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Autore: Adeia Di Elferas    03/01/2018    2 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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“Alessandro Bentivoglio è entrato in città qualche giorno fa, ma se n'è subito andato...” stava dicendo Lorenzo, sfogliando le carte che aveva sotto al naso: “Appena ha capito che Firenze è appestata, ha preferito correre a Pisa. Ha preferito le colubrine al morbo...”

Il segretario del Popolano fece un cenno con il capo, come a dire che secondo lui il figlio di Giovanni Bentivoglio non aveva poi tutti i torti.

“Non hanno ancora pensato di chiudere le porte della città?” intervenne Semiramide, che fino a quel momento era rimasta vicina alla porta, ascoltando tutto, ma non dicendo nulla.

“I morti non sono molti, mia signora...” spiegò il segretario, voltandosi verso di lei facendo grattare le gambe della sedia contro il pavimento: “La peste sta uccidendo solo i vecchi e sta risparmiando molti giovani e anche i bambini...”

“Non mi pare, però, che sia un comportamento saggio... Se non si mettono in atto misure di sicurezza, come...” prese a dire la donna, ma il marito la interruppe bruscamente.

“Questi affari non ci competono!” disse con tono perentorio l'uomo: “Quel che ci preme è sapere delle decisioni della Signoria in merito alla guerra.”

“Ci interessa anche della peste, invece.” lo contraddisse la moglie, infischiandosene dello sguardo del segretario che correva prima a lei, poi a Lorenzo, curioso di vedere chi l'avrebbe spuntata: “Con che coraggio una città appestata può volerne conquistare un'altra?”

“Tu parli così solo perché vuoi tornare a Firenze e allora speri che le febbri spariscano in fretta. Se avessi la visione d'insieme che...” cominciò a dire il Medici, ma a quel punto Semiramide gli aveva già dedicato uno sbuffo e un'alzata di spalle ed era andata alla porta, lasciandolo solo con il segretario.

Da quando erano alla Villa di Castello, Lorenzo non si era più recato alla Signoria, per paura di venire contagiato, e aveva cominciato a rimuginare in solitudine, basandosi su fatti riportati e parole di questa o quella spia.

Secondo Semiramide quel metodo non aveva alcun senso. Avrebbe voluto convincere suo marito a fare pressioni nel loro partito affinché votassero per la chiusura delle porte, in modo da velocizzare la fine della peste e poter a quel punto seguire il suggerimento di Giovanni.

Il Popolano più giovane, infatti, in una delle sue ultime lettere aveva sottolineato l'importanza di far sottoscrivere alla repubblica una condotta per il Conte Ottaviano Riario che avrebbe portato con sé non solo soldati ottimamente preparati, ma anche la fedeltà di Imola e Forlì, permettendo a Firenze una certa distensione sul fronte orientale, una volta suscitata la guerra con Venezia.

Semiramide aveva capito benissimo che Lorenzo si era reso conto della validità di quella proposta, e dunque la faceva arrabbiare doppiamente il modo in cui lui si ostinava a rimandare e sminuire l'idea avuta da Giovanni.

“Se non lo proponi tu – gli aveva detto una sera, stanca e particolarmente abbattuta per via del clima grigio dell'autunno – andrò io alla Signoria a chiedere che ingaggino questo Riario.”

A quel punto Lorenzo aveva riso a mezza bocca e, per la prima volta da che erano sposati, si era permesso di offenderla, dicendo con fredda ironia: “E di certo la Signoria ascolterebbe una donna come te, divenuta grande esperta di guerra per gli anni passati a ricamare davanti al camino.”

Semiramide, in alcuni giorni, stentava a riconoscere l'uomo che aveva sposato anni addietro, in quello che suo marito stava diventando.

Era astioso, secco, sempre meno affettuoso, tanto con lei, quanto con i loro figli. La prima scheggia di ghiaccio nel suo cuore, la donna lo sapeva benissimo, s'era conficcata alla morte di Averardo e da allora non aveva fatto altro che ingigantirsi.

Veder partire Giovanni, poi, gli aveva dato un duro colpo, molto più di quanto Lorenzo probabilmente aveva creduto, quando aveva proposto il fratello come ambasciatore in Romagna.

Saperlo, poi, sposato con una donna che non approvava – e in effetti, chi mai, dotato di un minimo di buon senso, avrebbe potuto approvarla – e che sembrava volerlo sfruttare, approfittando dei suoi soldi e della sua influenza, aveva sprofondato sempre di più il Popolano maggiore nell'abisso del risentimento e della rabbia.

Ultimamente, poi, Lorenzo aveva preso l'abitudine di restare tutta notte nella sua stanza, senza più fare visita alla moglie.

Semiramide stava soffrendo moltissimo del tacito rifiuto del marito. Aveva anche cercato di capire se per caso avesse un'altra donna, ma tutte le sue indagini – minuziose e molto attendibili – le avevano confermato che l'uomo era solo, non vedeva nessuno né tanto meno dava mostra di volerlo fare.

Anche se quel dettaglio l'aveva in parte consolata, non era bastato per lenire del tutto la sua sofferenza.

Lorenzo non era mai stato bello, né particolarmente affascinante e, in tutta onestà, probabilmente c'erano amanti migliori, a Firenze, ma Semiramide lo amava e doversene privare senza nemmeno capirne il motivo era qualcosa che la stava distruggendo poco per volta.

Oltre a quello, poi, si stava anche mettendo a trattarla con poco rispetto anche in pubblico, come quel giorno, e dunque l'Appiani si sentiva ancora peggio.

Camminando a passo spedito, adirata e delusa da Lorenzo che l'aveva ancora una volta sminuita davanti a un estraneo – perché tale era quel segretario – Semiramide arrivò nell'ala della villa in cui Botticelli stava finendo i suoi affreschi.

Di solito si fermava sempre qualche minuto a rimirarli, ma quel giorno era così alterata che non li degnò di uno sguardo, anzi, anche quando passò danti al dipinto che ritraeva Venere – uno dei preferiti del cognato – non sollevò neppure per un istante gli occhi dai propri piedi che battevano in terra a gran ritmo.

Una volta raggiunto l'esterno della villa, guardò il cielo carco di pioggia e si chiese come sarebbero state le cose, se Giovanni fosse stato ancora con loro.

Avrebbe voluto scrivergli, per spiegargli di preciso come stava diventando Lorenzo, ma temeva di essere fraintesa o di non essere ascoltata. Stringendosi nelle spalle, per combattere il vento freddo di ottobre che soffiava sulla campagna, la donna tirò su col naso e si disse che almeno una cosa poteva scriverla, al cognato.

Rientrata nella villa, raggiunse le sue stanze e prese il necessario per scrivere. Ci pensò a lungo, e poi, dopo qualche frase di cordialità, in cui chiedeva a Giovanni come stesse e anche come stesse 'la Caterina tua', gli domandò un resoconto dettagliato delle forze che Forlì avrebbe potuto dare a Firenze e anche specificatamente quale fosse la richiesta in termini di denaro che la Sforza intendeva avanzare, per vedere se fossero fattibili.

'Ché se il fratello tuo – scrisse infine – non dovesse giunger a dunque, tu ambasciator florentino in Forlì presso esta Tigre temibile e temuta maximamente, avanzerai proposta formale di pugno tuo e sia la Signoria a valutare la qual cosa'.

Dopo un paio d'altre righe di auguri per una buona salute e una buona vita, augurandogli, anche se con un p' di anticipo, un buon compleanno, Semiramide chiuse con un semplice: 'La tua affezionata cognata'.

 

“Raccontami ancora di Castel Sant'Angelo...” disse Giovanni, la voce un po' arrochita: “Come hai fatto a tenerlo così tanto tempo?”

Caterina, seduta sul letto accanto a lui, richiuse il libro che stava leggiucchiando mentre il marito era assopito e sospirò, mentre si immergeva nei ricordi.

In quei giorni la Tigre aveva trascurato completamente gli affari di Stato, delegando tutto quanto al Consigliere Luffo Numai e al castellano Cesare Feo, confidando nel fatto che fossero abbastanza accorti da non combinare disastri durante la sua assenza.

Non aveva così mai lasciato la stanza che condivideva con il marito, se non per brevissime visite alle cucine o alla ghiacciaia. In realtà, il più delle volte, era sua figlia Bianca a presentarsi alla porta con del cibo, da bere o del ghiaccio per raffreddare i tofi infiammati del Popolano, risparmiando così alla Tigre dei viaggi inutili.

Il Medici stava facendo molta più fatica del solito a riprendersi. Anche se le sue articolazioni si erano già quasi del tutto disinfiammate, era rimasto molto sonnolento e a tratti appariva confuso.

Il dottore aveva spiegato alla Sforza che quello era il risvolto più temibile della sua malattia e che di norma si mostrava solo alla fine. Rifiutando, però, in modo categorico l'idea che il marito non si sarebbe ripreso, la Contessa aveva fatto del suo meglio, aiutandolo con qualche tonificante e, soprattutto, con la propria compagnia.

Più gli parlava o gli leggeva qualcosa, più l'aveva visto riaccendersi e dunque non aveva intenzione di smettere con quel suo metodo di cura poco ortodosso.

“Per tenere Castel Sant'Angelo – rispose la Leonessa, tornando indietro nel tempo con la memoria a quando suo marito era ancora Girolamo Riario e le sorti del conclave erano dipese per giorni da lei – prima di tutto mi sono assicurata l'appoggio dei soldati.”

“Quello è sempre importante.” concordò Giovanni, gli occhi chiusi, ma un sorriso tenue sulle labbra, segno che stava seguendo con attenzione.

Anche lui si era accorto che più provava a stare sveglio, più sembrava in grado di riprendersi, quindi cercava di filar dietro alle parole della moglie senza perdersene una.

“Esatto. Dopodiché ho puntato i cannoni contro la Santa Sede.” continuò la donna, passando con delicatezza la punta delle dita sulla fronte un po' umida del Medici.

“Anche i cannoni sono importanti.” fece lui, sentendo la pelle calda della moglie in modo distinto.

Quella sensazione, pensò, forse era dovuta alla febbre che stava scendendo. Solo il giorno prima, infatti, scottava tanto da avvertire le mani della moglie come gelate, quando invece non le erano.

“Sì, ma una cosa la sarebbe stata ancora di più – disse la Tigre, ricordando ancora il senso di rabbia e impotenza che l'aveva pervasa, quando aveva capito che non avrebbe in alcun modo potuto vincere – la mia difesa poteva reggere solo a patto che Girolamo tornasse indietro, portandomi il resto dell'esercito. Ho sperato che il Concilio temesse davvero che Girolamo tornasse...”

“Ma lui non è tornato.” anticipò il Medici, aprendo un po' le palpebre e guardando la moglie.

La luce tenue e ovattata che entrava dalla finestra rendeva i suoi capelli simili a fili d'oro e d'argento. Quando avrebbe voluto avere la forza per accarezzarglieli e poi per tirarla a sé, baciarla e...

“Già, lui non è tornato.” confermò Caterina, con un sospiro: “E così io ho dovuto lasciare Roma per sempre.”

Un paio di colpi alla porta fecero subito alzare la donna, mentre Giovanni stava dicendo, piano, ma con decisione: “Io sarei tornato.”

“Lo so.” sorrise la Sforza, mentre schiudeva la porta.

“Mia signora, non volevo disturbarvi, ma ho questa per voi.” disse il castellano, porgendole una lettera e poi ne mostrò un'altra: “E questa per vostro marito.”

La Contessa le prese entrambe, ringraziò Cesare e poi tornò a letto. Lesse il mittente di quella per lei e si chiese perché mai Achille Tiberti le avesse mandato un messaggio, dopo che si erano visti da poco, prendendo accordi chiari.

La seconda, invece, recava lo stemma dei Medici come sigillo.

“Vuoi leggerla?” chiese la Leonessa, dopo averla mostrata al marito.

Il Popolano, convinto che fosse l'ennesima tiritera di suo fratello, condita con più o meno vaghi insulti a sua moglie Caterina, fece appena segno di no e chiese alla donna: “Ti prego, lasciala sulla scrivania. La leggerò quando starò meglio.”

La Tigre ubbidì e poi, prima di risistemarsi, aprì quella di Tiberti. L'uomo le chiedeva di incontrarsi ancora per ridiscutere il metodo delle scorribande, secondo lui l'unico fattibile, e per avere da lei il permesso di portare gli stendardi degli Sforza Riario in battaglia.

Irritata dal tono perentorio usato dal Capitano, Caterina non pensò nemmeno per un istante di rispondergli, posponendo il problema a quando suo marito si fosse sentito meglio. Senza pensarci, strappò in due la lettera e la gettò nel camino.

In quei giorni aveva avuto un atteggiamento molto simile quasi davanti a ogni lettera ricevuta, eccezion fatta per una di suo fratello Piero e un'altra di Simone Ridolfi. In quelle si parlava delle solite cose, per lo più si trattava di resoconti e ragguagli e non le si chiedeva di prendere alcuna decisione importante.

Quelle le aveva ben sopportate, ma quella del Capitano Tiberti aveva un'arroganza eccessiva e aveva fatto la fine di quella di Savonarola, arrivata appena il giorno prima.

“Brutte notizie?” chiese Giovanni, un po' preoccupato, vedendo l'espressione truce della moglie, quando tornò accanto a lui.

“No, solo qualcuno che fa finta di non capire quel che gli viene ordinato.” concluse lei, ben decisa a non stancare il marito con questioni di Stato che, in quel frangente, l'avrebbero solo angustiato.

“Ti va di leggermi qualcosa?” chiese il Medici, con un respiro profondo, capendo perfettamente che invece qualcosa c'era, a disturbare la moglie, qualcosa di peggio di quel che lei aveva detto.

Avrebbe voluto riprendersi più in fretta, lasciare il letto in cui stava solo perdendo tempo, e fare del suo meglio per aiutarla. E invece si trovava a essere solo un peso.

“Cosa preferisci che ti legga?” chiese la donna, andando già verso la scrivania, pensando che il marito avrebbe scelto uno dei soliti libri.

“I versi di mio cugino Lorenzo...” sussurrò Giovanni: “Leggimi quelli.”

La Sforza allora andò alla cassapanca, l'aprì e dopo qualche minuto trovò i fogli in cui il fiorentino aveva ricopiato alcune delle canzoni e dei versi che il Magnifico aveva composto molti anni prima.

“Ti manca, Firenze?” chiese la Tigre, mettendosi vicina al Popolano, i fogli in mano e una sensazione strana che si insinuava nell'anima.

Il modo in cui Giovanni guardò altrove, con gli occhi un po' acquosi per via della febbre, le diede la conferma che lui non osava dare.

Pensando che il marito non le avrebbe risposto, la donna scelse una poesia a caso e cominciò a leggerla, ma a metà il Medici la fermò per dire: “Firenze mi manca moltissimo, e così mio fratello, mia cognata e i miei nipoti.” poi, con lentezza, sollevò una mano e la posò sul ventre di Caterina e con un debole sorriso continuò: “Ma casa mia è questa, adesso.”

La Sforza avrebbe voluto potergli promettere che sarebbero andati presto a Firenze, insieme, e che lì avrebbero cominciato una nuova vita, ma sapeva che era solo un'utopia. Anche volendolo davvero, non avrebbero potuto.

La Leonessa abbassò lo sguardo verso le dita del fiorentino, che le sfioravano con dolcezza la pancia, ancora troppo poco prominente per essere notata da chi non sapeva già la verità, e per un istante si sentì mancare.

Le linee, bellissime e ottimamente proporzionate delle mani di Giovanni avevano un dettaglio nuovo, che interferiva con la loro perfezione. Era un rigonfiamento ancora molto discreto, tra le ultime due falangi del mignolo. Era una cosa minima, ma c'era.

Il Popolano seguì gli occhi verdi della moglie e, anche lui per la prima volta, si accorse del nuovo segno che la sua malattia aveva lasciato sul suo corpo.

Come scottato, ritrasse la mano e chiese: “Mi leggeresti quella sulla giovinezza?”

Ancora scossa per quella scoperta, che gettava sul marito un'ombra in più, la Contessa annuì piano e cercò tra le pagine quella che le era stata chiesta.

“Quanta è bella giovinezza, che si fugge tuttavia...” cominciò la donna, con la voce bassa.

Il Medici fece un sospiro spezzato e poi chiuse gli occhi, per evitare a qualche lacrima di scappare dalle palpebre e restò in ascolto fino all'ultimo verso.

“Mio cugino, quando l'ha scritta – disse Giovanni, dopo che la voce di Caterina finì di ripercorrere le parole nate dalla penna del Magnifico – immaginava già che sarebbe morto per la malattia della nostra famiglia.”

La Tigre non disse nulla, fingendo di consultare di nuovo le poesie, in cerca di qualcos'altro da leggere, ma il marito sapeva che lo faceva solo per non cedere anche lei alla tristezza di quel momento.

“Tutti la vedono come una canzone allegra, ma non è così.” concluse il Medici, muovendosi un po' sotto le coperte: “Ora vorrei dormire un po'.”

La donna andò a rimettere subito i preziosi fogli che il Popolano si era portato appresso da Firenze nella cassapanca e poi si coricò accanto a lui, stando attenta a non toccarlo troppo, nel terrore di scatenargli di nuovo qualche dolore lancinante.

“Tu meritavi di più.” bisbigliò l'ambasciatore, quasi assopito: “Io sono solo un peso.”

“Non devi nemmeno pensarlo.” lo ammonì lei e poi lo osservò mentre si addormentava e restò a fissarlo a lungo, chiedendosi con un velo di panico cosa sarebbe successo nei giorni che li aspettavano.

 

La schiava di Anna Maria le stava passando con delicatezza una pezza imbevuta di acqua e aceto sulla fronte, per aiutarla a combattere il feroce mal di testa che da giorni non la lasciava.

“È tutto inutile...” sbuffò la moglie di Alfonso Este, scostando la mano della sua amante con fare quasi aggressivo: “È come avere un martello nella testa...”

La ragazzina non sapeva più come fare. Il Duca di Ferrara aveva chiamato anche un medico esperto, ma pure lui non aveva saputo consigliare di meglio se non il riposo e degli impacchi freschi.

Anna Maria si sentiva debole da giorni. Aveva le gambe e le caviglie tanto gonfie che le sembrava potessero esplodere, una cefalea fissa che le impediva anche il sonno, e il suo ventre era tanto grande da impedirla perfino nei movimenti più semplici.

“Grazie a Dio – disse, rivolgendo uno sguardo riconoscente alla sua schiava, l'unica che le stesse davvero accanto in quel periodo – tra un mese dovrei partorire. Non vedo l'ora che questo figlio nasca, così mi libererò da tanta fatica...”

La ragazza dalla pelle d'ebano non disse nulla, ma annuì, sforzandosi di apparire serena, malgrado tutto.

Aveva sentito il medico dire cose strane al Duca, ma non aveva capito proprio tutto, solo qualche cosa. Anche il dottore aveva detto che la nascita del bambino era l'unico modo per alleviare le pene della povera Anna Maria, ma aveva anche detto un sacco di altre cose strane che la schiava non aveva compreso.

Anche il Duca era apparso un po' confuso, a un certo punto, tanto che aveva mandato via il medico in modo sbrigativo e aveva poi ordinato alla schiavetta di seguire la nuora con la massima cura possibile.

“Almeno per questo – le aveva detto, scostandosi con un gesto secco una ciocca di capelli grigi da davanti agli occhi – sono certo che tu sarai più solerte di mio figlio.”

 

Con un respiro profondo, Giovanni provò a mettersi seduto. Prima con le gambe distese sul letto e poi, una per volta, giù, fino a toccare il pavimento con i piedi.

Caterina dormiva profondamente accanto a lui e non sentì i suoi movimenti sotto le coperte. Era stanchissima, il Medici lo sapeva benissimo. Per lei quei giorni erano stati un inferno. Non dormiva mai in modo tanto sordo.

Al fiorentino piaceva definire il sonno della moglie un sonno 'da soldati': era sempre allerta, anche quando dormiva, e in linea di massima bastava il minimo rumore strano o il minimo movimento per ridestarla.

Con un piccolo gemito di dolore, il Popolano provò a mettersi in piedi. Ce la fece, ma dovette poi lasciarsi ricadere sul letto.

A quel punto, per quanto immersa nel sonno, la Tigre si svegliò: “Che succede?” chiese, la voce un po' impastata: “Stai bene?”

Giovanni fece un altro respiro molto fondo e si rimise in piedi: “Guarda.” le disse, restando sulle gambe per qualche istante, prima di risedersi.

La Sforza registrò appena il fatto che fosse ancora piena notte e che il camino si stesse quasi spegnendo: “Riprova.” gli disse, ormai del tutto sveglia.

Il Medici eseguì e questa volta riuscì a stare in piedi molto più a lungo. Caterina, quando il marito si rimise sul letto, si sporse verso di lui e gli diede un bacio sulle labbra, sintetizzando tutta la sua felicità in quell'unico gesto.

“Vedrai che per il mio compleanno sarò di nuovo in grado di farmi vedere in pubblico.” assicurò il fiorentino, rimettendosi però subito coricato, stremato da quei pochi movimenti come se avesse appena finito di arare un campo: “Voglio festeggiare i miei trent'anni stando in piedi, e che diamine... Non a letto come un vecchio.”

La Leonessa fece due calcoli. Suo marito compiva gli anni il 21 ottobre. Mancava ancora qualche giorno. Già altre volte le aveva dimostrato di riuscire a riprendersi molto in fretta, una volta che entrava in remissione, dunque non era proprio da folli pensare che potesse avere ragione.

“Davvero non ti piacerebbe festeggiare il tuo compleanno a letto?” chiese allora lei, con un tono malizioso che voleva distrarre Giovanni.

Il Medici colse l'intenzione della moglie e così restò al gioco e rispose: “Se ce la farò, intendo tenermi quel genere di festeggiamenti per il dopocena... Sempre che tu sia d'accordo.”

Caterina sorrise e, invitata dal marito, si accoccolò contro di lui, un po' meno spaventata all'idea del futuro. Il medico di corte, probabilmente, aveva ragione: il fiorentino, per quella volta, se l'era cavata.

 

Achille guardò i suoi e poi, sollevando l'asta su cui aveva fatto legare uno stendardo con la rosa e la vipera, diede silenziosamente l'ordine.

Era da poco spuntata l'alba e il paesino che stava al limitare del confine tra Rimini e i territori della Tigre si stava risvegliando a fatica, in quel giorno di metà ottobre.

Quando i soldati di Tiberti, ben armati e coperti, uscirono dal fitto del bosco che circondava quel lato del paese, ai pochi che vagavano già per le stradine sterrate che si stendevano serpiginose tra le rade case di legno, fu subito chiaro qual che sarebbe successo.

“Razziate tutto!” gridò Achille, correndo in capo ai suoi, che avevano dato l'attacco con grida e motti di ogni tipo: “Fate bottino! Cibo e donne sono vostri! Uccidete tutti gli uomini! Bruciate le case!”

Il primo impatto coi paesani che fuggivano fu violentissimo. Achille non combatteva da tempo, ormai, e sentire gli schizzi caldi di sangue sul viso e le urla di uomini che morivano gli stava facendo in fretta venire le vertigini.

“Per la Sforza!” ululò e in breve tutti i suoi, che avevano cominciato a uccidere e setacciare ogni casa per rubare quel che c'era e usar violenza a tutte le donne che trovavano, iniziarono a fargli eco, ripetendo il nome della Contessa.

Quando gli uomini di Tiberti se ne andarono, quasi a sera, i pochi superstiti erano già scappati al villaggio più vicino e tutti quanti avevano riferito con certezze due cose.

La prima era che la ferocia dell'attacco era stata tale da radere al suolo ogni casa e lasciare solo morte e distruzione.

La seconda era che quella violenza e quella crudeltà erano state volute da una persona in particolare, e tutti furono concordi nel dire che si trattava, come avevano gridato per tutto il tempo i soldati che li avevano attaccati, della Tigre di Forlì.

“Andate subito a Rimini.” aveva allora detto il Capo Villaggio, prendendo da parte un giovane suo conoscente, ottimo cavallerizzo: “Riferite ogni cosa a Pandolfo Malatesta. A lui per primo, mi raccomando. Chi ci salvi dalla furia di questa belva...”

 
   
 
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