinata dell'altra, che non
tollererà mai di restare a
guardare mentre altri corrono un pericolo, e che si slancerà
sempre, anche
quando non gli verrà richiesto da nessuno. È
confortante sapere di non essere
egoista e spaventato quanto temeva di essere, e di somigliare un po' di
più
all'eroe che tutti pensano che sia. Ha ricominciato davvero daccapo,
qui, anche
se non nel modo che si era aspettato.
«Vorrei
potermi fermare» risponde. È profondamente
sincero, ma è tutto quello che può
dire. «Ma ho delle cose da fare in degli altri posti, e mi
sono fermato anche
troppo. Ho approfittato di un tempo che purtroppo non è solo
mio.»
Fino a
quando non affronterà l'oscura possenza che si cela
là, nella foschia del
castello, il suo tempo pulserà allo stesso ritmo di quello
di Zelda. Link non
può ancora dire di conoscerla, certo, di lei ha ricordato
ancora troppo poco;
ma per quel poco che ha ricordato di lei, della sua sofferente ricerca
di un
misticismo che a ogni momento le sfuggiva, forse anche a lei sarebbe
piaciuto
poter scegliere, cento anni prima, e arrogarsi il diritto di aspettare
che
qualcun'altro si sacrificasse al suo posto. Il vecchio Link faceva
parte della
sua guardia, e almeno questo, tuffarsi a salvarla dopo cento anni e
cercare di
riportarla al mondo esterno, glielo deve. Quando l'avrà
salvata e Hyrule sarà
tornata in pace, e ogni dovere ch'egli si sia addossato durante la sua
vecchia
vita sarà stato assolto, allora egli sarà
veramente libero e potrà venire a
vivere qui, e cercare notizie su sua madre e riversare su Impa tutto il
suo
rancore, e qualsiasi altra cosa che ora è obbligato a
posticipare.
Naturalmente
parole per esprimere tutto questo non esistono, e Link non si aspetta
neppure
che Miceda possa capire o credere a nulla del genere. Ma contrariamente
a ogni
sua aspettativa, mentre già egli stava cercando dentro di
sé una qualche bugia
alla quale l'altro possa fingere di credere, inaspettatamente
è Miceda a
parlare per primo. «Vai a salvare Hyrule, eh?»
Dovevano
essere almeno cento anni che Link non rideva. L'avrebbe creduto mai,
fino alla
sera prima, che quest'uomo più scettico di un ateo avrebbe
un giorno creduto
davvero alle sue parole?
Sereno
quanto mai avrebbe creduto di poter essere, Link annuisce sorridendo.
«Già...
una specie.»
C'è
un'altra mezza idea che gli balena in mente quando pensa di dover
ripartire.
Volgendo lo sguardo su questa terra ancora vergine, pensa che gli
piacerebbe
poter vergare finalmente una storia che nessun altro si sia arrogato il
diritto
di scrivere per lui, una volta che tutto questo sarà finito.
«Senti... pensi
che potresti tenere una casa libera per me? Te la pago quando
torno.»
«Oh,
posso fare di meglio.» Miceda non si è preso
neppure un momento per rifletterci.
Sta sorridendo, finalmente, forse perché Link,
implicitamente, gli ha appena
promesso di tornare. «Terrò da parte un lotto per
te. Quando tornerai, la
costruiremo insieme.»
Sarebbe
bello poter costruire una casa, come prima cosa quando tutto questo
sarà
finito. Sarà un bel pensiero da portare con sé,
durante la battaglia che lo
aspetta al castello di Hyrule.
Protendendosi
dalla sella verso di lui, Link gli stringe la mano e risponde:
«Promesso.»
«Ecco,
a
proposito delle case...» Dopo aver lasciato andare la sua
mano, Miceda sembra
quasi imbarazzato. «L'altro giorno hai detto che stavi
andando dalle parti dei
Goron. Vai sempre là?»
Link
aggrotta la fronte. «Perché me lo
chiedi?»
Miceda si
stringe nelle spalle. «Beh, mi servirà un po' di
aiuto ora che tu te ne vai, se
vuoi trovare il villaggio pronto per quando tornerai. Se per caso
dovessi
trovare qualche Goron che ha bisogno di un lavoro, mandamelo qui. La
cosa
importante è che...»
«Lo
so,
lo so» lo interrompe Link sorridendo. «Che il suo
nome finisca in da, lo
so. Cerada e tutto il resto.»
«A
dire
il vero, stavo per dire che dev'essere forte quanto te, se deve
sostuirti»
borbotta Miceda. «Comunque, certo... anche quello che hai
detto tu è
importante.»
Link
sorride tra sé e sé prima di riprendere il filo
del discorso. Senza volerlo,
quest'uomo si è persino lasciato scappare un complimento.
«In questo caso
dovrai dirmi come si chiama questo posto. Voglio dire... se incontro un
Goron
come serve a te, come farò a dirgli dove trovarti se io
stesso non conosco il
nome del villaggio?»
È
solo a
questo punto che entrambi si rendono conto che hanno sudato e imprecato
e si
sono spaccati la schiena ininterrottamente per tutto questo tempo, ma
non hanno
trovato nemmeno un minuto per pensare al nome del villaggio. Questo
pensiero è
talmente assurdo che entrambi rimangono senza parole per qualche
momento, a
chiedersi invano come si siano riferiti al villaggio per tutto questo
tempo.
Tutto
sommato, pensa Link, questo può essere un segno del destino,
e sorride.
«Io
un
nome da proporre ce l'avrei.»