Anime & Manga > L'Attacco dei Giganti
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Autore: Ellery    01/02/2018    0 recensioni
Raccolta di One-Shot sui veterani (o su quelli che sarebbero diventati veterani, se fossero sopravvissuti), riguardo a spaccati della loro vita (sempre siano ancora vivi) passata o futura che sia. La raccolta è divisa in capitoli, a seconda del personaggio.
Genere: Introspettivo, Malinconico, Slice of life | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Un po' tutti
Note: Missing Moments | Avvertimenti: Spoiler!
Capitoli:
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1. La scelta di Hanji


* Cowt8, week 3
* Parole: 1733
* Personaggi coinvolti: Hanji, Moblit


Hanji versò il contenuto della provetta in  un matraccio, diluendolo poi con acqua fredda fino a portarlo a volume. Avrebbe usato quella miscela più avanti, come additivo per la conservazione della carne titana. Non era ancora riuscita a salvarne qualche pezzettino. Il problema dei giganti era il rapido evaporare, una volta tranciata la nuca. Non rimanevano mai molte parti da raccattare e da studiare, salvo forse alcune componenti dello scheletro. Le ossa, in effetti, ci mettevano di più a degradarsi.

Sbuffò piano, controllando l’orologio appeso al muro. Secondo il vecchio cucù, mancavano alcuni minuti allo scoccare della mezzanotte. Avrebbe dovuto chiudere il laboratorio ed andare a coricarsi, ma quella ricerca era così importante che l’idea di portarla a termine la stuzzicava troppo. Avrebbe ricevuto, senza dubbio, nuovi finanziamenti se fosse riuscita a trovare un metodo per preservare il corpo dei giganti uccisi. Sarebbe stato un enorme passo avanti per la scienza!

Accese nuovamente il distillatore, modulando la fiamma per far bollire un altro po’ di liquido. Forse poteva ricavare ancora un paio di fialette del concentrato e lasciarle a riposare qualche ora, prima di passare alle diluizioni successive. Avvicinò il viso alla fornelletto, osservando il bagliore azzurro intenso. Perfetto per l’esperimento che si apprestava a condurre.

Sedette sullo sgabello alle proprie spalle, recuperando una pergamena. Doveva assolutamente appuntare quegli ultimi dati, prima di dimenticarsene. Cercò lesta il calamaio e la penna d’oca, intingendone il beccuccio nell’inchiostro.

Non aveva vergato che un paio di parole, quando colse l’insistente bussare:
«Caposquadra. Siete ancora lì?»

La familiare voce di Moblit la raggiunse. Accantonò il foglio, volgendosi verso l’ingresso e snocciolando un:
«è aperto, vieni pure.» gli indicò una seggiola malmessa, le cui gambe erano rinforzate da bastoncini e corda ruvida «Accomodati.» disse, spiando poi il vassoio che il giovane portava con sé «Mh… mi hai portato la cena?»

«Sì. Non vi ho visto in mesa e così ho pensato che…»

Non lo lasciò terminare. Batté le mani, piegando le labbra in un sorriso soddisfatto:
«Moblit! È stato un pensiero gentile da parte tua. In effetti, è da sta mattina che non metto niente sotto ai denti. Sai com’è… mi ero persa a stilare i dati di quest’ ultima prova e…» agguantò un tozzo di pane, sbocconcellandolo tra i denti «Sono certa che i risultati saranno positivi, questa volta.» terminò, mentre Moblit prendeva posto accanto a lei.

«Posso chiedervi una cosa, caposquadra?»

«Tutto ciò che vuoi! Domandare non costa nulla.»

«Perché siete entrata nella Legione Esplorativa e… come siete diventata una scienziata?»

Non si aspettava, in effetti, quel quesito. Sperava fosse qualcosa inerente agli esperimenti e non riguardante la sua vita privata, ma… che male c’era a parlarne?

«Mh, è una storia lunga. Non troppo lunga, ma… un pochetto. Sicuro di volerla ascoltare?»

«Sicurissimo, caposquadra.»

«Bene.» Hanji accantonò la cena, concedendosi soltanto un piccolo sorso d’acqua, prima di iniziare il racconto.
 

***
 

La sua infanzia non era stata affatto semplice. A conti fatti, Hanji non sapeva neppure di chi fosse figlia. Era cresciuta in un orfanotrofio, alla periferia del distretto di Karanes. I suoi ricordi iniziavano lì, tra i banchi consumati delle aule, i tavolacci del refettorio e le grandi camerate dove i bambini venivano stipati ogni sera, dopo la preghiera comune al Dio delle Mura.

Non aveva mai realmente seguito le funzioni, in effetti: le educatrici si sforzavano di introdurla al catechismo, ma senza grande successo. A che pro ringraziare una divinità tanto egoista da aver progettato le Mura? Ed avervi, per di più, rinchiuso uomini e donne che diceva d’amare. Non aveva senso! Tanto valeva marinare le messe e sgusciare fuori dalle porte secondarie e correre in giardino a controllare l’evolversi della natura.

Aveva addirittura allestito un allevamento di lombrichi: li raccoglieva dalla terra smossa dell’orto e li inseriva in dei barattoli, sforzandosi di ricreare il loro ambiente con humus, rametti e foglie fresche. Si illudeva che bastassero solo quelle piccole cose per farli crescere.
Aveva tentato lo stesso esperimento con i bachi da seta, trafugati dalla soffitta delle vicine filande, e con le chiocciole.

Nessuno, naturalmente, era andato a buon fine: i vermi non si erano riprodotti, dai bozzoli non era emersa alcuna farfalla e le lumache erano accidentalmente arrostite un brutto giorno, quando aveva dimenticato la sua collezione sul davanzale assolato. Aveva chiesto silenziosamente scusa a quelle creature, seppellendole nuovamente nella terra del giardino, tra gli scherni e le risa degli altri bambini.

Hanji la Stramba, la chiamavano. Chi era per loro, se non una bambina taciturna e solitaria, troppo strana per poter essere una buona amica? Con quegli occhiali assurdi che la facevano assomigliare ad un moscone, con la passione per la lettura e per la scienza… a chi poteva interessare? Nessuno desiderava la compagnia di una che passava il tempo a costruire rifugi per le formiche ed a collezionare insetti. Come potevi fidarti? Preferiva nutrire le mantidi religiose che giocare a pallone. Era normale? Niente affatto! Era sicuramente pazza ed affetta da qualche strana malattia.

Era cresciuta così, evitata da tutti. Persino le istitutrici la sottovalutavano. In fondo, non aveva alcun talento: non era portata per la musica e men che meno per il cucito! Non sapeva dipingere e nemmeno cantare. Era impossibile costruirle una dote e sperare che qualcuno la prendesse in sposa. L’avevano lasciata sola, emarginandola a loro volta.

Avere un rapporto civile con i suoi coetanei era quasi impossibile: o la ignoravano o perdevano il loro tempo a canzonarla, a distruggere i suoi esperimenti e nasconderle i libri.

«Vorresti diventare una scienziata?» le dicevano, tra un ghigno e l’altro «Non si è mai vista una scienziata donna!»

«Scemenziata! Scemenziata!» cantilenavano di continuo, al suo passaggio.

Li aveva snobbati, proseguendo per la sua strada. Lo studio, gli esperimenti falliti e quelli riusciti, gli erbari, gli insettari e i volumi polverosi che la fissavano dall’alto degli scaffali della biblioteca: ecco le sue uniche compagnie.
La scienza era un’arte volubile, ma terribilmente affascinante. C’era così tanto da sapere! Come era composto il suolo? Perché gli uccelli volavano? Come nasceva il vino e perché il sale era un così buon conservante?

Come potevano, i suoi compagni, non rimanere affascinati da quegli interrogativi? Possibile che non aspirassero ad altro che a divenire braccianti, fabbri e artigiani? Perché non si sforzavano di guardare oltre la punta dei loro tozzi nasi? O, quanto meno, di provare a capire il suo impegno! Di interessarsi ai suoi progetti, alle sue scoperte! Sarebbe stato piacevole poter condividere una tale passione con qualcuno che non fosse un vecchio orsetto di stoffa verde.
 

Aveva compiuto quindici anni una uggiosa giornata di settembre. Le istitutrici l’avevano messa alla porta, stipando i suoi ultimi esperimenti in una cassetta malmessa. Le avevano consegnato l’indirizzo di una locanda, dove avrebbe potuto facilmente trovare lavoro come cameriera. Sapeva almeno reggere un vassoio e due bicchieri? Non era un compito complicato: doveva soltanto servire al tavolo e mostrarsi carina con i clienti. Credeva di potercela fare?

Era salita su una carovana di mercanti e si era fatta trasportare fino al villaggio di Funke, fermandosi davanti alla porta del “Galletto Ruspante”.
Non era mai entrata in quella osteria.

Aveva immediatamente voltato i tacchi e preso la direzione diametralmente opposta. Non sarebbe diventata una servetta alle dipendenze di qualche burbera padrona. Avrebbe girato il mondo, viaggiato da un capo all’altro delle mura! Conosciuto paesi nuovi, incontrato inventori, condotto esperimenti e… chissà, magari sarebbe riuscita a farsi ammettere in qualche prestigiosa facoltà della capitale. Aveva sentito parlare di una importante accademia, nel cuore di Mitras. Perché non tentare? Magari avrebbe trovato qualcuno disposto a finanziare i suoi esperimenti! Oppure un precettore, capace di insegnarle le mille meraviglie della scienza.

Naturalmente, non si era poi allontanata di molto. Da Funke era riuscita a strappare un passaggio per Trost, ma una volta lì, si era accorta che i suoi risparmi erano ormai agli sgoccioli. Avrebbe dovuto trovarsi un lavoro alla svelta, se non desiderava rimanere completamente al verde.
Aveva provato come bottegaia, come aiuto sarta, come bibliotecaria, ma nessuno aveva voluto accoglierla come apprendista. Si era, dunque, rifugiata nelle braccia dell’unica organizzazione che avrebbe saputo concederle gli spazi di cui aveva bisogno, oltre che una generosa ricompensa per il servizio prestato: l’esercito.

Non aveva mai pensato di poter diventare un soldato, in effetti. Eppure… più proseguiva con l’addestramento al campo cadetti e più in lei si radicava l’idea che quella scelta, per quanto rischiosa e complessa, era quella giusta. D’altronde, non aveva mai smesso di perseguire i propri obiettivi! Aveva soltanto cambiato target: dai lombrichi ai titani. Dopo tutto, entrambi erano mollicci, rosa e senza cervello. Si trattava soltanto di una questione di dimensioni: da dieci centimetri a dieci metri. Ma, insomma… cos’è una proporzione, se non un’accozzaglia di numeri?

La Legione Esplorativa, infine, l’aveva accolta come una figlia smarrita. Il comandante Shadis si era immediatamente dimostrato disponibile a finanziare le sue ricerche: qualcuno che lavorasse sul campo, che raccogliesse dati sui giganti e che li studiasse era – senza dubbio – una risorsa preziosa. Chissà, magari grazie alle sue indagini avrebbero scoperto cosa si celava dietro quegli orrendi mostri cannibali. Inoltre, beh… erano comunque un paio di braccia in più per la lotta, no? Contando il numero eclatante di perdite nel Corpo di Ricerca, un’aspirante suicida in più avrebbe fatto comodo.
 

***
 

«E questo è tutto!» chiocciò Hanji, tornando ad acciuffare il panino «Naturalmente, potrei raccontarti di come ho conosciuto Erwin e Mike, poi. In effetti, abbiamo ancora tutta la notte!» esclamò, gettando una occhiata alla finestra vicina.

Fuori albeggiava.

«Volevo dire… tutto il giorno!» si corresse, volgendosi infine verso il suo assistente «Moblit?... Moblit?» provò a pungolarlo con una pinzetta.
Moblit si era addormentato.

«Siamo alle solite» sussurrò; possibile che i suoi racconti fossero tanto soporiferi? Non era il primo che cadeva vittima delle sue infinite chiacchiere, crollando sempre sul più bello «Dovrò lavorare ancora sulla dialettica.» concluse, alzandosi e recuperando il proprio mantello. Lo drappeggiò sulle spalle del giovane, avendo cura di coprirlo per bene. La temperatura, in effetti, non era delle migliori in quello scantinato.

«Caposquadra…chiedo scusa.» Colse una voce impastata. Moblit la stava osservando da sotto il bordo verde del cappuccio. «Devo essermi addormentato e…»

«Dormi pure.» rispose, regalando all’assistente un sorriso indulgente «Non sono arrabbiata. Eri stanco e… credo d’essermi dilungata troppo, come al solito» concluse, mentre le labbra si piegavano in un ghigno secco «Ma… se proprio vuoi fare ammenda, ci sono le stalle da spazzare.»
  
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