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Autore: Majakovskij    17/01/2018    1 recensioni
Ogni mattina John si sveglia, esce di casa e mangia una renna. Come gli ha insegnato suo padre, che lo ha imparato da suo nonno.
Genere: Fluff, Introspettivo, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Ogni giorno della sua vita John, da che riuscisse a ricordare, aveva mangiato una renna. Non che fosse particolarmente ghiotto di renne: semplicemente, era così che andavano le cose. La mattina si svegliava, andava in giardino, uccideva una renna e la mangiava. Così, cruda, a morsi, seduto in terra, con la carcassa dell’animale bloccata tra le sue gambe. Così.

Non che fosse particolarmente ghiotto di renne.

Semplicemente, così suo padre gli aveva insegnato. Così suo nonno aveva insegnato a suo padre, e il suo bisnonno al nonno. Così. Una tradizione di famiglia, quella della caribufagia, talmente lunga che aveva perso le radici nel mito. John si ricordava ancora la prima volta che suo padre gli aveva detto di mangiare una renna intera.

-Sei grandicello per mangiare gli avanzi, non pensi, giovanotto? È ora che tu uccida la tua renna e la mangi tutta da solo, come fanno i bambini grandi. Che ne dici?

Il piccolo John, che all’epoca aveva appena compiuto sei anni, aveva detto di sì. Sì papà, mangerò da solo la mia renna, te lo prometto.

Il padre, con calma, senza accelerare le cose, aveva ucciso una renna per il bambino, gliel’aveva adagiata tra le gambe e gli aveva detto: - Mangia. Non metterci poco, o non te la gusterai. Ma non metterci troppo, ché tra poco è pronto il pranzo. Trova il giusto tempo, senza adeguarti però al mio. Trova il tuo tempo per mangiare una renna.

Poi aveva ucciso una seconda renna, se l’era adagiata tra le gambe e aveva iniziato a mangiare.

John, fino a quel momento, si era sempre limitato a mangiare gli avanzi del padre. Principalmente il cuore, rosicchiato accucciato e con la schiena rivolta verso le altre renne, oppure l’addome, mangiato in braccio a suo padre, mentre l’uomo strappava a morsi la giugulare della bestia morta.  Una renna intera, mai. Con tutto il pelo, mai.

John ricordava ancora il senso di fascino e disgusto mentre la peluria dell’animale gli entrava tra i denti. Sputò, e suo padre lo guardò torvo.

-John, - gli disse, con severa dolcezza, - della renna non si butta niente.

Il piccolo, scusandosi, si cacciò in bocca i peli che aveva sputato.

La prima renna non andò bene come sperava: quando suo padre aveva appena finito di rosicchiare l’ultimo palco, John stava ancora faticosamente aprendosi la strada verso l’addome. Guardò mortificato il suo mentore, prima di sibilare tristemente: - Scusami tanto, papà, ma non ce la faccio più.

-Non preoccuparti, John. Non mi aspettavo che ci riuscissi la prima volta. Domani farai meglio, vedrai.

Suo padre lo aveva preso per mano e lo aveva riaccompagnato a casa, dove una zuppa di bisonte aspettava l’uomo e il bambino che era diventato uomo.

 

Il giorno del suo matrimonio, John era così nervoso che aveva mangiato tre renne intere, senza fermarsi mai. Era una cosa che suo padre gli aveva detto, prima di morire. Quando sarai nervoso, quando sarai davvero molto nervoso, non darti alcun limite. Non contenerti. Non vuoi mangiare renne? Non mangiarle. Vuoi mangiarne sette? Mangia sette renne. Le renne sono energia pulita, fino a che soffia il vento, ce ne saranno. Non aver paura di consumarle tutte. Quel giorno John aveva mangiato tre renne intere, senza fermarsi mai. Non l’aveva mai fatto prima.

Mentre leggeva a sua moglie le promesse matrimoniali, John era tranquillo. In pace. Sulle panche della chiesa, le ombre di tre renne lo osservavano commosse e fiere. È questo che fanno le renne all’animo di un uomo che sa mangiarle.

 

Quando John aveva sei anni e un giorno suo padre lo portò di nuovo in cortile. John era titubante. Non voleva si ripetesse la situazione del giorno prima.

-John – disse l’uomo. - Sento che sei nervoso. Ma, ti ripeto, è normale non riuscire a finire una renna, il primo giorno. – Gli indicò un punto del cortile sul quale giaceva la renna morta che ventiquattro ore prima non era riuscito a finire. La carne era preservata dalla temperatura gelida. – Eccolo lì. Sai cos’è?

-Il cadavere di una renna? – bofonchiò timidamente il bambino.

-No. È la rappresentazione del tuo errore. Ci sono due cose che puoi fare, quando sbagli. Puoi lasciarlo lì, immerso in un gelo che preserverà le sue carni in eterno. Ti guarderà ogni giorno e tu guarderai lui, e ti ricorderai sempre di quella volta in cui hai fallito. Oppure puoi farti forza e finire di mangiare la tua renna, e trasformare il tuo errore in una dimostrazione di ferrea forza di volontà. Cosa scegli?

John scelse la via della volontà, e continuò a mangiare la renna. Questa volta partì dalla schiena. Due ore dopo, davanti a una scodella fumante di zuppa di tigre, suo padre si complimentava con lui, nonostante dalla finestra un cadavere mezzo sbocconcellato continuasse a fissarli.

 

Una volta in cui John era particolarmente giù di morale aveva bevuto così tanta grappa di fenicottero da trovarsi, due giorni dopo, sdraiato nudo in mezzo al deserto della Namibia, con nessun ricordo di cosa fosse successo nel frattempo. Realizzando la situazione John si era affrettato a mangiare un cammello. Era la sua prima volta con un cammello: tutto ciò che riuscì a pensare fu non è la stessa cosa. Non è la stessa cosa. La carne del cammello è stoppacciosa, non sa di niente se non di sabbia. La carne di renna sa di freddo, di lotta, di accoppiamento, di corse tra la neve, di musica. Il cammello sa di deserto. John, in ginocchio tra le dune, nudo, pianse per due ore di fila. Per il cammello, e per l’intera giornata di blackout che si era lasciato alle spalle.

Ancora oggi, a distanza di anni, John non sa se in quel giorno senza memoria ha mangiato una renna. Ogni tanto la sogna di notte.

 

A sei anni e quindici giorni John finì la sua prima renna. Come ti senti?, gli chiese suo padre.

-Strano – rispose il piccolo. – Felice per aver finito la renna. Triste per averci messo due settimane.

-Domani mangerai un’altra renna – lo consolò. – E vedrai che andrà meglio. Hai sbagliato molte cose, in queste due settimane. Devi correggere la tecnica.

-Perché non mi hai detto prima che sbagliavo tecnica?

-Perché fino a ieri non avevi mai mangiato un'intera renna. Oggi sì. Sei una persona diversa rispetto a quella che ha dormito nel tuo letto questa notte. Ora, sei un bambino che ha mangiato una renna intera. In quindici giorni, ma comunque una intera. Una in più di qualsiasi bambino che tu conosca. Fino a ieri dovevo costruire in te lo spirito del caribufago. Ora possiamo iniziare a costruire quella del caribufago di successo.

John non era mai stato così felice in vita sua.

 

La renna più grossa che avesse mai mangiato, era alta dodici metri. Un giorno John aveva aperto la porta di casa sua, era uscito in giardino e si era trovato una renna di dodici metri che lo guardava dall'alto in basso. John aveva respirato profondamente: sapeva che una renna di dodici metri non era una cosa che capitava tutti i giorni. Sapeva che molti dei suoi antenati erano morti senza averne nemmeno mai vista una.

Calma, John, aveva pensato. Puoi farcela, a patto che tu resti calmo.

Renne del genere erano qualcosa che appariva di rado, agli occhi di un caribufago. Come un piccolo regalo di Dio. Lì, in mezzo alla tundra, con una nebbia così fitta da non riuscire a vedere la punta dei suoi palchi, John osservava la renna. In mezzo al freddo gelido. Una renna così alta che si confondeva con il cielo.

John ripensò alle storie che gli aveva raccontato suo padre. Storie che il padre aveva sentito da suo padre, e così via, indietro di otto generazioni. Erano otto generazioni che non si vedeva una renna di dodici metri. Si parlava a tavola, di quel famoso incontro, si raccontava di padre in figlio. Si dicevano tante cose in proposito. Per esempio che le renne di dodici metri sono immortali. Piccoli errori del destino, esseri che vivono fino a che non vengono ammazzati. La vecchiaia non si azzarda nemmeno a toccarli. Si diceva anche che il suo antenato non fosse riuscito a farla fuori. La tecnica di assassinio di una renna, che si tramanda di padre in figlio, non era ancora perfetta, otto generazioni prima. Non che otto generazioni dopo fosse perfetta, si disse John. Ma di sicuro era migliore.

 

-La prima cosa che sbagli – disse il padre al figlio – è la mancanza di ordine in quello che fai. Ti ho osservato, soprattutto il primo giorno, mentre come prima cosa ti dirigi sull'addome della renna. Dov'è un addome?

-Qui – disse il John di sei anni e sedici giorni al padre, indicandosi la pancia.

-Sì. Lì. Al centro del corpo. E da dove si inizia quando si fa qualcosa?

-Dall'inizio.

-Esatto – disse suo padre con un sorriso calmo. - Perché allora hai iniziato dal centro?

John non seppe rispondere. - Per nessun motivo, - rispose l'uomo per lui. Hai mai notato da dove inizio io? Io inizio sempre dalle zampe posteriori. Salgo su, fino al corpo. Poi mangio le zampe anteriori. Poi il corpo, la testa, e infine i palchi.

-Da oggi seguirò quell'ordine, papà.

-Non sei costretto. Sai da dove iniziava mio padre? Dai palchi. Scendeva fino alla testa, poi mangiava tutto il corpo. Alla fine rimanevano solo le zampe, ancora in piedi. “Le zampe sono la parte migliore”, mi diceva sempre, mentre le mangiava. Ma io preferivo i palchi. Non devi seguire il mio esempio, quando mangi le renne. Ma devi darti delle regole. Sono solamente due le cose che devi fare come faccio io: devi iniziare le renne dall'inizio, a patto che tu decida quale sia il loro inizio; e devi ammazzare le renne come le ammazzo io, perché è il modo più sicuro per te e meno doloroso per loro. Tutto chiaro?

-Tutto chiaro – aveva risposto il piccolo John.

 

John aveva impiegato otto giorni per mangiare la sua seconda renna. Iniziò dalle zampe posteriori, ma non gli piacque.

L'ottavo giorno si confrontò di nuovo con suo padre.

-Non mi piace iniziare dalle zampe dietro, papà.

-Prova a iniziare da quelle davanti, allora.

Dopo tre giorni ne parlarono di nuovo

-Non mi piace iniziare nemmeno da quelle anteriori. Domani proverò coi palchi.

Il giorno successivo John iniziò a mangiare la renna partendo dai palchi. Ma erano magri e ossuti, così come le zampe. Il bambino iniziò a mangiare i palchi della renna, e dopo due ore gli rimanevano solo le zampe posteriori. Ma non ce la faceva più. Il secondo giorno mangiò anche quelle.

Poco dopo, davanti a una frittata di kookaburra, il padre di John chiese al figlio: - Allora, cosa preferisci? Palchi o zampe?

-Nessuno dei due. Io voglio iniziare dal centro.

-Non se ne parla, John. Non si inizia dal centro, o ti troverai con una renna spezzata a metà.

-Non è così, papà. Ti farò vedere domani.

 

John iniziò ad arrampicarsi, con calma, sulle zampe della renna alta dodici metri. Ovviamente quello che non è un metodo rischioso su una renna normale, lo diventa con la madre di tutte le renne.

Il gigante rimase impassibile davanti agli sforzi dell'uomo, che si faceva strada sulla sua pelliccia spessa e unta. Ci volle un'ora solamente per raggiungere le spalle, a quell'altezza, con quel freddo. Dalla finestra di casa sua moglie lo osservava, preoccupata. Non poteva vederlo, ma sapeva per certo che suo marito si stava arrampicando fino in cima a quel caribù colossale con l'intenzione di mangiarlo. John era così: una renna del genere poteva fare paura a chiunque, ma lui ci vedeva solo opportunità.

 

Il giorno dopo il piccolo John si era fatto uccidere una renna da suo padre, che gliel'aveva adagiata tra le gambe.

-Mostrami come hai intenzione di partire dal centro, - aveva detto l'uomo. Ma bisogna immaginarlo detto con curiosità, non con capriccio. Non con senso di superiorità.

John con calma aveva addentato l'addome, e aveva iniziato a strappare la carne. Ma a dirla tutta quella che sembrava calma era precisione. In poco meno di due ore John aveva mangiato tutta la sua renna, senza che si spezzasse mai a metà. Seguendo un disegno preciso e pulito. Il padre non aveva ancora iniziato a mangiare la sua renna, non era riuscito a staccare gli occhi, ammirato da quella tecnica così semplice ed efficace.

-Le zampe e i palchi sono duri, preferisco mangiarli per ultimi – aveva detto il bambino, come per giustificarsi.

In quel momento l'uomo realizzò che suo figlio aveva un talento speciale per la caribùfagia.

-Non ho mai visto nessuno mangiare una renna a quel modo - gli disse quando riuscì a spiccicare di nuovo parola.

-Scusa, papà - aveva risposto il bambino.

-No, no, non è questo quel che intendevo. Voglio dire, hai inventato un nuovo modo di mangiare renne. Questa è la quinta che mangi, piccolo, e hai già inventato il tuo metodo. Non solo è ottimo, ti posso dire con certezza che è anche migliore del mio. Non so quanto potrei metterci a imparare a mangiare una renna da centro senza spargerla ovunque. E poi ci hai messo davvero poco. Ora torna a casa, piccolo. Domani ti mostrerò come uccidere la tua renna.

 

John era così in alto da non riuscire più a vedere terra. Il vento soffiava gelido sul suo collo, rosicchiandogli la nuca, urlandogli nelle orecchie. Ma lui non si arrendeva. Era quasi l’ora di pranzo quando finalmente raggiunse le orecchie del caribù. Sua moglie era rimasta tutto il tempo a osservare la renna, sapendo che dall’altra parte, nel lato a lei oscuro, suo marito si arrampicava. Sul fuoco lo stufato di iena era completamente asciutto. Un leggero odore di bruciato iniziava a diffondersi per la cucina, ma la sua mente era altrove.

 

Il piccolo John quella notte non riuscì a prendere sonno, riuscendo a pensare soltanto al fatto che il giorno dopo avrebbe finalmente ucciso la sua prima renna. La mattina scese esausto dal letto, e nel momento in cui vide suo padre uscire dal bagno, osservando le sue occhiaie viola e sporgenti, capì che lo stesso era stato per l’uomo.

-Non hai dormito, papà?

-No piccolo. Oggi è un grande giorno per entrambi - rispose lui, con un sorriso stanco e affabile.

Uscirono in giardino nell’aria fredda e gelida, nel momento in cui sua madre si svegliava, pronta ad andare a comprare carote e patate al mercato.

-Allora, piccolo, ti senti pronto?

-Sì, papà. Non vedo l’ora.

-Purtroppo è un errore comune. Devi capire che non siamo mai pronti ad uccidere una renna. Nessuno lo è. Bisogna entrare nello stato d’animo in cui stiamo per togliere una vita, e ciò è sempre triste. Tra pochi minuti ci sarà un respiro in meno nel mondo. Un cuore in meno che batte. Sei pronto?

-No, papà.

-Bene.

 

Con la mano congelata John iniziò a spostare la peluria dalla testa della renna, per farsi sentire bene. Ma tutto quel pelo continuava a cadere giù, così se lo poggiò sopra le spalle.

-Ciao. Mi chiamo John.

 

-La prima cosa da fare - disse il padre - è presentarsi. - Così, come mi vedi fare sempre.

L’uomo si piegò verso l’orecchio della renna, spostò la peluria, per farsi sentire, e poi sussurrò: - Ciao. Il mio nome è Jonathan.

La renna annuì piano, docilmente.

-Ora fallo anche tu, piccolo. Scegli la tua renna.

Il piccolo John si avvicinò a una renna che gli sembrava adatta, un bestiola piccola, e in punta di piedi, tremante, dopo aver spostato il pelo, disse:- Ciao. Mi chiamo John.

E anche quella renna annuì, docilmente. Sapeva che era giunto il momento e lo aveva accettato.

-Ora stringila forte, e respira piano sul suo collo. Lascia che si abitui all’odore del tuo alito, e che i battiti del vostro cuore si sintonizzino.

 

John si tenne stretto, a fatica, contro il collo della renna gigantesca. Proiettò il suo minuscolo e impercettibile respiro sulla sua carne, mentre la renna, piano piano, faceva sì con la testa. L’uomo poteva sentire il sordo battito del cuore dell’animale sul suo petto, rimbombante come un tamburo divino. Al confronto i suoi battiti erano come piccoli spilli che cadevano sul pavimento. Piano piano la renna accettò il ritmo dell’uomo, mentre l’uomo accettava il ritmo della renna. I loro battiti iniziavano, lentamente, a sintonizzarsi. Ci volle un’ora prima che trovassero la sincronia completa.

-Grazie - disse la renna.

 

-E ora? - chiese il piccolo John.

-Ora aspettiamo. Quando senti i battiti del tuo cuore diventare complementari con quelli della renna, quando non potrai più discernere la differenza, aspetta.

-Quanto?

-Quanto tempo serve all’animale. Né più né meno. Attendi che la renna ti accetti come nuova parte di sé, attendi che capisca di essere diventato il tuo animale. È come quando vai al canile e prendi il cane che sembra desiderarti di più, ed esci con la consapevolezza di aver scelto il cane che ha scelto te. Di esservi voluti a vicenda. A quel punto, quando la renna ti avrà scelto, aspetta che ti ringrazi. Sono i suoi ultimi momenti di vita, lascia che li viva al massimo. Lascia che rifletta attentamente su quello che sta per succederle, deve accettarlo attivamente, non passivamente.

John annuì e rimase in quella posizione fino al momento in cui la renna non lo ringraziò.

-L’ha fatto, papà. Mi ha ringraziato.

-Sei sicuro? - chiese l’uomo, con gli occhi spalancati.

-Sì.

-Sei straordinario, John. Non ho mai visto una renna accettare qualcuno così in fretta.

-E ora?

-E ora ringraziala anche tu.

-Per cosa?

-Per tutto. Per quello che senti necessario ringraziarla. Per quello che le devi.

 

-Grazie a te - rispose John, con la voce che si perdeva nel vento. - Grazie per tutto quello che hai fatto. E per quello che avresti potuto fare, ma che non farai mai a causa mia. E per quello che non hai mai fatto, ma avresti voluto fare. Grazie per essere venuta, oggi, nel mio giardino. Sapendo quello che sarebbe successo. Grazie per aver capito che avevo bisogno di te, qui, oggi. Se io fossi nato renna, avremmo potuto essere amici, oppure nemici. Avrei potuto essere parte del tuo branco. Avrei potuto cercare di morire al posto tuo, per salvarti la vita. Oppure avrei potuto guardarti da lontano, con orrore, sperando lo stesso non capitasse mai a me. Grazie, per avermi fatto desiderare di essere una renna.

Con infinita calma la renna si depose in terra come fosse un fiocco di neve.

 

Con infinita calma la renna si depose in terra come fosse un fiocco di neve. John la guardò, e si aspettava, il giorno prima, che in quel momento sarebbe stato felice. Invece un’infinitamente dolce malinconia si arrampicò nel suo cuore, e a lui venne naturale baciare il muso dell’animale, prima di iniziare a mangiarla. A distanza di anni continuava a ricordare quella renna come la più deliziosa della sua vita.

 

Sua moglie spalancò la porta di casa, osservando la renna morta.

-John! - urlò, per farsi sentire attraverso il vento e la neve. - Pensi che riuscirai a mangiarla tutta?

-Non lo so - rispose lui. - Devo seguire il mio ritmo, devo mangiare esattamente quanto voglio mangiare.

La moglie sorrise e rientrò in casa, dove cercò di salvare lo stufato.

John si incamminò verso il centro della renna, e diede un possente morso all’addome dell’animale. Aveva lo stesso sapore della prima che avesse mai ucciso.

 

Quando entrambi finirono di mangiare il padre di John lo prese per mano e lo accompagnò dentro casa.

-Oggi cosa mangeremo, papà?

-Non sono più tuo padre, - rispose lui con profonda dolcezza. - Non ho più bisogno di insegnarti niente. Da domani potrai mangiare da solo le tue renne, piccolo.

John sedette al tavolo della cucina, mentre suo padre si diresse verso il bagno e aprì l’acqua calda. Versò nella vasca le patate e le carote che aveva comperato quella mattina sua moglie, si immerse nel liquido e accese il fuoco sotto di sè. Quindi si mise comodo, sorridendo.

 

Il giorno che John ebbe un figlio lo chiamò Jo. Sua moglie partorì in casa, come aveva fatto la madre di John, quella di Jonathan, e tutte le donne della sua famiglia prima di lei.

John non era mai stato così nervoso in vita sua, non aveva mai avuto un figlio. La sua vita era sempre stata suddivisa tra il lavoro e la caribùfagia, e tutto ciò era completamente nuovo. Comprendeva che da quel giorno in poi avrebbe avuto molto meno tempo per lavorare e per mangiare, avrebbe dovuto badare al piccolo Jo per i prossimi sei anni, e poi avrebbe dovuto insegnargli a mangiare renne, a ucciderle, ad amarle. Aveva paura e non si sentiva pronto, ma non era mai stato così felice in vita sua.

Col passare degli anni John capiva che, se da piccolo era stato un prodigio, Jo lo era anche di più. A tre anni iniziò a mangiare i primi avanzi di renna del padre, i quali venivano divorati con una precisione che aveva un qualcosa di divino. Mentre John osservava suo figlio mangiare si ricordò dello stesso sguardo ipnotizzato che aveva avuto suo padre anni prima.

 

Ogni tanto, la mattina John usciva di casa e vedeva il suo cortile straripante di renne. Ogni tanto apriva la porta di casa e ne trovava non più di una decina. Le renna erano così, sparivano e apparivano durante la notte. Un antenato di John, gli era stato raccontato, aveva provato a studiare i movimenti delle renne, nel tentativo di trovare uno schema. Da qualche parte in casa c’era anche un saggio scritto. Ma John aveva provato a sfogliarlo una sola volta, in vita sua, prima di rendersi conto dell’impossibilità di capire davvero come pensavano le renne. Come si muovevano, come vivevano. II libro era soltanto una serie di teorie, alcune cancellate dallo stesso scrittore, quando aveva capito la loro fallacia. Altre erano state date per buone fino alla sua morte, ma poi si erano rivelate sbagliate nel corso delle generazioni.

Le renne, John lo sapeva, non puoi capirle. Puoi solo accettarle.

Così, quando una mattina, uscendo in cortile con Jo, non aveva trovato nemmeno una renna, non si era preoccupato più di tanto.

-Cosa succede, papà? - aveva chiesto il bambino.

-Niente, piccolo. Oggi non ci sono renne. Le mangeremo domani.

I due erano rientrati in casa, dove la moglie di John li aveva accolti con uno sformato di testuggine del Cile.

Il giorno dopo, però, l’evento si era ripetuto. Nemmeno una renna era davanti al portico. John, a quel punto, si era fatto pensieroso. L’evento si ripetè per più di una settimana. Nemmeno una renna.

L’uomo iniziava a preoccuparsi. Da un lato temeva l’idea di un mondo in cui non avrebbe mai potuto insegnare a suo figlio come si mangia una renna. Dall’altro, iniziava a sentire la bocca asciutta, il desiderio di carne di caribù si faceva prepotentemente strada tra le sue fauci.

Il piccolo Jo non avrà mai occasione di mangiare una renna intera tutta per sé, si disse. Il piccolo Jo non potrà mai ucciderne una per comprenderne il peso, e non potrà mai insegnare a suo figlio come mangiarle.

Dopo circa dieci giorni finalmente una renna si presentò. Era da sola, e John capì che non poteva perdere quell’occasione.

-Oggi imparerai a uccidere una renna, che ne dici? - chiese a suo figlio. Il piccolo aveva poco più di quattro anni, e fece sì con la testa.

Oggi è il giorno in cui imparo ad insegnare, si disse l’uomo teso.

 

Spiegare non è facile, quando non hai modo di mostrare nulla. Quando hai un solo tentativo a disposizione. Così fece fare tutto al piccolo, e gli disse passo passo quello che doveva fare. Fu una scena sgradevole. Le mani piccole di Jo non riuscirono a spostare bene il pelo dall’orecchio, così l’animale capì male il nome. I battiti del cuore, poi, parevano non sincronizzarsi mai. Alla fine la renna morì tra atroci dolori e la sua carne si fece stoppacciosa e insapore.

Jo non gradì, e si diede la colpa. Impiegò più di un mese a mangiarla tutta, sotto gli occhi del padre, che con la bava alla bocca si sforzava di non chiederne nemmeno un boccone. E poi anche quella renna solitaria finì.

-E adesso’ - chiese il piccolo Jo.

-E adesso aspettiamo. - rispose il padre, osservando il cielo senza vento.

   
 
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