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Autore: The Custodian ofthe Doors    19/01/2018    4 recensioni
[Missing moment di “Una pista che scotta”]
Izzy, Clary e Simon sono in camera con Magnus quando il dottore gli dice che potrebbe tornare a casa tra due settimane.
Sono con lui anche quando un pianto dirotto arriva dritto dal corridoio, lasciando che il rammarico si apra a chiazza d'olio tra di loro: sicuramente un paziente non ce l'ha fatta ed un suo parente ora piange tutte le lacrime che quel dolore gli provoca.
Non c'è neanche il tempo per dirsi a vicenda che forse, chiunque fosse, ora non soffriva più ed era in un posto migliore, prima che Isabelle volti la testa verso la porta e scappi via terrorizzata.
Lei, quella voce, la conosce fin troppo bene.
Genere: Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Alec Lightwood, Clarissa, Izzy Lightwood, Magnus Bane, Simon Lewis
Note: AU, Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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Le lacrime dei cavalieri.








 

Avere quei tre nella sua camera d'ospedale era tanto bello quanto faticoso e fastidioso. Sembrava che alla presenza di Izzy e Clary la parlantina di Simon evolvesse a livelli inimmaginabili, supportata per altro da quelle due chiacchierone delle ragazze.
Altro che piccola bambolina rossa e lentigginosa! Clary era una belva travestita da cappuccetto rosso, non si sarebbe stupito a scoprire che Garroway le aveva insegnato ad uccidere con un pennello ed una tavolozza.
E non si sarebbe stupito neanche a scoprire che Isabelle di morti sulla coscienza ne aveva un bel po'. Tipo tutte le commesse dei negozi in cui andava a comprare, tutte le ragazze che le morivano dietro d'invidia e tutti i ragazzi che le morivano dietro e basta.
Stavano chiacchierando di tutto e niente, così tanti argomenti raggiunti con salti incomprensibili, così tante ipotesi e storie vagliate tutte assieme che Magnus si sentiva quasi a casa.
Allora non era l'unico a far discorsi sconclusionati e saltare di palo in frasca!
La cosa gli lasciava una strana soddisfazione addosso. Soddisfazione che aumentava se sommata alla magnifica notizia che il medico gli aveva dato solo pochi minuti prima: due settimane, se avesse continuato a rigar dritto, a prendere i suoi medicinali, a far riabilitazione e mangiare sano – quindi niente alcol- sarebbe tornato a casa.
 

Dio grazie, ora so che esisti!

 

Era partito da quello e ora stavano discutendo su quale fosse il miglio mezzo per riaccompagnarlo a casa, perché ovviamente lo avrebbero fatto loro, Simon non avrebbe accettato un no come risposta.
<< Già Raphael mi aveva detto che mi avrebbe riportato alla base quando sarebbe stato il momento.>> lo informa gentilmente, felice come non lo era da settimane.
Simon scosse la testa. << Non vedo dove sia il problema! Tanto non potrai sederti sul sedile del passeggero, dovrai per forza stare sdraiato sui posteriori, quindi c'è posto sia per me che guido che per lui che ti accompagna!>> sorrise raggiante, felice della sua soluzione.
Le ragazze ridacchiano e annuiscono con vigore, vide Clary aprir la bocca per dire qualcosa ma un suono raccapricciante la bloccò, bloccò tutti loro, costringendoli a trattenere il fiato e tacere.
Dal corridoio arrivò un lamento, il preludio di una serie di singulti così potenti da rimbombare per tutta la corsia e per tutto il piano. Probabilmente persino dalla tromba delle scale si sentiva quel suono agghiacciante, il pianto disperato di qualcuno che non voleva accettare la verità.
Era morto, sicuramente qualcuno era appena morto. Tra quelle camere troppi lottavano ogni giorno per restare a questo mondo, troppi lottavano tra vita e morte e troppi, davvero troppi, non ce la facevano.
Simon chiuse gli occhi incapace di sopportare quel pianto, come se privarsi della vista lo avrebbe anche privato del suono, del senso di inquietudine che si era impossessato del suo petto e che lo faceva tremare dentro.
Clary aveva abbassato il capo, lo sguardo triste di chi si dispiace per qualcuno che non conosceva ma che, ne era sicura, non sarebbe dovuto morire.
Magnus invece strinse solo le labbra, la morte lo aveva salutato da lontano per tutta la vita e di recente era anche arrivata più vicina, per dagli una stretta di mano e poi allontanarsi di nuovo. Non era strano per lui che qualcuno morisse, ne aveva visti a decine dei tirapiedi di suo padre finire sotto terra, ultimamente ne aveva visto da vicino uno, di bastardo, morire anche fin troppo velocemente per i suoi gusti. Valentine Morgenstern sarebbe dovuto perire lentamente, soffrendo le pene dell'inferno in cui lui stesso si era andato ad infilare.
Sapeva che per quei momenti di parole non ce ne erano, che tutte erano le une uguali alle altre e che la maggior parte delle volte si poteva dire solo che adesso il morto non soffriva più, che era finalmente in pace.
Si voltò verso Isabelle per chiederle un muto supporto, lei era un medico legale, per quanto Magnus ancora non avesse capito perché lo era diventata, ma di certo era più avvezza di lui a trattare con morti di ogni tipo e famigliari addolorati, sicuramente sapeva cosa dire ai suoi amici per tranquillizzarli. Eppure quando gli occhi felini dell'uomo incontrarono la figura della mora un brivido freddo gli colò dalla gola sino allo stomaco.
Isabelle se ne stava immobile, tesa verso la porta, il volto una maschera funerea bianca come lo era il gesso. Ogni traccia di colore presente sul suo viso era come scomparsa, persino il trucco sembrava sbiadito come le fotografie più vecchie. Era un fascio di nervi con lo sguardo perso e le orecchie spalancate, che recepiva ogni minima vibrazione e fremito in quella voce, superando il rumore dei passi dei medici e degli infermieri che correvano verso la stanza incriminata.
Provò ad alzare una mano per posarla sua quella della giovane, senza sapere cosa le avrebbe detto una volta attirata la sua attenzione perché l'unica parole che rimbombava nella sua testa era un debole e flebile “no”.
Ma appena l'ebbe sfiorata Izzy saltò via come una molla, correndo su quei tacchi vertiginosi fuori dalla porta e via dalla loro vista.
Non gli servì che una frazione di secondo per far forza sulle braccia e sposare la gamba oltre il bordo del letto.
<< Simon, prendimi la sedia a rotelle, muoviti.>> disse freddo e conciso.
Il ragazzo si era congelato come una statua, lo fissava con gli occhi castani ristretti dal terrore.
<< Che cosa- >>
<< Muoviti!>> ripeté Magnus con più foga e allora l'altro si mosse, cadendo quasi dal letto e sbrigandosi a recuperare la carrozzina mentre Clary, ripresasi anche lei, correva a slegare le flebo dal trespolo e lo aiutava ad alzarsi.
<< Pensi… ?>> disse con voce flebile lei.
Magnus scosse la testa: no, non voleva assolutamente pensare.

 

Isabelle corse fuori dalla stanza d'ospedale con il cuore in gola. La voce piangente di quella persona -di quel ragazzo- lei la conosceva fin troppo bene e non voleva, non voleva davvero credere a ciò che la sua mente le suggeriva. Era la soluzione più logica ma non doveva essere quella giusta. Poteva sbagliarsi, no? Sicuramente si stava sbagliano, se così non fosse lei l'avrebbe capito, se lo sarebbe sentito dentro, al centro del petto.
Entrò nella camera senza neanche prestar attenzione al personale che aveva cercato di fermarla, inchiodandosi subito dopo davanti a quello scenario terribile.
Avanzò con passo lento, come se fosse improvvisamente sprofondata nel fango, come se di punto in bianco tutta la sicurezza che l'esperienza le aveva fatto guadagnare sui tacchi fosse svanita e anche solo mettere un piede davanti all'altro le costasse fatica, attenzione, concentrazione ed equilibrio.
Barcollò sulle caviglie fini e deboli, sentiva la suola scivolare sulla superficie liscia del linoleum del pavimento e fu costretta ad allargare le braccia per non cadere.
Si fermò solo una volta arrivata vicino a suo padre, bloccato sulla poltrona ed esanime come se stesse per svenire.
I singhiozzi di Jace le trapassarono la mente come una pugnalata, i suoi occhi grigi non riuscirono a scostarsi dalla schiena del fratello che fremeva ad ogni colpo, mentre chiamava Alec tra un singulto e l'altro, stringendo il suo corpo come se ne andasse della sua stessa vita.
Mosse piano la mano sino a trovare la spalla del padre, trovandovi un appoggio solido in quel mare mosso che era la sua anima in quel momento, straziata dalla burrasca che si era scatenata dopo troppi giorni di calma.
Izzy continuò a fissare quella macchia sfocata, informe e liquida che erano diventati i suoi fratelli, appena conscia del gruppo di spettatori che si era radunato attorno alla porta, delle lacrime che prepotenti scendevano sul suo volto e le lasciavano rigagnoli neri sulle guance, senza rendersi conto di nulla, nulla che non fosse il corpo di Alec ed il suono continuo che lanciavano i macchinari a cui era collegato.

 

Magnus strinse forte le mani sui braccioli della sedia a rotelle, Simon dietro di lui lo spingeva facendo forza sulle gambe tremanti, come se fosse diviso tra il voler arrivare il più in fretta possibile alla loro meta ed il non volercisi neanche avvicinare.
Clary, al loro fianco, aumentò il passo, costringendo in parte l'amico ad accelerare per starle dietro e chiedendo gentilmente, seppur con voce malferma, agli infermieri di spostarsi, mentre si avvicinavano all'entrata della sua camera.

L'ambiente sembrava improvvisamente svuotato da ogni cosa, dalla luce ai colori, persino i suoni per quanto insistenti e acuti non riuscivano a riempire la stanza.
Magnus chiuse gli occhi, non voleva vedere, non ce la poteva fare. Sentì le mani tremare come tutto il suo corpo. Devastanti singulti squarciavano la calma densa e soffocante di quelle quattro mura, ogni singhiozzo di Jace sembrava il colpo di un proiettile ed in un secondo Magnus si ritrovò seduto dietro al suo divano, il suo corpo privo di forza ma ancora abbastanza sveglio per sentire la voce di Jonathan chiamare Alec e dirgli di restare sveglio, di tenere gli occhi aperti. Ricordava come ogni parole sembrasse saltar fuori da quelle labbra fini e pallide come un prigioniero era costretto a saltare giù dalla passerella di una nave.
Era una condanna, ogni sillaba lo era eppure Jonathan non se ne accorgeva. Macchie rosse sfumavano la pelle bianca dell'agente della OCCB che premeva le mani sul torace altrettanto bianco del detective. Se si concentrava poteva rammentare come i suoi incitamenti, le sue preghiere, rimbalzassero sulle pareti di casa sua. Non pensava che avrebbe mai sentito Jonathan Morgenstern implorare qualcuno di fare qualcosa, di non morire.

 

<< Rimani con noi, Alec- tu, non farlo! Tieni gli occhi aperti, tienili aperti cazzo! Guardami! Rimani con me, rimani qui! Non ci provare, Alexan- Alec! Respira! Ti prego, ti prego, respira, non morire. Non morire...>>

 

Isabelle si portò una mano al cuore, sul letto d'ospedale Jace copriva completamente la figura del fratello e lei avrebbe voluto dirgli di alzarsi di lì, di dargli spazio, che così lo avrebbe soffocato.

Le tremarono le labbra, i denti serrati neanche cozzavano gli uni contro gli altri tanto era ferrea la morsa che i muscoli gli imponevano.
Si ricordò di tutte le volte che Jace saltava in braccio ad Alec, di tutte le volte che il maggiore lo prendeva senza sforzo e senza sorpresa, lo reggeva saldo e lo stringeva a sé, immune all'abbraccio soffocante del biondo, divertito dagli ammonimenti suoi e di Max che ripetevano a Jace che così lo avrebbe soffocato. Che gli mancava l'aria proprio come in quel momento mancava a lei.
Avrebbe voluto scappare, andarsene da quella stanza e non far vedere in quali pietose condizioni fosse, come tutto ciò si stesse abbattendo su di lei con troppa forza. Come quella scena gliene ricordasse mille e più passate, il suono lontano della voce dolce di Alec che chiamava Jace il suo orso polare.
Chiuse la mano sul suo stesso petto, graffiandosi la pelle esposta al collo della maglia e stringendo la stoffa delicata di quella.
Non doveva fare così, doveva essere forte, lei la morte la vedeva tutti i giorni, ci conviveva, ci viveva. Aveva scelto di fare il patologo forense proprio per rendere un ultimo servizio a tutti coloro che lasciavano questo mondo, per accompagnarli nel loro riposo eterno e dargli la giustizia e l'onore che si meritavano. Izzy era abituata a cose ben peggiori, a incidenti, ad omicidi, non poteva piangere per quello.

 

O forse era proprio il momento giusto per farlo finalmente.

 

Un tremolio costrinse Magnus ad apre gli occhi, più per riflesso incondizionato che per altro, eppure nulla davanti a lui era cambiato. Ma alle sue spalle Simon aveva barcollato da fermo, un vuoto gli si era aperto al centro del petto e solo un silenzio pesto gli aveva invaso la mente, allontanandolo dal pianto di Jace che gli ricordava troppo il suo e quello di sua sorella. E non voleva proprio pensare a suo padre, non in quel momento e in quel modo perché non avrebbe fatto altro che alimentare il dolore che lo stava infettando come un dannato virus.
Sentì le ginocchia farsi deboli e le fletté per andare incontro al pavimento.
Non doveva farsi vedere debole davanti ad Isabelle e suo padre, non aveva il diritto di farlo, di farsi vedere ferito, in quel momento solo loro potevano, lui, Clary e Magnus avrebbero dovuto dar loro conforto non… non-
Si inginocchiò a terra, dietro la sedia a rotelle di Magnus, senza riuscire a lasciare le maniglie che gli fornivano un minimo di sostegno.
Aveva bisogno di un momento, un istante per riprendere le forze e cercare d'indossare una maschera bella spessa che non facesse vedere al mondo quanto stesse soffrendo, quanto gli facesse male pensare di aver perso un altro membro della sua famiglia.
Perché era così, volente o dolente Alec e tutti i Lightwood erano diventati parte della sua famiglia, quella stessa famiglia che si era crepata per- per cosa? Perché suo padre si era fidato di un suo amico. Di Hodge, si era fidato di Hodge che per una vita lo aveva guardato in faccia e gli aveva detto quanto somigliasse a suo padre e quanto l'uomo sarebbe stato fiero di lui.
No, aveva appena scoperto com'era morto lui, aveva dovuto riaffrontare tutto da capo, persino la riesumazione del corpo e ora non poteva perdere Alec.
Si rese conto con un certo sconcerto che avrebbe voluto il detective vicino a sé quando la Herondale aveva richiesto la riapertura del caso con tutto ciò che ne era derivato. Si rese conto che quel pomeriggio, al cimitero, anche con le mani di Clary e di sua sorella strette nella sua, anche se con la mano di Luke poggiata sulla sua spalla, con la vicinanza di Jace che lo gli lanciava occhiate cupe e preoccupate, avrebbe tanto voluto vedere, dall'altra parte della fossa smossa, gli occhi blu e seri di Alexander, il suo volto impassibile e risoluto. Avrebbe voluto che il suo amico gli dicesse che avrebbero fatto il più in fretta possibile, che era necessario ma che poi, finalmente, suo padre avrebbe potuto riposare davvero in pace.
E invece Alec era addormentato su uno stupido letto d'ospedale, collegato a mille macchine ed impegnato a lottare anche per una cosa ovvia come la vita.
Non sapeva se si fosse sentito più tradito dalla mancanza del moro o arrabbiato con sé stesso per quel suo pensiero. Lo sapeva che se fosse stato sveglio Alec si sarebbe stato con lui, anche a costo di trascinarsi da solo sino al cimitero ebraico. Lo sapeva e questo gli faceva ancora più male.
Sapeva che Alec avrebbe fatto di tutto per lui -per loro- perché ormai era parte della sua famiglia, che lo vegliava e proteggeva come faceva con i suoi veri fratelli. E non voleva, non voleva proprio perderlo un fratello.
Chiuse gli occhi e abbassò la testa. Non voleva proprio.

Non vide Clary indietreggiare sino a poggiarsi con la schiena contro la parete e premersi a forza le mani sulla bocca per non piangere come stava facendo il suo ragazzo, per non lasciar sfuggire singhiozzi potenti come quelli del biondo. Non avrebbe mai potuto eguagliare lo strazio che suscitava quel suono e non avrebbe neanche voluto mai riuscirci.
Per un attimo folle si chiese cosa sarebbe successo se al posto di Alec ci fosse stato Jonathan e si rese conto che erano entrambi terribilmente importati per lei, che la differenza sarebbe stata poca e sarebbe stata tutta nel sangue e nella vita che lei e suo fratello aveva condiviso sin dalla loro nascita. Alec non poteva morire, non così, non perché suo padre gli aveva sparato.
Jonathan glielo aveva spiegato per bene, le aveva raccontato per filo e per segno quello che era successo e le aveva fatto una delle rivelazioni forse più sconvolgenti che avrebbe potuto farle. Le aveva raccontato di come il suo colpo non sarebbe stato mortale per loro padre, che lo avrebbe messo fuori combattimento ma non lo avrebbe ucciso, no, però avrebbe perso tanto, troppo sangue per sopravvivere, a meno che qualcuno non gli avesse prestato immediato soccorso tamponando la ferita.
Clary lo aveva capito con la lentezza con cui si comprende un passaggio difficile e con la velocità con cui arriva un colpo di genio. Era rimasta ferma, inorridita quasi, quando si era resa conto che Alexander si era sporcato le mani di sangue, si era messo una vita -seppur quella sporca e deplorevole di Valentine- sulla coscienza per impedire a Jonathan di averne a sua volta.
Cosa avrebbe scelto suo fratello? Avrebbe aiutato il padre o il collega innocente e nel giusto? Clary non lo sapeva e non lo aveva chiesto, ma in ogni caso, una morte, Jonathan se la sarebbe dovuto portare con sé nella tomba: che fosse quella giusta di suo padre o quella ingiusta di Alec.
Il ragazzo aveva scelto per lui. Aveva capito e si era immolato, come Alec faceva sempre, pronto a pagare tutte le conseguenze del caso, a svegliarsi nel cuore della notte al ricordo di quel proiettile dritto nella testa fantasma di Valentine o ad inginocchiarsi davanti a Dio o a chi per lui per essere giudicato tanto come uomo di giustizia quanto come assassino.
Alec non poteva morire, non se lo meritava.
Clary voltò la testa per non vedere Jace, quasi tentasse di scappare da quel suono. Alec non poteva morire, Clary doveva prima ringraziarlo e chiedergli scusa: ringraziarlo per tutto, per tutte le cose che aveva sempre fatto per lei, per aver salvato suo fratello da dei demoni che lo avrebbero perseguitato per sempre e scusarsi per il demone che invece aveva incontrato lui, per quell'uomo a cui doveva i natali ma null'altro. Chiedergli scusa per averlo costretto a rischiare la vita, chiedergli scusa per tutto, anche per ciò che non sapeva di avergli fatto. E ringraziarlo ancora, altre mille e mille volte solo per esserci, per il bene che voleva a lei, a Simon, ai suoi fratelli, per il bene che voleva a Jace e per il modo in cui al biondo si illuminava lo sguardo o scappava un sorriso ogni volta che lo vedeva. Per esserci, solo per esserci e per essere vivo.

Non osò guardare Isabelle o Robert e con un brivido gelido si rese conto di non voler guardare neanche Magnus.
Magnus che era rimasto impalato nella sua posizione, aprendo semplicemente gli occhi e fissandoli sulla schiena tremante di Jace.
Vuoto, quello che avvertiva era un vuoto che non avrebbe voluto conoscere, un vuoto che non avrebbe voluto ricordare e che aveva invece provato da poco tempo, da troppo poco tempo per poterlo sopportare di nuovo.
Non era il Circolo di Asmodeus ad essere maledetto, era il suo sangue e lui ne era derivazione.
Magnus strinse e aprì le mani, avvertendo ad intermittenza il sangue pompare veloce nelle sue vene, intento in una corsa senza fine tra i reticoli labirintici del suo corpo.
Un colpo. Due colpi.
Il suo cuore era un maglio che si abbatteva sulla grancassa del suo torace, era un dolore sordo come il vuoto che lo avvolgeva e lo riempiva.
Perché? Perché dovevano capitare tutte a lui? Prima Ragnor e poi Alexander… non ce la poteva fare, non poteva perdere due persone così importanti in così poc-
Oh, da quanto tempo Alexander era arrivato allo stesso livello di Ragnor? Da quanto tempo il suo cervello aveva accettato l'idea che quel ragazzo fosse diventato un pilastro fondamentale della sua vita senza dar però a lui la diretta notifica?
Aveva ragione Catarina, aveva sempre ragione lei: aveva visto un bel cavaliere e aveva deciso di voler affrontare quella battaglia cavalcando al suo fianco. Ed era caduto, Dio santo quante volte era caduto. Anche se quella non era proprio la metafora per cui Catarina aveva usato quell'immagine figurata, Magnus pensava che calzasse a pennello. Solo che fino a quel momento non se ne era curato, sino ad allora il suo bel cavaliere si era fermato ogni volta e lo aveva aiutato a risalire a cavallo. Prima dandogli la sua fiducia, poi chiedendogli aiuto per il caso. Gli aveva teso una mano quando era caduto alle porte della dimora del suo amico perduto, lo aveva fatto dicendogli che Ragnor aveva pensato a lui e che- Dio, a cosa aveva pensato Alec invece? Era stato così egoista da chiedergli di pensare a lui, ma Magnus si era anche già preso un proiettile e sapeva perfettamente come in quel momento si pensi a mille cose diverse e mai ad una di senso logico.
Come avrebbe voluto dire che quando quel cecchino gli aveva sparato si era visto scorrere davanti agli occhi tutta la sua vita, che era apparso un tunnel la cui fine non era altro che un'enorme macchia di luce e che lì lo attendevano le persone che più aveva amato ma che aveva perso, primo davanti a tutti ed ultimo per arrivo Ragnor che lo rimproverava di non far mai come la gente gli consigliava. E invece no, i suoi pensieri erano stati sul fatto che tutti quei graffi lasciatigli dai frammenti di vetro averebbero impiegato un bel po' per cicatrizzarsi e che avrebbero tirato da morire, come spilli impuntati sulla pelle. Aveva pensato che non aveva rimesso da mangiare a Presidente Miao, si era chiesto se Simon si ricordasse dove teneva i croccantini.
Questi erano stati i suoi pensieri. E quelli di Alec?
Cosa aveva pensato il bel cavaliere? Cosa aveva detto? Oh, perché Magnus se lo ricordava un gorgoglio lontano, ma non aveva la più pallida idea se fossero state parole o solo il sangue che fuoriusciva a forza dalle labbra scarlatte del moro.
Non gli aveva detto nulla, non si erano più parlati. Le ultime parole che gli aveva rivolto non erano state altro che una stupida mezza ammissione.

 

<< Oh, Alexander, mio bell'Angelo, temo che tu sia stato molto di più.>>

 

Lo era stato, lo era stato di sicuro.
Il suo angelo, il suo cavaliere. Suo poi, con quale arroganza si prendeva tale titolo?
Era un misto di rabbia, dolore, ingiustizia e frustrazione quello che albergava in lui. E Magnus lo sapeva che dopo la rabbia ci sarebbe stata la veloce e dolorosa discesa verso la devastazione che solo una perdita così cara può dare, ma non gli importava. In quel momento voleva solo urlare, urlare a tutti che non era giusto morire così, morire a quell'età e solo per aver fatto il suo lavoro.
Proprio come Ragnor, proprio come suo fratello. Non sarebbero dovuti morire, nessuno dei due. Per colpa di quel bastardo che non aveva sofferto abbastanza prima di lasciare questo mondo. Se gli avessero concesso un desiderio Magnus sarebbe sceso all'inferno per dimostrare a quel figlio di puttana cosa significasse davvero essere un figlio del principe dei demoni, cosa Asmodeus gli aveva insegnato e come fosse bravo a metterlo in pratica. Avrebbe votato la sua vita e la sua morte a far soffrire quell'anima immonda che aveva strappato quella pura di Alec alla luce.
Così pura da far quasi male a guardarla, lo aveva sempre pensato. Alec era un angelo in quell'inferno di mondo e non se lo meritava. Non lui che aveva fatto così tanto per troppe persone.
Con uno sconcerto non indifferente si rese conto che più di qualunque altra cosa, anche più di un ultimo bacio, di un sorriso, Magnus avrebbe voluto aver un secondo per dirgli un'unica parola: grazie. Perché davvero, Alexander era un poliziotto e lui un criminale e avrebbe potuto spedirlo in prigione e lasciare il vero colpevole a piede libero ma aveva scelto di fare la cosa giusta, di dare giustizia ad un innocente, aveva scelto di non scendere a compromessi.
Più della sua protezione, della sua amicizia, della confidenza e dell'affetto, Magnus avrebbe voluto ringraziarlo per la fiducia, una cosa tanto banale quanto essenziale, perché era sicuro che ad avvicinarli fosse stata quella. Era stato lo sguardo limpido e forte del detective dritto nel suo quando gli aveva detto che era l'unico a cui poteva rivolgersi e che, in ogni caso, sarebbe andato da lui e non da altri.
Quando lo aveva guardato e i suoi bellissimi occhi blu gli avevano detto senza possibilità d'errore che lui gli credeva, credeva alla sua innocenza e si fidava di lui abbastanza da dargli la possibilità di seguire le indagini, perché volevano entrambi la stessa cosa: giustizia.

La rima inferiore dei suoi occhi contenne le lacrime che cercavano di scappare e Magnus le rimandò giù con una forza ed una dignità che in quel momento doveva avere, per rispetto del suo Alexander e dei suoi famigliari.
Volse lo sguardo lucido lontano da Jace e lo posò su Isabelle che si era artigliata la maglia e non riusciva a distogliere l'attenzione dal fratello, come se esitasse nel dirgli qualcosa, come se avesse paura che staccandosi dal padre le sue lacrime silenziose sarebbero diventate potenti come quelle del biondo e che sarebbe crollata in mezzo alla camera.
E Robert, Robert Lightwood che aveva trovato il figlio in un lago di sangue come vi aveva trovato il fratello tempo addietro. Lo capiva quell'uomo, capiva il dolore della perdita di un famigliare con cui non condividi neanche un grammo di patrimonio genetico ma di cui, sei sicuro, se ti aprissero le vene, a te e lui, troverebbero un fluido gemello e più fortemente legato di quello di molti veri parenti. Lo capiva e si rese conto che come lui aveva pensato a Ragnor Robert doveva aver pensato a Michael.
Cercò il suo sguardo per dirgli che lui lo capiva, che anche se non si erano praticamente mai rivolti la parola se non in ospedale un mese prima, in un qualche modo a lui ancora sconosciuto, Magnus ci sarebbe stato e gli avrebbe dato sostegno.
Inclinò la testa per afferrare il fiume di pensieri che quegli occhi blu e spenti racchiudevano ma quando l'incontrò rimase interdetto.
Robert voltò la testa verso di lui e incatenò quegli occhi così maledettamente simili a quelli del figlio ai suoi. Eppure Magnus non vi trovò dolore, non vi trovò pena, non vi trovò rammarico e rimpianto. Non erano gli occhi di un uomo che aveva appena perso il figlio. Quell'uomo era certo privo di forze, svuotato come se… come se gli avessero tolto un peso dalle spalle?
Per un attimo Magnus scoprì la sgradevole sensazione di trovarsi davanti ad un genitore che gioisce della morte del figlio poiché altrimenti avrebbe continuato a soffrire per sempre. Gli diede il voltastomaco, gli fece venire voglia di piegarsi in avanti e vomitare tanto era rivoltante l'idea, seppur infinitamente umana e forse ancor più disperata del dolore che avrebbe dovuto provare.
Ma non era quello il caso.
Gli occhi di Robert erano blu come il cielo di notte ammirato da qualche luogo sperduto in cui la luce artificiale non riusciva a intaccarne il buio. Erano blu come il cobalto e come l'agata. Erano lapislazzuli del blu più profondo e tanzanite chiara come l'azzurrite, nella cornea brillavano frammenti di zaffiro stellato. Erano d'onice scura bagnata dalle cascate dirompenti che sgorgavano dalle rocce modellate dall'acqua nelle foreste più selvagge, il riflesso delle stelle sullo specchio dei laghi vergini, screziati da venature turchesi. Brillavano come la labradorite, coperti dalla patina lucida di una pietra di luna.
Le lacrime che silenti gli rotolavano lungo le guance come perle liquide avevano lavato via quella patina che per troppi anni aveva oscurato i suoi occhi e che riusciva a sollevarsi solo quando posava gli occhi sui suoi figli.
Robert gli sorrise, con un sorriso storto e appena accennato, come se non sapesse come fare, se quello era il modo giusto, e poi, semplicemente, tornò a guardare verso il letto, alzando una mano per posarla su quella della figlia che si lasciò scappare un singulto che trattenne come poté.
Magnus non riuscì a far altro che imitarlo, sconvolto dal caleidoscopio di pietre preziose che aveva scorto in quegli occhi e dal sorriso identico a quello di Alexander che l'uomo gli aveva appena dedicato.
Sconvolto e confuso. Perché sorrideva?

Osservava la schiena di Jace ma non la vedeva davvero, troppo perso in lande desolate in cui la terra e le rocce brillavano di blu, quindo un guizzo bianco colse la sua attenzione.
Clary sobbalzò staccandosi dal muro, facendo scattare come una molla Simon che si rimise in piedi e guardò allarmato l'amica prima di voltarsi verso il letto e quasi collassare addosso a Magnus, tanta era la forza con cui ogni fibra del suo corpo si era lasciata andare.
Izzy si lasciò scappare un altro suono che parve tanto simile ad una risata soffocata dalle lacrime, avrebbe anche potuto mettersi a gridare in quel momento, avrebbero potuto far esplodere una bomba nella stanza, ma Magnus non riuscì a sentire nulla, tutto in lui era proteso solo verso il letto in cui Jace ancora singhiozzava.
Una mano bianca come quella di un fantasma si mosse sulla spalla del biondo, trascinandosi sino ai suoi capelli e carezzandogli la testa con un gesto sicuramente faticoso e doloroso, dato il tremore di quell'arto, ma non per questo meno delicato o colmo d'amore.
Poi un altro movimento ed una seconda mano si arrampicò sulla schiena del ragazzo, muovendosi in circolo e cercando di calmarlo, di farlo smettere di piangere e di fargli riprendere fiato.
Pesantissime nel loro moto eppure così vive.

Fu ancora Simon a strapparlo alla sua trance, piegandosi verso di lui e poggiandogli la testa sulla spalla. Non ci vuole molto prima che una sensazione di umido lo raggiunga e gli volse ancor meno per alzare la mano e poggiarla sulla testa di Simon, come Alec stava facendo con Jace, con lo stesso intento di calmarlo, di dirgli di stare tranquillo, che era tutto finito, che non era vero, che era vivo.

Isabelle parve non riuscire più a trattenersi, si slanciò verso i fratelli quasi inciampando nei suoi stessi passi, trascinandosi dietro il padre a cui non aveva mai lasciato la mano e buttandosi contro Jace, cercando anche la mano del fratello maggiore e stringendola.
Rise tra tutte quelle lacrime, tirando su con il naso e poggiando la fronte contro la nuca del secondo fratello. Robert rimase in piedi, posando solo una carezza in testa al figlio, lo sguardo lucido di felicità e della stessa vita che scorreva ruggente e implacabile nelle vene di Alexander.

 

Il loro angelo guerriero.

 

Quando i tre si rialzarono, quando riuscirono a convincere Jace che non poteva rimanere sdraiato vicino al fratello finché questo non sarebbe stato pronto per rialzarsi con le sue stesse gambe, Magnus scorse la figura di Alec, pallida come le bende che gli coprivano il torace, con quei maledetti tubi che gli uscivano dalla bocca e dalle ferite. Lo vide sorridere con lo sguardo e si domandò come riuscisse a star fermo e non strapparsi tutto di dosso.
Fu una fitta dolorosa in mezzo a tutta quella gioia ritrovata capire che Alec non accennava a volersi togliere l'intubazione perché probabilmente si rendeva conto da sé che non ce l'avrebbe fatta a respirare da solo.
Era perfettamente consapevole di quali fossero le sue condizioni, aveva solo avuto la testardaggine e la forza di riaprire gli occhi e dar un minimo di sollievo alla sua famiglia. Perché Magnus ne era certo: Alexander si era svegliato solo per loro, solo per fargli avere la sensazione che stesse guarendo, non per altro, certo che no. A lui sarebbe convenuto molto di più rimanere a dormire per tutto il tempo, senza sentire il dolore delle ferite e senza avvertire quello delle persone che lo amavano, in pena per lui.

Sentì un angolo delle labbra tendersi verso l'altro nel momento stesso che realizzò ben altro, intercettando lo sguardo lacrimoso e luminoso di Jace. Si rese conto che se Alec fosse morto Jace non avrebbe versato neanche una lacrima, non sul momento. Magari sarebbe stato furioso, sarebbe stato freddo, una maschera di odio e rabbia, di risentimento verso tutti e nessuno, ma si sarebbe trattenuto sino a scoppiare. Jace Lightwood non avrebbe mai pianto per la morte del fratello, ma avrebbe versato ogni lacrima per la sua vita.
Il sorriso si gli ampliò.
Proprio come aveva promesso lui anni addietro a Ragnor e Catarina: niente lacrime se non di gioia.

Era la loro promessa ma non metteva in dubbio che fosse anche uno dei credo più forti del secondo dei Lightwood, probabilmente di tutti e sei.

Sorrise apertamente a Simon che si asciugava le guance senza vergogna e a Clary che ancora se ne faceva scappare, tanto era felice. Poi volse lo sguardo verso gli altri, ad Izzy seduta sul bordo del letto del fratello, tenendolo per mano. A Jace che teneva il volto rivolto verso il soffitto per non piangere ancora e rispondeva quasi ringhiando alla sorella che gli diceva quanto fosse adorabile con gli occhi rossi come le sue guance. A Robert che fissava i suoi figli come se fossero un piccolo miracolo su questo mondo corrotto.

Abbassò di poco la traiettoria ed incontro un altro paio di occhi arrossati ma per motivi del tutto diversi da quelli degli altri.
Alexander lo fissava con una luce nello sguardo che poteva essere solo sollievo. E non per sé stesso, ma per lui.
Lo vedeva, vedeva che stava bene, che era sveglio, vigile, che riusciva a stare seduto e che era vivo. E Magnus non poté far a meno di sorridergli, semplicemente sorridergli, sollevato quanto lo era lui di poter finalmente rivedere i suoi magnifici occhi blu.
Mimò con le labbra un “Ciao Fiorellino” e se glielo avessero chiesto avrebbe giurato che il bel detective avesse provato a sorridergli.

 

A vederli tutti lì, in quella camera, attorno ad Alexander, a Magnus parve quasi d'essere un estraneo, uno spettatore di un'opera cavalleresca che scrutava dei moderni cavalieri piangere di gioia il risveglio di un loro compagno.
Le lacrime di chi mai ne versa, spesso, valgono tanto quanto quelle di chi ha un animo più sensibile. Magnus aveva imparato a sue spese che al mondo esistevano due tipi di persone: quelle che non avevano paura di nascondere le proprie lacrime e che le mostravano quasi con orgoglio, che erano disposte a condividere il proprio dolore e quello degli altri per far sì che mai nessuno ne provasse come loro; e tutti quelli che invece ne avevano paura, che non riuscivano a mostrarsi sensibili o a cui era stato inculcato quanto questo fosse sbagliato.
A queste due categorie andava aggiunta una raggiera di sfumature infinite, compresa la sua e quella che accomunava la famiglia Lightwood:
Le lacrime sono preziose e vanno lasciate libere solo per ciò che davvero conta: la felicità.















Salve.
Questa è la quarta OS dedicata alla long
Una pista che scotta e probabilmente per capirci qualcosa vi conviene come minimo leggere l'ultimo capitolo della storia.
Era una parte che avrei voluto inserire nel testo originale ma che così facendo lo avrebbe reso troppo lungo e forse troppo pesante, quindi ho preferito rilegarlo in una fic a sé.
Per la prossima solo una domanda retorica: chi sa come passano il Natale le forze dell'ordine e quelle del crimine di New York City?
Io no.

   
 
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