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Autore: Giuf8    23/12/2017    1 recensioni
Non insistere perché ti abbandoni e rinunci a seguirti, perché dove andrai tu andrò anch’io, e dove ti fermerai mi fermerò. Il tuo popolo sarà il mio popolo, e il tuo Dio sarà il mio Dio. Dove morirai tu, morirò anch’io e vi sarò sepolto: l’Angelo faccia a me questo e anche di peggio se altra cosa che non sia la morte mi separerà da te.
Post 2x20... Non credo serva altro per capire di cosa parli...
Genere: Drammatico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Alec Lightwood, Altri, Jace Wayland
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Una stilettata al petto.
Non ci fu altro. Non un sussulto, non un rumore, nessun mostro da cui difendersi. Accadde e basta.
Fu solo una veloce, fugace, fitta al cuore. Nulla più, nulla meno.
Non fu preannunciata da nulla e dopo di essa ci fu solo dolore.
Alec era in piedi con le braccia tese appoggiate sopra il tavolo da cui spuntava la mappa oleografica della città. Gli asmodei come suo unico pensiero, non faceva caso alla presenza di Clary e, con un lieve sforzo di volontà, riusciva a ignorare anche Magnus.
Poi arrivò.
Alec non capì subito. Sentì il suo corpo piegarsi in due meccanicamente, irrigidendosi, e il fiato che gli usciva dai polmoni.
Abbassò lo sguardo, sicuro di vedere l’elsa di un coltello fuoriuscire dal suo torace. Ma non c’era nulla.
Nulla tranne il dolore.
Quello lo sentiva, forte e chiaro sulla sua pelle che, sotto i suoi occhi, era intatta e al sicuro tra le mura dell’istituto. Eppure il dolore c’era. Il suo cervello glielo urlava in tutti i modi. Gli diceva di prendere aria che veniva risucchiata a rantoli dai suoi polmoni forti, eppure così compromessi. Gli diceva di estrarre quella lama che per forza doveva trovarsi nel suo petto, gli diceva di ignorare il sangue, di non svenire, di tenere gli occhi aperti, di lottare.
Un istinto primordiale gli stillò nelle vene paura liquida, non di qualcosa, non di qualcuno, ma di morire. Perché morire faceva paura, anche a uno shadowhunter, anche al capo di un istituto, anche ad Alec.
Una parte della sua mente, la parte logica, quella più razionale, quella calma che tanto odiava perché lo rendeva così diverso dagli altri cacciatori che erano così impulsivi in confronto a lui. Quella parte che gli aveva permesso di diventare quello che era, di amare Magnus, si isolò dal quelle sensazioni. Tutto divenne un rumore bianco di contorno e Alec capì.
Ad aprirgli gli occhi non fu il suo corpo incolume, ne la certezza che quel dolore fosse reale. Alec capì quando si vide portare, in un gesto quasi automatico, la mano sul fianco destro. Osservò attonito quelle dita che non sembravano neppure le sue. Non riuscì a distogliere lo sguardo nemmeno quando queste, senza che lui le desse apparentemente alcun comando scostarono la maglietta nera rivelando la runa che si celava sotto di essa e che sembrava ardere di fuoco puro e, esattamente come l’incendio che tutto brucia e consuma, andava dissolvendosi sulla pelle di Alec.
Jace.
Ma non poteva essere vero. Non poteva. Jace era un guerriero, era il cacciatore migliore che Alec avesse mai conosciuto, Jace… era il suo parabatai.
Non poteva accadere a lui, a loro. Proprio no.
La consapevolezza portò altro dolore, un dolore più sordo e cupo, un dolore fu come una doccia gelata che gli annodò la gola, gli spezzò il fiato e gli fece fermare il cuore. Sebbene il suo corpo non avesse riportato ferite, il dolore precedente era puramente fisico, atroce, certo, ma fisico. Questo nuovo dolore non era tangibile e non aveva cura.
Ad Alec sembrava che fossero passate ore da quando la sua unica preoccupazione erano una manciata di piccoli demoni che si aggiravano per New York, fu quando aprì gli occhi che si rese conto che in realtà dovevano essere passati solo pochi secondi. Quella scoperta gli fece uscire un gemito strozzato.
Una parte di lui iniziò a pregare,non seppe dire chi o cosa, non sapeva nemmeno se fosse una preghiera vera, perché tutto ciò che voleva e chiedeva era che quel dolore non finisse. Si sentiva un folle a volerlo, ma non sentirlo più avrebbe voluto dire qualcosa che non era ancora pronto ad ammettere. Perché no, non poteva succedere.
Percepì accanto a sé la presenza di Izzy e di Magnus. Le loro voci gli arrivavano da molto lontano, come se non fossero separati da lui solo da pochi centimetri, ma da miglia intere.
Cercò di parlare, cercò di avvisarli, di chiedere il loro aiuto, anche se quella, lo sapeva, era una battaglia che avrebbe dovuto combattere da solo, da solo con Jace. Perché Alec non era mai solo, non lo era più stato da davvero molto molto tempo.
Una fitta più forte lo travolse costringendolo a posare anche la mano che ancora teneva al fianco sul tavolo, nel tentativo disperato di reggersi a qualcosa mentre sentiva le ginocchia farsi molli e le gambe cedere.
Dicono che quando muori, mentre l’anima ti sfugge via dal corpo, senza che tu possa opporti, senza che tu possa in alcun modo convincerla di lottare, solo un altro po’, un’altra ora, un altro minuto, un secondo solo. Dicono che in quell’istante ci si veda scorrere davanti agli occhi tutta la propria vita.
Questo vale anche quando a morire non sei tu, ma il tuo parabai.
Non sarebbe giusto dire che Alec lo vide, Alec lo sentì.
Sentì tra le mani il peso del suo primo arco, troppo grande per le sue mani ancora morbide di bambino. Si sentì ispirare mentre prendeva la mira in uno stato di assoluta concentrazione per poi rilasciare il dardo insieme al respiro che aveva trattenuto fino a quel momento. Sentì l’imbarazzo e la delusione assalirlo quando capì che il colpo appena scoccato non avrebbe mai colpito il centro, perché sarebbe già stato un miracolo se avesse colpito il bersaglio. La freccia, infatti, andò a conficcarsi in una della colonne portanti di legno della sala degli allenamenti. Il cuore di Alec perse un battito quando vide una testa bionda spuntare pochi istanti prima che il colpo si conficcasse a qualche centimetro da lui. Il ragazzino fece un passo indietro e, senza mostrare la minima paura, guardò verso di lui.
“Jace”
Alec non seppe dire se avesse detto davvero quel nome o se fosse solo un suo ricordo, ma sentì ogni lettera posarsi come un macigno nel suo petto.
Sentì l’effetto che faceva essere guardato da lui quando ancora quello sguardo non era stato contaminato dai ricordi di una vita trascorsa insieme, dall’amore che avrebbe provato senza mai confessarlo.
Vide il Jace bambino con gli occhi di adulto, con gli occhi di chi sapeva che cosa lo aspettasse.
Quanto avrebbe voluto avvertirlo, digli di correre via, lontano dagli shadowhunter, lontano dai Lightwood, lontano da lui. Ma non poteva.
Quella consapevolezza gli strappò un urlo straziato, per un istante si chiese se stesse urlando veramente o se fosse solo la sua immaginazione.
Dai recessi della sua mente affiorò un altro ricordo.
Vide ancora Jace, ma questa volta era più grande, era quasi un ragazzo. Sulla sua pelle prima diafana si iniziavano a vedere i primi segni che quel mestiere comportava: piccole cicatrici biancastre, lividi giallo-blu e le prime rune.
Capì di che ricordo si trattasse quando vide la sua mano tendersi a afferrare il braccio di Jace appena sotto il gomito, un fuoco blu ad ardere intorno a loro senza bruciarli. La cerimonia per diventare parabatai.
 
Non insistere perché ti abbandoni e rinunci a seguirti, perché dove andrai tu andrò anch’io, e dove ti fermerai mi fermerò.
 
Le gambe, già precarie, di Alec non ressero più. Le sentì cedere sotto di sé e sentì il rumore del suo corpo che cadeva al suolo, senza avvertirne il dolore. Non poteva provarne altro, di dolore, almeno non per sé, non in quel momento.
Avvertì delle mani dolci che trasudavano preoccupazione prenderlo per le spalle scatenando un nuovo ricordo. Perché lui di ricordi di Jace ne aveva a non finire, ogni cosa, anche la più insignificante poteva far scaturire centinaia di memorie. Un semplice paio di mani lo riportarono a quando, il suo legame col suo parabatai era stato più debole che mai. Quello era un ricordo che Alec non rivangava spesso. Era consapevole della sua esistenza, ma lo teneva lì, sepolto tra altri mille ricordi in un angolo un po’ più buio del suo armadio della memoria. Ogni tanto, quando si sentiva abbattuto e triste lo ritirava fuori, lo spolverava e lo osservava con attenzione. Perché anche se quello era stato il momento in cui, per una stupida idiozia, aveva quasi rotto il suo legame con Jace era stato anche uno di quei momenti in cui quel legame si era fatto più forte. Solo Jace era riuscito a strapparlo da quel mare di oscurità e incoscienza in cui stava annegando. Solo lui, non c’era riuscita Izzy e non c’era riuscito nemmeno Magnus. Solo Jace.
 
Il tuo popolo sarà il mio popolo, e il tuo Dio sarà il mio Dio.
 
Un suono continuo perforava le orecchie di Alec mentre si dondolava a terra cercando di alleviare il dolore che si faceva sempre più insopportabile. Si sentiva come se dovesse sputare tutto il sangue che avesse in corpo, la runa a bruciargli la pelle, infuocandola e facendo reagire anche tutte le altre, sentiva un liquido caldo sgorgargli dal petto lì dove non c’era assolutamente alcuna ferita e la mente persa nei ricordi troppo profondamente per rendersi conto che quel rumore continuo, in realtà, erano le sue urla.
Vide quella volta in cui, sintonizzandosi con il legame parabatai per rintracciare Magnus, Jace aveva quasi scoperto i veri sentimenti di Alec, risentì l’ansia e quel pizzico di speranza che aveva provato allora. Si rivide seduto su un divanetto di pelle nera accanto a Jace, appena prima del suo matrimonio, si risentì dire parole che volevano convincere più se stesso che chiunque altro. Jace che gli diceva di essere innamorato e lui che per la prima volta non accoglieva quelle parole con rammarico, ma con felicità perché il suo cuore ormai era di un altro. Jace che gli diceva di essere fedele a se stesso, che gli chiedeva se era in grado di farcela dopo che Magnus era piombato in chiesa al suo matrimonio. Jace che gli salvava la vita in missione e migliaia di altri piccoli momenti che non erano altro che quello, momenti. Non avevano nulla di speciale erano ordinari istanti delle loro vite tutt’altro che ordinarie. Jace che storceva il naso assaggiando i biscotti di Izzy cercando di ingoiarli senza mostrare quanto schifo facessero perchè non aveva il cuore di dirle la verità. Lui e Jace che studiavano le rune all’accademia. Jace che sedeva accarezzando Curch e osservando un programma scadente alla tv. Gli scambi reciproci di regali a Natale. Jace che sorrideva. Nulla di tutto ciò sarebbe stato rilevante, nessuno di questi raffigurava un momento essenziale delle loro vite, ma erano i loro ricordi e questo bastava a renderli speciali.
In mezzo a quel marasma di episodi che lo stava soffocando Alec ne vide emergere uno. Era un ricordo che non gli apparteneva era un ricordo solo di Jace. Alec vedeva coi suoi occhi, sentiva con la sua pelle e pensava con la sua mente. Era disteso sulla terra umida, l’erba a solleticargli la guancia, il respiro pesante che fuoriusciva con un rantolo dalla sua gola, sangue nero che gli sgorgava dal petto. Sopra i sé vide una cascata di capelli rossi, Dio… adorava quei capelli. Pensò che per morire non avrebbe potuto scegliere un panorama migliore. L’ultima cosa che avrebbe visto sarebbero stati quei capelli che incorniciavano quel bellissimo viso rigato di lacrime. Avrebbe voluto dirle di non essere triste, ma la morte fa quest’effetto alle persone. Perché lui stava morendo. Lo sapeva come si sa che il fuoco brucia e l’acqua disseta. Era un dato di fatto, stava morendo e non poteva farci nulla. Ma ad assediare i suoi ultimi pensieri non era quella consapevolezza e non erano nemmeno i rimpianti per quello che sarebbe potuto essere e non sarebbe stato.
“Ti amo”
Era quel pensiero che gli rotolava nella mente, quel pensiero che, su tutti, ebbe la forza di uscire dalle sue labbra stanche e di raggiungerla. Perché di fronte alla morte non importa se quella che ami è tua sorella, non importa se vostro padre è un mostro, non importa se il mondo, per come lo si conosce, potrebbe essere distrutto per sempre. Tutto questo non conta. Di fronte alla morte contano solo i suoi occhi intrisi di lacrime e i suoi bellissimi capelli rossi perché è quegli occhi che avresti voluto guardare per il resto della tua vita, sono quei capelli, il cui colore riconosceresti tra mille, che avresti voluto vedere ingrigire. Ma non puoi.
Una lacrima solitaria gli percorse una guancia, un ultimo flebile respiro gorgogliò nel suo petto, un ultimo battito a dire addio a qui capelli rossi e poi morì.
 
Dove morirai tu, morirò anch’io e vi sarò sepolto: l’Angelo faccia a me questo e anche di peggio se altra cosa che non sia la morte mi separerà da te.
 
Alec si ritrovò boccheggiante sul pavimento dell’istituto.
Un secondo prima il suo corpo squassato dal dolore si contorceva tra le braccia di Magnus e della sorella, l’istante dopo fu solo… il nulla.
Vuoto.
Alec non ricordava come ci si sentisse a non avere un parabatai.
Essere il parabatai di Jace per lui era come respirare, una cosa meccanica e scontata senza cui non sapeva stare.
Jace c’era sempre, era con lui in missione, mentre rimuginava solo nella sua stanza, anche mentre era solo con Magnus lui c’era, sempre. Era una presenza che non poteva infastidire perché l’aria che respiri non potrà mai stufarti.
Jace era questo per lui, aria pura.
Ed ora non c’era più.
Alec avvertiva questi pensieri aggrovigliarsi nella sua testa, soli, non avvertiva più la presenza confortante di un’altra mente disposta ad ascoltarli, capirli o anche solo ad ignorarli a seconda di cosa avesse desiderato.
Le sensazioni dell’ambiente circostante gli arrivavano filtrate solo dai suoi sensi.
Nella sua mente regnava un silenzio intonso, un vuoto amaro.
Lo sguardo di Alec corse alla runa parabatai sul suo fianco destro che aveva smesso di bruciare e andò a schiarirsi sempre di più dissolvendosi e lasciando la sua pelle chiara esposta lì dove prima era percorsa dai segni neri della runa.
Alec era come quel lembo di pelle.
Vuoto.
 
 
 
 
 
 
Io… Ecco, non odiatemi.
Lo so che è triste ed è quasi Natale, ma non potevo proprio non scriverla.
Questa è una delle scene che più mi è rimasta dentro della seconda stagione e beh, ne stavo uscendo pazza a tenermela solo per me.
In realtà avrei voluto aggiungere la parte in cui Alec scopre che Jace è ancora vivo… Ma sapete quando qualcosa vi dice che è apposto così?
Questa storia mi è uscita di getto e mi ha tenuta sveglia fino alle quattro di notte e quando ho scritto quell’ultima parola… Boh, ho semplicemente smesso di scrivere. Non perché fosse tardi, ormai tardi (o presto in base a come la guardi) per tardi che importa? Ma perché l’ho sentita completa.
Sembro una pazza?
Per cui non so che altro dirvi se non che mi farebbe un immenso piacere se lasciaste delle recensioni, anche negative, piangerò un po’ ma poi mi saranno utili ahahah.
E niente… alla prossima storia (non so mai come finire questa parte *facepalm*)
Giuf8
P.s. Scusate ancora per una storia triste in questo periodo.
   
 
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