Libri > Hunger Games
Ricorda la storia  |      
Autore: pandafiore    30/01/2018    3 recensioni
(Post-Mockingjay)
dal testo:
"Ho una fitta lancinante tra lo stomaco e il cuore. Mi alzo e scatto fuori di casa: corro scalza sui sassi, al buio, e raggiungo la casa di Haymitch.
Gli occhi del mentore sono lo specchio della mia stessa paura; mi vede entrare in casa sua tutta rossa di sangue e urlante, lui che stava dormendo nel bel mezzo della notte."
Genere: Angst, Suspence, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Haymitch Abernathy, Katniss Everdeen, Peeta Mellark
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A

OneShot

Il buio


Il profumato vento primaverile ci fa visita dalla buia finestra socchiusa, inebriando i miei sensi e forse anche quelli di Peeta, al mio fianco.
Sono sdraiata sul divano, mentre lui dipinge, seduto di fronte al proprio cavalletto, tutto concentrato. Saranno le undici di sera ed ancora non abbiamo voglia di chiudere gli scuri ed andare a dormire. È maggio e qui si sta bene – per quanto si possa stare bene dopo ciò che ha attraversato le nostre vite.
Faccio un respiro profondo, liberatorio, ed alzo le dita d'una mano, per poi appoggiarle sul braccio di Peeta, rivestito di una leggera peluria bionda. Gli faccio una lieve carezza che gli arreca qualche brivido; appoggia il pennello che ha in mano e si volta verso di me: sorride con le labbra delicate, ma i suoi occhi sono tristi, terribilmente mesti, quasi lucidi. « Che c'è? » gli chiedo, ma lui scuote la testa e si alza senza dar peso al proprio atteggiamento. Guardo la tela, per capire qualcosa di più sul suo umore, ma è un semplice fiore, che nemmeno conosco.
Lo fisso mentre mi torna vicino, sedendosi ai miei piedi, sul lato opposto del sofà. Mi massaggia piano gli stinchi e sembra stia cercando le parole adatte per dire qualcosa... come se gli rimanessero tutte impigliate in gola.
« Vado a preparare una tisana? » domando, vedendolo un po' agitato; una parte di me teme un episodio e vuole allontanarmi dal pericolo.
« Forse è meglio, sì... »
 
L'acqua bolle, così la verso fumante nella sua tazza arancione, dalla quale sale subito un delicato profumo di thè; raccolgo un coltello tra le dita, mi volto per prendere il limone dal frigo, ma mi ritrovo di fronte Peeta: lo sguardo perso nel vuoto. O meglio, perso sul coltello che ho in mano.
« No, Peeta, non è reale. » Riesco a miagolare, tentando di indietreggiare, poco prima che la sua presa ferrea, con quelle sue mani sporche di mille colori, si chiuda attorno alla mia gola, sbattendomi contro il mobile del gas.
Mi dimeno, urlo, scalcio – anzi, gli tiro letteralmente dei calci –, ma è tutto inutile. Una sua mano scende e raccoglie il coltello che ho appena abbandonato, mentre la sua voce e le sue iridi nere sibilano come una serpe: « Volevi uccidermi, vero? »
La lama è tra noi due, rivolta verso di me. La sento improvvisamente conficcarsi appena nella mia carne, ma mi fanno così male i polmoni e la trachea da eclissare momentaneamente il sangue che inizia a macchiare la mia maglietta di cotone bianco.
 
Non so bene come faccio, in realtà, è questione di un istante: mi si libera una mano, prendo il coltello e lo rigiro con uno sforzo immenso. Quando sprofonda nel suo torace, è come se mi risvegliassi da un sogno.
 
Le sue mani scivolano via dal mio corpo e faccio fatica anche a riprendere a respirare, ho i bronchi distrutti. Il suo corpo, subito dopo, si accascia inerme al suolo, gli occhi sbarrati al cielo, imprecanti dolore.
Un moto strano di rabbia e di rancore e di... paura, pura e folle paura, mi devastano, montandomi all'interno.
« Peeta... » sibilo, vedendo il sangue scarlatto iniziare a tingere la camicia e a scendere sul pavimento, tra le scanalature delle piastrelle, poi sempre di più. Mi gira la testa.
 
Urlo. Urlo come non urlo da anni, urlo come urlai per salvare Prim dalla mietitura o per chiamarla poco prima che la bomba esplodesse; urlo come quando è morto papà, o come quando gridavo alla mamma, così apatica. Grido con quanto fiato ho in gola, non posso abbandonare Peeta ora ed andare a cercare Haymitch, così le mie corde vocali plasmano anche il suo nome, mentre la crisi isterica mi prende le viscere.
 
Peeta sta piangendo silenziosamente, in tutto questo. Percepisco la sua agonia come se fosse la mia, con quel coltello piantato sullo stomaco quasi per sbaglio, per un istinto naturale, animale forse, di salvare me stessa.
Mi rendo conto solo ora che la mia voce è gracchiante per la morsa che mi stava ammazzando, e questi striduli urli saranno totalmente vani.
Mi abbasso, dunque, a baciare la pelle tesa e troppo pallida del suo viso, ma è tutto inutile. Vedo il sangue defluire dalle sue vene, lentamente: un involucro che si svuota. Mi sale un conato di vomito, ma stringo forte le labbra tra loro.
Faccio pressione sulla ferita, ma ho paura ad estrarre il coltello. È come essere nuovamente negli Hunger Games, lo stesso identico panico. Come se davanti a me avessi Rue con la lancia conficcata al centro del ventre.
« Non lasciarmi, Peeta, almeno tu... » singhiozzo, non so nemmeno se sta capendo, gli si chiudono gli occhi.
 
Ad un certo punto, la speranza mi abbandona. Non so bene perché proprio ora e non prima, ma sento qualcosa di invisibile scivolarmi fuori, dalle dita, dal respiro: e capisco che non c'è più niente da fare.
Vedere le mie lacrime unirsi a quelle del viso funereo del ragazzo, mi sgretola, mi lacera il cuore. Gli bacio la pelle del viso e cerco di sussurrare che va tutto bene, che mi dispiace, mi dispiace tanto.
« Hai fatto bene... » ansima, quasi col fiatone.
« Shh... no, no... »
«Ero un pericolo... per te.»
Un singhiozzo mi spezza la voce prima di parlare: « Ti prego, resta con me, Peeta. Sempre, avevi detto che restavi per sempre! » sembro arrabbiata e lui non merita la mia ira in questo preciso istante, ma deve assolutamente lottare e restare. Deve rimanere qui.
Peeta sospira appena, prende poco fiato, ciò che riesce, sta per parlare, ma le sue labbra si irrigidiscono, lo sguardo si blocca e la testa cade, di lato, a fissare il vuoto, il freddo nulla.
 
Ho una fitta lancinante tra lo stomaco e il cuore.  Mi alzo e scatto fuori di casa: corro scalza sui sassi, al buio, e raggiungo la casa di Haymitch.
Gli occhi del mentore sono lo specchio della mia stessa paura; mi vede entrare in casa sua tutta rossa di sangue e urlante, lui che stava dormendo nel bel mezzo della notte.
Mi segue senza badare ai lividi sul mio collo, forse nemmeno li vede, gli dico solo che ho ucciso Peeta. Ho ucciso Peeta.
 
È tutto inutile.
Haymitch fissa il cadavere dall'alto, sembra una statua. « È morto, » biascica « è morto ». Ed è la sentenza finale.
Cammina barcollando verso la sala, lontano dalla mia vista, nauseato dalla visione e si piega sul tavolo, la testa tra le mani e la schiena percossa di piccoli tremiti.
Era il suo sopravissuto, il suo vincitore. Il suo sole, in qualche modo: chi, se non Peeta, si preoccupava di lui? Che mangiasse, si vestisse, smettesse di bere ogni tanto?
Ma non mi importa davvero. Peeta era il mio sole.
 
•••
 
Il funerale è deserto.
La Paylor ha impedito che i cittadini di Panem sapessero già dell'accaduto: mi avrebbero rinchiusa in un manicomio, senza ascoltare le mie scuse o le mie scusanti.
Una lapide piccola, grigia, quasi troppo poco spoglia per un artista come lui. Eppure questo è il meglio che può offrire il distretto 12.
I presenti sono pochi. Haymitch, Sae, sua nipote e Plutarch. Nemmeno Effie, Gale o mia madre sanno nulla dell'accaduto: non ho voluto io. Ho bisogno di stare sola, e loro mi avrebbero tartassata di domande – forse solo per dimostrare che sono mentalmente instabile.
 
•••
 
Come dopo la morte di Prim, sono vuota.
Sto sdraiata sul divano, tra una coperta e due cuscini, a fissare dei biscotti vecchi, ma ancora glassati, appoggiati sul tavolino. Ricordo le dita di lui mentre li teneva tra le mani per decorarli. Dita spesse, ma sorprendentemente aggraziate. Dita sporche di colore, chiuse attorno alla mia gola.
Non piango più, ho finito le lacrime.
 
Mi sfiora l'idea che sia stata solo legittima difesa, ma penso anche che potevo morire io. Non avrei mai dovuto reagire così, sebbene fosse più forte di me... significa che a Capitol ci sono riusciti: mi hanno trasformata in un mostro. In un'assassina.
 
 
Un giorno decido di uscire.
Non mi cambio di vestiti, non so neanche che ora sia, ma vedo che c'è ancora luce fuori. Voglio solo sentire nuovamente la vita.
Istintivamente imbocco la strada per il bosco e scelgo un albero. Non ragiono nemmeno più, sono composta solo di rari pensieri e, soprattutto, di gesti.
“Questo è perfetto” penso, arrampicandomi su un faggio molto alto, forse quaranta, quasi cinquanta metri.
Mi sembra di toccare con mano il cielo.
Il profumo del bosco mi invade e per l'ultima volta mi riempie, mi sazia. Chiudo gli occhi, il vento mi sferza le guance, mi screpola ancora un pochino le labbra, immediatamente inumidite dalle prime gocce di pioggia del cielo grigio – come se qualcuno  volesse mandarmi un bacio, da lassù. Sono nel mio mondo, ora. Sono nella natura, eppure non sto meglio.
“Per sempre” aveva detto lui, quando ancora era qui a riempirmi la vita. E per sempre sarà, solo non sulla terra, non in questa vita.
Basta poco per sbilanciarmi e volare. Il senso di libertà è il mio ultimo pensiero: libera dalle catene del potere, del governo – che anche dopo morto continua a pressarmi dall'alto –, le catene dell'amore e quelle dell'odio. Non sono stata creata per amare: tutti coloro che ho amato per davvero, sono morti. È tempo di pareggiare i conti.
 
Il contatto col suolo mi devasta, sento un dolore atroce tra il collo e la schiena, forse grido. Poi, il nulla.
Il buio.




Buongiorno!
Torno oggi con questa oneshot, nata quasi per caso. Sinceramente, dopo averla vista, rivista e stravista, con mille modifiche ed altrettante imprecazioni (lol), ora sono piuttosto soddisfatta. È qualcosa di un po’ diverso, di un po’ (molto) tragico.
Perché in fondo per Katniss e Peeta gli Hunger Games non finiscono mai, non si scende mai da quel treno di morte; non in questa storia, dove Katniss si ritrova il cadavere di Peeta tra le braccia, ucciso da lei stessa per legittima difesa da un episodio troppo violento. Come ho anche scritto, è quasi un dejavù per Katniss: Rue è morta in modo abbastanza simile, anche se l’assassino e la circostanza erano differenti. Eppure il senso di colpa quando qualcuno viene a mancare è sempre forte, come se non avessimo fatto abbastanza per salvarla. Be’, non è sempre così, spesso facciamo già abbastanza, ma non c’è più nulla da fare.
Okay, come se questa storia non fosse già abbastanza triste, sto peggiorando la situazione… meglio che scappi!
Attendo pareri!
pandafiore
   
 
Leggi le 3 recensioni
Ricorda la storia  |       |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Torna indietro / Vai alla categoria: Libri > Hunger Games / Vai alla pagina dell'autore: pandafiore