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Autore: Blablia87    17/12/2017    6 recensioni
John Watson, ex medico militare, non ha mai utilizzato - benché gliene sia stato fornito uno come sostegno durante il periodo di riabilitazione a seguito di un ferimento in missione - un R'ent. 
Preferisce continuare a percepire la realtà attraverso i sensi, invece di riceverla sotto forma di impulsi elettrici.
John Watson non comprende come possano esistere persone, i Ritirati, che decidono di isolarsi in modo permanente dal mondo lasciando ai propri Sostituti il compito di unico filtro tra loro e l’esterno.
John Watson è convinto che, per lui, la guerra sia finita.
Fino a quando il R'ent di un Ritirato, Sherlock Holmes, non compare sulla porta del suo studio in cerca di aiuto.
[Sci-Fi!AU][Johnlock][“Android”!Sherlock]
Genere: Angst, Science-fiction, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash | Personaggi: John Watson, Lestrade, Mycroft Holmes, Quasi tutti, Sherlock Holmes
Note: AU, OOC | Avvertimenti: nessuno
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Non dar retta ai tuoi occhi e non credere a ciò che vedi: gli occhi vedono soltanto ciò che è limitato.
(Richard Bach)


11.
(ovvero di Bot e visite notturne)
 
«Forse dovremmo aspettare l’orario di visita» sussurrò John, le mani affondate nelle tasche del cappotto e la testa incassata nelle spalle, affiancandosi a Sherlock con espressione dubbiosa.
Lui, senza dar segno di averlo sentito, citofonò con forza, premendo fino in fondo il pulsante rosso posto accanto alla porticina ritagliata nel cancello.
«Dubito che ci sia qualcuno alla reception, alle sei e mezza del matt-» provò di nuovo il medico, venendo interrotto da una voce metallica.
«Residenza Rose, come posso esservi utile?»
Il R’ent si girò parzialmente verso di lui, lanciandogli uno sguardo trionfante.
«Mi chiamo Sherlock Holmes, sto collaborando con la polizia londinese alla risoluzione di un caso che potrebbe coinvolgere uno dei vostri assistiti» rispose poi, con voce chiara e scandendo le parole. «Il Dottor Watson, che mi accompagna, ed io avremmo bisogno di incontrare Alvina Forrest.»
«Un attimo solo» replicò la voce, prima di staccare la comunicazione.
John sollevò le sopracciglia, portandosi ancora più vicino all’altro.
«Non è un reato spacciarsi per consulenti delle forze dell’ordine?» sibilò, preoccupato.
Sherlock mimò un respiro profondo, socchiudendo gli occhi. «Cosa le avevo detto, a casa? Si deve fidare di me» ribatté rapido.
«Io posso anche fidarmi di lei, ma questo non significa che sia disposto a finire in carcere con lei» contestò John, con tono spazientito.
«Non finiremo da nessuna parte se non nella stanza della signora Forrest.»
«Se continua a millantare collaborazioni fantasios-» riprese il medico, con ancora maggior enfasi.
«Mi stia a sentire.» Sherlock si chinò in avanti, portandosi con il viso a pochi centimetri da quello dell’altro. John, specchiandosi nelle iridi del R’ent, fece istintivamente un passo indietro. «Io non millanto collaborazioni. Sono un Cooperante Esterno della Sezione Crimini Violenti del Quarto Distretto, sotto la guida dell’Ispettore Lestrade. Se proprio le piace l’idea di perdere tempo può contattare la centrale e chiederlo a lui direttamente. Credo si chiami Graham, o Gavin… un nome simile, comunque» sussurrò con irritazione, il volto serio e impassibile. «Adesso, se non le spiace…»
Il suono freddo del cancello che veniva aperto sorprese entrambi, facendoli voltare verso sinistra.
«Ha visto? Semplicissimo» esultò il detective, avviandosi in direzione del portone con passi lunghi e sicuri.
John rimase per qualche secondo immobile con la bocca socchiusa, mentre piccoli chicchi di grandine si incastravano nella pelliccia attorno al cappuccio, appesantendolo.
Sherlock - arrivato vicino alla porta a vetri scorrevole che dava sull’interno della struttura - si voltò verso di lui, facendogli cenno in modo impaziente di avvicinarsi.
Il medico alzò gli occhi al cielo, domandandosi in che razza di guaio si fosse cacciato. Poi, con un sospiro rassegnato, coprì velocemente la distanza tre sé e l’altro.
 
 
***
 
 
Le pareti della hall della casa di riposo erano dipinte di un azzurro tenue, reso ancor più morbido dalle luci soffuse. Un paio di poltrone rivestite di stoffa floreale - anch’essa sui toni del blu - troneggiavano ai due lati della porta d’ingresso, le sedute seminascoste da ampi cuscini ricamati.
John si voltò a guardarle, attratto da quel punto di colore così acceso. Sherlock, invece, attraversò l’ingresso con ampie falcate, avvicinandosi al desk riservato all’accoglienza.
«Come posso aiutarvi?» domandò una donna di mezza età, dal volto gentile.
«Siamo qui per controllare lo stato di salute di Alvina Forrest» le rispose il R’ent, sistemandosi nuovamente il cappotto sulle spalle.
«È un orario inconsueto, per una visita» ribatté lei, inclinando la testa da un lato senza smettere di sorridere.
«Lo dicevo, io…» commentò John, alle spalle di Sherlock.
Lui si girò per un secondo a guardarlo, impassibile.
«Ci ha chiesto lei di farle visita a quest’ora. Soffre di insonnia» scandì poi, tornando a rivolgersi alla segretaria.
Lei sbatté le palpebre un paio di volte, come se stesse cercando di incamerare l’informazione o di confutarla in base ai dati in suo possesso.
Il medico si portò al fianco del detective, osservandola accigliata compiere dei rapidi movimenti oculari.
«Molto bene» sentenziò la donna alla fine, annuendo con convinzione. «Appartamento 3/B, terzo piano.» Indicò con una mano una lunga scala alla propria destra. «Se volete, in fondo al corridoio abbiamo un ascensore.»
«Le scale andranno benissimo» ringraziò Sherlock, tamburellando velocemente sul legno del bancone prima di staccarsene del tutto. «Non è vero, Dottor Watson?»
«Certo… benissimo» confermò lui, confuso, un’espressione incerta ancora dipinta sul volto.
«Buona permanenza, allora» rispose la donna, aprendosi in un sorriso ancora più grande di quello che aveva accompagnato ogni sua parola fino a quel momento.
Sherlock fece cenno a John di seguirlo. Poi, veloce, si mosse in direzione della scalinata.
Quando raggiunsero la fine della prima rampa, approdando su un pianerottolo deserto e scarsamente illuminato, il medico fermò l’altro con una mano, costringendolo a voltarsi.
«Si può sapere cosa sta succedendo?» sussurrò, abbassando istintivamente la testa assieme alla voce.
«Non la seguo» ribatté il R’ent, mantenendo la postura rigida ed il tono di voce inalterato.
«Com’è possibile che ci venga accordato il permesso di far visita a qualcuno a quest’ora?» continuò John, sollevando le mani. «Non dovrebbero esserci controlli, in posti come questo?»
Sherlock alzò un sopracciglio. Poi socchiuse gli occhi, nell’imitazione perfetta di un’espressione di bonaria accondiscendenza.
«Quante volte è stato, esattamente, in un posto come questo?» domandò, stirando le labbra in un sorriso obliquo.
«Neanche una, per fortuna» rispose l’altro, incrociando le braccia al petto.
«Almeno si è accorto che la donna all’ingresso è un Bot?» continuò il detective, trattenendo a stento una risata.
«Cos…» John socchiuse le labbra, sconvolto. «Ma non che non era… cioè…» balbettò un paio di volte, prima di tornare velocemente sui propri passi, fermandosi a metà della rampa. Da quella posizione, la parte laterale del bancone era perfettamente visibile. La segretaria, immobile, ne occupava lo spazio dal lato interno fino alla vita. Subito sotto a dove terminava la sua camicetta bianca, un groviglio di cavi e strutture metalliche le permettevano di rimanere sollevata, ancorandola al pavimento.
«Che mi venga un colpo» mormorò John, scuotendo la testa.
«Visto? Alla fine perché dotare di apparati per la locomozione qualcuno che deve starsene immobile dietro ad un desk» commentò Sherlock, apparendo alla sue spalle.
«E i pazienti…?» chiese il medico, continuando a fissare la parte inferiore del robot.
«Pazienti? Non ci sono pazienti, qui, ma ospiti. È una struttura per la lungo degenza, non un ospedale per malati terminali. Certo, si potrebbe obiettare che la vecchiaia, come la vita stessa, sia di per sé un processo di lento decadimento verso l’entropia e la morte, ma-»
«Mi sta dicendo che nessuno si occupa delle persone che abitano in questo posto?»
«Sto dicendo» riprese Sherlock, pazientemente, facendo cenno all’altro di riprendere a salire. «Che qui vengono aiutate, ma non accudite. Lo pensi come un piccolo condominio, dove due volte al giorno qualcuno viene a consegnare i pasti e a ritirare la biancheria sporca. Un albergo, più che una struttura medica.»
«Quindi ognuna di queste porte dà su un piccolo appartamento?» domandò John, lanciando un’occhiata alla fila di usci bianchi che si snodava davanti a loro.
«Precisamente. Appartamenti di lusso, per di più. Comprensivi di ogni comodità, R’ent…» annuì Sherlock.
«R’ent inclusi» terminò per lui il medico, colpito. «Non oso immaginare i costi.»
«Non lo faccia. Con la sua pensione da sanitario non potrebbe comunque permetterselo» commentò Sherlock, svoltando a sinistra sul pianerottolo e riprendendo a salire.
«Molto gentile» borbottò John alle sue spalle, lanciandogli uno sguardo truce.
 
 
«Eccoci qui.» Sherlock posò i piedi sul pianerottolo del terzo piano e si fermò.
John, con un leggero principio di fiatone, lo raggiunse pochi secondi dopo. «3/B, giusto…?» chiese, le parole appesantite da un lieve ansimare.
«Esattamente» confermò il R’ent, spostando gli occhi velocemente da una porta all’altra. Dopo qualche secondo si voltò a sinistra, iniziando a percorrere il corridoio che si apriva su quel lato.
A terra, una soffice moquette colore panna rendeva a John difficoltoso camminare in modo spedito, rendendo necessario che piegasse il ginocchio della gamba destra più di quanto era abituato a fare.
«Non un grande aiuto, per la sua zoppia psicosomatica» notò Sherlock, senza girarsi.
«No. Non molto. E comunque è solo parzialmente psicosomatica» ribatté il medico, continuando ad avanzare con passo pesante.
«Se le piace pensarla così…» commentò l’altro, bloccandosi di colpo di fronte ad una delle porte. Un enorme targhetta metallica – con incisa al centro la scritta “B – Sig.ra A. Forres” – campeggiava al centro del legno pitturato di bianco.
«Molto bene.» John si affiancò all’altro, deglutendo per riprendere fiato. «Che facciamo, bussiamo?» domandò.
«Non credo che ce ne sarà bisogno» commentò l’altro, indicando il pomello della porta in risposta allo sguardo confuso dell’altro.
Al centro della maniglia cromata, una piccola macchia scura e irregolare si stava scurendo a partire dai bordi frastagliati.
«Ma quello è…» iniziò John, sentendo le parole morire al centro del petto, insieme al suo respiro.
 
«Eccellente, Dottor Watson. Sangue.»  
 




 
Angolo dell’autrice:

È passata più di una settimana dall’ultimo aggiornamento e devo chiedervi scusa per il ritardo.
Tornare “alla normalità” è stato un po’ complicato (comunque meno del previsto, fortunatamente!), e ho preferito riposare il più possibile.
Mi aspettano altre tre settimane difficoltose, ma sono abbastanza sicura di riuscire a pubblicare con costanza durante questo periodo.
Quanto meno, posso assicurarvi che farò del mio meglio. ^_^
 
Grazie di cuore a tutti quelli che si sono preoccupati per me, facendomi sentire la loro vicinanza in ogni modo possibile. Siete stati un grosso sostegno, davvero.
 
A presto,
B.
 
 
 

 
   
 
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