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Autore: crazy lion    03/02/2018    4 recensioni
Attenzione! Spoiler per la presenza nella storia di fatti raccontati nel libro di Dianna De La Garza "Falling With Wings: A Mother's Story", non ancora tradotto in italiano.
Mancano diversi mesi alla pubblicazione dell’album “Confident” e Demi dovrebbe concentrarsi per dare il meglio di sé, ma sono altri i pensieri che le riempiono la mente: vuole avere un bambino. Scopre, però, di non poter avere figli. Disperata, sgomenta, prende tempo per accettare la sua infertilità e decidere cosa fare. Mesi dopo, l'amica Selena Gomez le ricorda che ci sono altri modi per avere un figlio. Demi intraprenderà così la difficile e lunga strada dell'adozione, supportata dalla famiglia e in particolare da Andrew, amico d'infanzia. Dopo molto tempo, le cose per lei sembrano andare per il verso giusto. Riuscirà a fare la mamma? Che succederà quando le cose si complicheranno e la vita sarà crudele con lei e con coloro che ama? Demi lotterà o si arrenderà?
Disclaimer: con questo mio scritto, pubblicato senza alcuno scopo di lucro, non intendo dare rappresentazione veritiera del carattere di questa persona, né offenderla in alcun modo. Saranno presenti familiari e amici di Demi. Anche per loro vale questo avviso.
Genere: Drammatico, Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altri, Demi Lovato, Joe Jonas, Nuovo personaggio, Selena Gomez
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Spoiler!, Tematiche delicate
Capitoli:
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Ciao a tutte!
Una piccola precisazione: ho inserito il punto di vista di Catherine. Sono poche righe, ma molto introspettive, e mi sembrava importantissimo aggiungerle. Non so se lo farò ancora, in futuro. La ragazza è presente anche nella scena precedente al suo punto di vista vero e proprio, e racconta delle cose, ma ho preferito separare comunque le due parti perché nella prima scena c'è anche Demi, nell'altra no. Leggete l'angolo autrice in fondo.
 
 
 
 
 
 
89. UNA GIORNATA PIUTTOSTO TRANQUILLA
 
Si fermarono nei pressi di un piccolo bar che Mackenzie non aveva mai visto. Le poche volte nelle quali erano uscite con i genitori a mangiare qualcosa, lei e Hope erano state sempre nei soliti posti.  Quando scese dall'auto e si guardò intorno, la bambina notò che non conosceva bene nemmeno la zona. Era piuttosto tranquilla, c'erano alcune persone che camminavano e passavano pochissime auto sulla strada lì accanto.
"Siamo fuori dal centro" spiegò Demi. "Ho pensato che sarebbe stato meglio andare in un posto in cui, diciamo, regna la calma. Ci sono venuta poche volte, ma vi assicuro che qui fanno le pastine più buone e più grandi che io abbia mangiato in vita mia!" esclamò.
"Ora sono curioso" commentò Andrew.
Il locale era carino e spazioso. Il pavimento era in legno e le pareti, di un giallo non troppo acceso, conferivano all'ambiente un aspetto caldo e accogliente. C'erano pochi tavoli, ma ciò trasmetteva un maggior senso di tranquillità.
Demi non aveva esagerato: il bancone era pieno di paste e brioche davvero grandi. Si accomodarono ad un tavolo un po' in disparte e la ragazza, dopo aver chiesto alla figlia e al fidanzato cosa volessero, andò ad ordinare. Poco dopo tornò a sedersi e, dato che non c'era quasi nessuno in quel momento, una ragazza arrivò subito e diede a Mackenzie una pasta al cioccolato e ai due adulti una brioche alla marmellata.
"Il latte e i cappuccini arrivano subito" aggiunse poi sorridendo.
"Grazie" rispose Andrew.
Quando Mackenzie diede il primo morso alla sua pasta, il suo volto si illuminò.
Mamma, torneremo ancora qui, vero? chiese speranzosa.
"Beh, penso che costi un bel po', ma sì a volte possiamo venire. È buona?"
Fantastica!
Era un impasto di cioccolata con sopra una spessa glassa sempre al cioccolato e in cima dei granellini di zucchero. Mackenzie chiese al papà se avrebbe potuto darne un pezzettino a Hope.
"Sì, certo!"
La bambina lo passò direttamente alla sorellina, la quale lo mise in bocca e sorrise. Demi le pulì le manine, che per fortuna non si erano sporcate un granché.
Finita la colazione decisero di tornare a casa. Andrew voleva andare dal meccanico e poi dal medico.
"Non ti converrebbe fare il contrario?" gli fece notare Demi.
"Preferisco capire prima cos'ha la mia auto, è davvero ridotta male."
"La tua salute è più importante" lo rimproverò, alzando un po' la voce.
"Lo so, ma oggi sto molto meglio, tesoro. Non andrò a piedi dal dottore, okay? Non mi stancherò, prenderò l'autobus."
"Va bene, come vuoi."
La ragazza preferì chiudere lì quella conversazione. Non voleva discutere per una cosa del genere.
"Voi aspettatemi pure a casa. Quando ho finito torno e andiamo nel nostro posto."
"Sei sicuro?" gli domandò lei, un po' preoccupata.
Sapeva cosa gli avrebbe detto il medico, e non avrebbe voluto lasciarlo solo in un momento del genere, visto che poco prima parlandone si era buttato giù.
"Sì, tranquilla. Non voglio far stancare troppo le bambine."
Le sorrise, ma Demetria non riusciva a restare calma. Cercò di cambiare argomento per non insistere e rischiare di litigare.
"Si spende una fortuna lì dentro. Voglio dire, okay le pastine sono spettacolari, ma sette dollari per un cappuccino e sei per un latte mi sembra davvero troppo!"
"Hai ragione. È un prezzo che non mi sarei aspettato."
"Non ricordavo costasse così tanto quando ci andavo anni fa."
A nessuno dei due mancavano i soldi, ma cercavano sempre di non spendere troppo.
"Comunque l'importante è che ci sia piaciuto" commentò l'uomo "e che le piccole siano felici."
"Sì, è vero."
 
 
 
Quando Demi e le bambine furono entrate in casa, Andrew salì in auto. Il sedile del guidatore si era un po' asciugato grazie al sole e all'aria, ma per cercare di non bagnarsi l'uomo ci mise sopra il suo giubbotto. Non aveva freddo e a casa della fidanzata ne aveva portati un paio. Quando provò ad accenderla, l'auto non partì.
"Andiamo!" cercò di incoraggiarla, pur sapendo che non serviva visto che lei non poteva capirlo. "Forza, parti, ti prego!" Provò diverse volte, ma la macchina non ne voleva proprio sapere di accendersi. "Dannazione!“ Tirò un pugno al volante, esasperato. Poco dopo l'auto si mise in moto, anche se con fatica. "Dio, ti ringrazio."
Andrew riuscì ad arrivare dal meccanico anche se con difficoltà. La macchina faceva un rumore strano, come se nel motore ci fosse acqua, e la cosa non lo rassicurava affatto. Non c'era nessun altro cliente in officina, così entrò e spiegò il problema. Un ragazzo sulla trentina lo ascoltò con pazienza e alla fine gli sorrise.
"D'accordo" disse, "mi faccia vedere."
Aveva la tuta sporca di grasso. Andrew ammirava tantissimo le persone come lui che sapevano sistemare le automobili. Non se ne intendeva per niente, di quella roba. Era già tanto se una volta era riuscito a cambiare una ruota che si era bucata. Mentre il meccanico osservava l'auto e gli chiedeva di poterla accendere per capire cosa c'era che non andava, Andrew iniziò a pensare. L'aveva comprata anni addietro, poco prima che i suoi genitori morissero. Era andato a casa per fargliela vedere, aveva fatto con loro e con Carlie un giro… e qualche giorno dopo i due ragazzi erano rimasti orfani. Con quell'auto aveva accompagnato Carlie all'aeroporto prima che partisse per il Madagascar, e poi era andato a prenderla tre mesi dopo; era corso sul luogo dell'incidente, era andato avanti e indietro dall'ospedale per anni; e, non da ultimo,ci aveva fatto salire Demi e le bambine, le persone che ora formavano la sua nuova famiglia. Non avrebbe voluto separarsi da quella macchina, c'erano troppi ricordi, belli e brutti, legati ad essa.
Non partiva più. Il meccanico provava a farla andare da ormai cinque minuti, mettendo le sue mani esperte sul motore, usando attrezzi di cui Andrew non conosceva il nome, e poi salendo in macchina e provando ad accenderla, ma niente da fare.
"È entrata acqua nel filtro dell'aria e nel motore" spiegò. "Purtroppo è necessario cambiarli entrambi, perché non sono riparabili."
"Oh." Andrew era dispiaciuto e abbattuto. "Non posso credere che a causa di un violento temporale sia successo tutto questo casino!"
"Purtroppo a volte capita, signore."
"Quanto mi verrà a costare?"
"Circa quattromila dollari."
"Quattromila… Oh, Signore!" Dovette sforzarsi per non far uscire dalla sua bocca un'imprecazione. "D'accordo. Chiamerò l'assicurazione per capire se possono coprirmi alcune spese. La ringrazio molto e le affido la mia auto, la tratti bene."
"Stia tranquillo, tornerà come nuova!" lo rassicurò l'uomo, gentile.
"Quanto tempo ci vorrà?"
"Tra cambiare il motore, il filtro dell'aria e chiamare qualcuno che sostituisca il finestrino, direi tre settimane."
"Va bene."
Giusto, c'era anche la questione del vetro rotto, quindi avrebbe dovuto spendere altri soldi.
Andrew diede un ultimo sguardo al suo affezionato veicolo e poi se ne andò, a passo
lento.
Arrivò ad una fermata dell'autobus, comprò il biglietto e aspettò per dieci minuti buoni, con lo sguardo perso nel vuoto, senza pensare a nulla in particolare. Quando finalmente il bus arrivò, vi salì e fu sollevato nel constatare che era quasi vuoto. Una coppia di anziani era seduta in fondo, ma a parte loro non c'era nessun altro. Timbrò, si sedette su uno dei sedili davanti e si godette la corsa. Gli era sempre piaciuto andare in autobus o in treno, se non erano troppo affollati. Quei viaggi lo rilassavano. Dopo un quarto d'ora circa minuti prenotò la sua fermata e scese, prosegueneo a piedi fino a casa.
 
 
 
"Brava, Hope!" esclamò Demi battendo le mani.
La bambina era appena riuscita a costruire una piccola torre con dei cubetti di legno. Stava imparando che era più bello farla che distruggerla.
"Più alta, mamma" disse la bimba aggiungendo qualche cubo.
La ragazza raddrizzò la piccola costruzione, che rischiava di crollare visto che la bambina aveva cominciato a mettere i vari mattoncini in modo non perfettamente allineato. In ogni caso se la stava cavando davvero bene. Ce n'erano dodici impilati l'uno sopra l'altro.
Mackenzie, intanto, stava giocando con Batman. Il cane le portava una pallina che poi lei lanciava lontano, e lui correva a riprenderla. Poco prima si era divertita anche con Danny, facendo una piccola lotta con lui nella quale il gattino le aveva preso la mano con le zampe davanti e aveva iniziato a rasparla con le due dietro. Aveva lasciato vincere il gatto, ma in realtà sarebbe riuscita benissimo a liberarsi. Il cucciolo non era ancora così forte da tenerla ferma, ma pur di renderlo felice la bambina si era comportata come fanno gli adulti con i piccoli. Ora il micetto dormiva rannicchiato sul divano.
Quando anche Batman andò a riposare, Mackenzie corse nel cesto dei giochi e prese in mano uno scoiattolo.
"Ciao" gli disse. "Giochiamo!"
Andò a sedersi sul divano con il piccolo peluche fra le braccia e iniziò a coccolarlo. Demi sorrise. Era bello, pensò, che i bambini credessero che i giocattoli fossero animali vivi. In questo modo lasciavano libera la loro fantasia e creavano storie fantastiche. Anche una bimba cresciuta troppo in fretta come lei aveva tutto il diritto di farlo. Mac continuava ad accarezzare il morbido pelo marrone dell'animaletto, ma poco dopo prese la mano della mamma e gliela strinse forte. Demetria la guardò senza capire.
"Che c'è, tesoro?" le chiese.
La vedeva così seria. Che le stava accadendo?
Il mio animaletto si è ferito, mamma!
"Si è fatto male?" chiese la donna stando al gioco. "Fammi vedere."
Credeva che la piccola volesse solo giocare, invece guardando meglio si accorse che, effettivamente, il peluche aveva una zampa che si stava pian piano scucendo. Demi non capiva come fosse possibile. Forse una volta la bambina giocando gliel'aveva tirata troppo forte e questa si era rotta. Per fortuna il danno non era grave, sarebbe bastato qualche minuto con ago e filo per sistemare il tutto.
Ha tanto male, mamma! continuò Mac. Starà bene, vero?
Demi cercò di fare di tutto per non scoppiare a ridere a causa della troppa tenerezza di quella scena, e per fortuna ci riuscì, altrimenti Mac avrebbe potuto pensare che la mamma la stava prendendo in giro. Le diede un bacio sulla testina e la rassicurò subito.
"Tranquilla, ora lo curo. Me lo dai un attimo?" le chiese con dolcezza.
La bambina glielo passò e cominciò a osservare la madre che, preso l'occorrente, si sedette al tavolo del salotto a lavorare. Ci mise molto meno di quanto credeva, e dopo poco, riportò il peluche alla figlia.
"Ecco, ora è guarito. Sta molto bene, ma deve riposarsi, okay? Trattalo con dolcezza e non tirarlo, d'accordo?"
Va bene scrisse, decidendo di rimetterlo via in modo che potesse fare la nanna. Grazie, mamma! esclamò poi abbracciandola, mentre il suo bellissimo sorriso era tornato ad illuminarle il viso.
"Figurati, piccola!"
Mackenzie iniziò a pensare che quel giorno sarebbe andata da Padre Thomas, finalmente! Chissà cos'avrebbe imparato di bello su Gesù. Si domandava anche quando sarebbero state battezzate lei e Hope, ma immaginava ci sarebbe voluto un altro po' di tempo. Ad ogni modo, lei non aveva certo fretta. Rifletté anche sul fatto che, anche se era felice di non essere andata a scuola quel giorno, Elizabeth le mancava. Era l'unica amica che aveva, per il momento, e sperava se ne sarebbe fatti altri in futuro. Il giorno dopo sarebbe stato il quarto di scuola, quindi pregava che qualche altro bambino avrebbe iniziato a parlare con lei in quelli seguenti, non importava che fosse della sua classe o meno. Che cos'avrebbe raccontato alla psicologa il lunedì successivo? I giorni precedenti erano stati davvero complicati.
Mi piacerebbe andare nella casa dei miei genitori pensò. Forse, se lo facessi, potrei ricordare tutto quanto; ma non sono ancora pronta e poi non credo di volerci andare con la mamma o con il papà. Un giorno mi recherò là da sola.
Non si rese nemmeno conto di quel che si era appena detta, almeno non completamente. Non pensò al fatto che andarci da sola avrebbe significato scappare di casa, e che questo avrebbe fatto soffrire terribilmente Andrew e Demi, che sarebbero andati dalla polizia per denunciare la sua scomparsa. Eppure, anche se non lo disse mai a nessuno, quel pensiero restò annidato nella sua mente per tanti anni. Chissà se prima o poi si sarebbe trasformato in realtà…
Quando suonò il campanello la piccola sussultò. Quando entrava molto in contatto con se stessa, tornare alla realtà era sempre difficile. Nonostante lo spavento si alzò, guardò dalla finestra come la mamma le aveva insegnato a fare, e aprì vedendo che il papà era tornato. Quando l'uomo entrò in casa lo abbracciò forte.
"Wow, che fantastica accoglienza!" esclamò, dandole poi un bacio.
Si avvicinò a Hope e Demi e riferì a quest'ultima ciò che gli aveva detto il meccanico.
"Hai sentito l'assicurazione?"
"Sì, e purtroppo non copriranno le spese dell'auto. Non tutte le assicurazioni lo fanno e io appartengo a questa categoria di sfortunati."
"Oh mamma!" commentò la ragazza.
"Già, hai detto bene" rispose lui affranto. "Ora prendo gli esami che ho fatto ieri in ospedale e vado dal medico. Tu, intanto, potresti preparare qualche panino e un po' di biscotti, così avremo qualcosa da  mangiare quando saremo al parco."
"Sì, un picnic!" esclamò la ragazza.
Non ne faceva uno da secoli.
"Esatto. Sono solo le 10:00 e tu e Mackenzie avete degli impegni oggi pomeriggio, quindi abbiamo tempo."
"Giusto. Dai bambine, aiutatemi! trillò dirigendosi in cucina, mentre le piccole la seguivano.
Andrew, intanto, prese gli esami che aveva lasciato sul tavolo, salutò e uscì.
Demi tagliò alcune fette di salame e il pane e disse a Mackenzie di mettercelo dentro. La bimba fu molto felice di dare una mano alla mamma. Vennero fuori tre panini.
"Brava. Ora ne facciamo altri tre con lo spec, e poi per Hope un paio con il prosciutto, ma con il pane al latte che è più tenero."
Gliel'avrebbe diviso in pezzettini molto piccoli in modo che sarebbe riuscita a mangiarlo.
Hope si lamentava, infastidita forse dal fatto che a lei non veniva dato nessun compito. Quando ebbe finito il proprio lavoro, Demi la mise nel seggiolone e le diede una scatola di biscotti dopo averla aperta. Com'era prevedibile la bambina ne mangiò subito uno, e la ragazza cercò di non ridere.
"Amore, li mangeremo dopo. Adesso prendine un po' e mettili in questa scatola" le disse, dandogliene una con il coperchio.
Hope ubbidì, concentrandosi e svolgendo meticolosamente quel piccolo lavoretto. La mamma la teneva d'occhio e intanto avvolgeva i panini nella carta stagnola. Quando tutto fu pronto mise ogni cosa in un cestino da picnic e aggiunse quattro bottigliette d'acqua e qualche succo di frutta. Andò di sopra a prendere una grande coperta sulla quale si sarebbero seduti, poi mise un cambio di vestiti per le bambine in una borsa, per qualunque evenienza. Ora era tutto pronto.
"Okay, andiamo a vestirci ora" concluse, prendendo le sue figlie per  mano.
Faremo davvero un picnic, mamma? le chiese Mackenzie.
"Certo che sì!"
La bambina sorrise. Si vedeva che faticava a controllarsi, a contenere l'eccitazione. Scrisse che non ne aveva mai fatto uno e che era felice.
"Ripetilo, tesoro" sussurrò Demi.
Sono felice.
Mentre la mamma la abbracciava, Mackenzie pensò che aveva evitato di dire che si sentiva così in quel momento, e che non era sicura che avrebbe continuato a provare tutto ciò nei giorni a venire. Non voleva rovinare quella giornata, né a lei né alla mamma, così non scrisse nulla e si lasciò coccolare. Dal canto suo, Demi aveva il cuore che scoppiava di gioia. Era bello sapere che la sua piccola si sentiva felice. Pregò affinché quella sensazione durasse il più a lungo possibile.
 
 
 
Andrew entrò nello studio del suo dottore e vide che non c'era nessun paziente. Era strano, di solito a quell'ora l'ambulatorio era pieno.
"Beh, meglio" si disse.
Si sedette su una delle sedie e aspettò che la dottoressa aprisse la porta della stanza in cui si trovava per chiamare.
"Ah, c'è solo lei!" esclamò, uscendo proprio in quel momento.
"Già."
"Non aveva preso appuntamento con me lunedì prossimo, signor Marwell? Forse mi sbaglio, devo riguardare l'agenda."
Stava per rientrare quando lui la fermò.
"No no, non sbaglia affatto. È solo che ieri mi sono sentito male e sono finito in ospedale, e i medici mi hanno detto di venire qui il più presto possibile."
"Venga dentro" disse la donna, seria.
Era una signora sui quarant'anni, si vestiva sempre in modo elegante, aveva i capelli neri, lunghissimi, e gli occhi scuri ed era davvero molto alta, un metro e novanta o forse più. Ciò che colpiva Andrew era la sua espressione: sorrideva, ma si notava che doveva sforzarsi al massimo per farlo. Un anno prima non era così, aveva sempre un bellissimo sorriso che le illuminava il volto; suo marito era morto d'infarto una notte, e lei era rimasta sola con due bambini piccoli. L'uomo sapeva tutto ciò perché, essendo quella dottoressa molto rinomata, era uscita la notizia sui giornali. Lui non le aveva chiesto mai nulla riguardo la morte dell'uomo, né come stesse lei, né le aveva fatto le condoglianze, non per maleducazione, ma perché non aveva voluto farle ricordare qualcosa a cui, sicuramente, pensava già moltissimo e che la faceva soffrire. Avendo perso prima i genitori e da poco la sorella, l'uomo credeva di capire, almeno in parte, come si sentiva. Anche lui si sforzava di sorridere.
"Sì" disse, dopo essersi reso conto che era rimasto lì fermo per due minuti buoni. "Scusi, avevo la testa da un'altra parte."
"Non si preoccupi."
L'uomo si accomodò su una sedia di fronte ad un grande tavolo sul quale si trovavano un computer, un telefono, alcune scartoffie e altri oggetti che però non catturarono la sua attenzione. Il medico si mise davanti a lui.
"Le ho portato gli esami che ho fatto ieri in ospedale" disse Andrew. "Ci sono anche scritti i farmaci che mi hanno dato."
"Vediamo. Intanto mi racconti come si sente in questo periodo."
"Ho avuto due attacchi di panico molto violenti, uno ieri e l'altro la scorsa settimana, e poi ho spesso mal di testa e mi tremano le mani."
"Come mai, secondo lei, si è sentito così?"
"Per quanto riguarda il primo, perché ero a casa e pensavo a mia sorella, e ad un certo punto non ce l'ho più fatta a stare lì con tutti i ricordi che avevo di lei, così sono scappato fuori e sono andato a casa di Demi, la mia fidanzata. Quello di ieri… non saprei. È arrivato all'improvviso."
"Le è mai successo di sentirsi male in ufficio, al lavoro?"
"Qualche volta, ma niente di che."
"E le mani le tremano solo in certe situazioni, per esempio quando fa qualcosa in particolare, oppure le è capitato anche quando stava guidando? Per gli attacchi di panico invece, le è successo di averli in macchina?"
"I tremori vengono all'improvviso, a volte quando non sto facendo nulla, altre mentre sono in ufficio e sto scrivendo al computer o comunque lavorando, il mal di testa invece ce l'ho molto spesso, certi giorni no ma altri dura tutto il giorno. A volte viene dopo le crisi epilettiche, quei flash luminosi che vedo. Ci sono ancora, sa. Gli attacchi di panico arrivano quando penso a mia sorella molto intensamente, oppure senza un apparente motivo come è accaduto ieri."
La donna lo guardava attentamente mentre gli parlava. Vedeva che respirava in modo un po' irregolare, e che anche se la sua voce era calma, lui pareva irrequieto. Forse non se ne rendeva conto, magari in quel momento era una cosa inconscia, come lei sospettava, ma quel suo stato d'ansia non le piaceva per niente. Aveva le pupille dilatate e continuava a contorcersi le mani. Stava soffrendo molto per la morte della sorella e, di certo, gli attacchi di panico, l'ansia e le crisi epilettiche, per quanto lievi, non lo aiutavano per niente. A peggiorare tutto c'era il mal di testa.
"Per le crisi e il mal di testa dovrebbe andare da un neurologo, in ospedale" iniziò, continuando a guardarlo. "Se l'emicrania è dovuta alle crisi, potrebbe trattarsi di emicrania con aura. È un tipo di mal di testa che, diciamo, la avvisa che sta per avere delle crisi, e che può durare anche giorni o settimane. Ma di solito è associato a nausea o vomito e ad altri disturbi che lei non ha, quindi ritengo poco probabile che ne soffra. Inoltre ritengo che i farmaci per gli attacchi di panico vadano cambiati. Il tremore alle mani e l'emicrania sono segni che non sono i farmaci giusti, non perché sono troppo forti, ma perché il suo corpo non riesce ad accettarli. Potrei dirle di aspettare e che gli effetti collaterali forse passeranno nelle prossime settimane, ma visto come si è sentito ultimamente non credo sia il caso che lei continui ad assumerli, perché penso le stiano facendo più male che bene."
"Quindi?"
"Senta, io le scrivo due righe per il neurologo dal quale lei andrà, dopo aver fatto gli esami del sangue che le indicherò e che dovrà portargli. Può essere che non le aumenterà gli antiepilettici, ma è meglio fare un controllo. Prima dovrà anche sottoporsi ad un elettroencefalogramma, come sto scrivendo proprio ora, tutto questo in ospedale. Dopodiché, visti tutti gli esami, il neurologo le farà delle domande e saprà cosa dirle. Per quanto concerne il resto, io cambierei farmaco e anche principio attivo. Il Daparox, e quindi la paroxetina, non la sta aiutando. Lo faccio solo se lei è d'accordo, però."
"Se pensa che potrebbe essermi d'aiuto cambiare terapia sì, voglio provarci" rispose.
La donna rifletté per qualche attimo. Gli esami del sangue erano a posto, Andrew non aveva problemi alla tiroide, ai reni o patologie cardiache.
"Le prescrivo il Carbonato di Litio. Non è propriamente un antidepressivo. È un sale, che però serve a risollevare il tono dell'umore, a sentirsi meno giù, a diminuire i pensieri suicidi o il desiderio di farsi del male. So che è da molto che a lei non succede, glielo do soprattutto per l'umore infatti. Viene usato anche nella cura della depressione, di solito di quella bipolare ma non solo.”
“Alt, alt, alt!” Andrew la interruppe alzando anche una mano, prima che lei potesse dire altro. “Non avevamo mai parlato di depressione, solo di attacchi di panico!” si allarmò, mentre un nodo gli serrava lo stomaco.
Era anche depresso, ora? Avrebbe dovuto considerarsi malato?
“Mi ascolti, il Litio è un valido stabilizzatore dell’umore. La farà stare meglio. Prima di assumerlo dovrà diminuire il Daparox, prendendo mezza compressa per una settimana, poi passerà all’altra, prendendone una da centocinquanta milligrammi la sera. È un farmaco piuttosto forte quello che le ho appena prescritto, perciò le sto dando la dose minima per il momento. Un dosaggio troppo basso, però, può non dare effetti e uno troppo alto provocare problemi ai reni e alla tiroide, per cui bisogna stare attenti con le dosi perché può essere pericoloso. Inoltre l’antiepilettico che lei assume va in contrasto con il Litio perché tende ad eliminarlo dal sangue perciò bisogna tenere controllata la situazione. Tra una decina di giorni dovrà fare un esame del sangue per misurare il valore del Litio. Se sarà basso dovrà aumentare il dosaggio prendendo un’altra pastiglia la mattina o forse più di una, ma questo lo decideremo. Non faccia nulla da solo, mi raccomando. Prima venga a parlarne con me e mi porti gli esami del sangue. Per quanto riguarda il Lexotan, quanto ne assume?"
"A volte un milligrammo e mezzo, ma più spesso tre" ammise.
"Allora le do direttamente la pastiglia da tre. Se si sente male può prendere fino a tre compresse al giorno, ma solo nel caso in cui l'ansia sia davvero fortissima. Tra un mese lei verrà qui e mi dirà come va, o se si sentirà male anche prima, d'accordo?"
"Va bene."
Andrew si fidava di quel medico. Era competente e non dava di certo farmaci a mani basse. Tuttavia era abbattuto. Non solo gli aveva cambiato farmaco, ma gli aveva anche aumentato il dosaggio. Forse avrebbe dovuto aspettarselo, visto come si era sentito ultimamente. Sperava che sarebbe riuscito a controllare meglio la propria ansia, ma così non era stato.
"Come vanno gli incontri con la psicologa?" gli chiese il medico mentre stampava ciò che aveva scritto.
"Sto cercando di affrontare i miei problemi e, anche se non mi sento molto bene, credo di potercela fare" rispose, più deciso di quanto avrebbe voluto.
"Questo è lo spirito giusto! Ecco a lei: il foglio con le informazioni per il neurologo e quello con il nome del medicinale."
"Perfetto, la ringrazio. Ci sentiamo presto, allora."
"Sì, e tanti auguri! Continui così, lei è forte. La forza di volontà è la prima cosa che ci aiuta, nella vita."
"Grazie" le rispose sorridendo, poi uscì. "Cristo" mormorò una volta fuori.
Per fortuna aveva un'assicurazione sanitaria che gli copriva tutte le spese mediche, altrimenti chissà quanto gli sarebbero venuti a costare i farmaci e la visita che aveva appena fatto. Tuttavia, non era quello il motivo per cui aveva detto tale parola. La giornata era iniziata davvero male: prima il disastro dell'auto, e adesso l'aumento dei farmaci.
Sbuffò. Beh, come aveva detto se prenderli avrebbe potuto aiutarlo, di certo non si sarebbe tirato indietro, ma da quaranta milligrammi a centocinquanta c'era una bella differenza. Inoltre, lo inquietava il fatto che la dottoressa non fosse stata chiara. Non aveva affermato, né negato che lui soffrisse di depressione. La cosa non gli pareva affatto corretta e professionale e mentre camminava si sentì infastidito, quasi arrabbiato. Avrebbe voluto tornare indietro, precipitarsi nel suo studio e urlarle di dargli delucidazioni, che lui ne aveva il diritto e che era suo preciso dovere fornirgliele. Prese alcune lunghe boccate d’aria per allontanare da sé quel proposito e per fortuna funzionò. Forse, si disse, la donna non aveva voluto allarmarlo e desiderava essere sicura prima di dirgli qualsiasi altra cosa. Se da una parte lo riteneva comunque sbagliato, dall’altra si disse che avrebbero chiarito a breve. Eppure, la domanda:
“Soffro di depressione?”
continuò a ronzargli in testa. Andò in farmacia a prendere le pastiglie e poi si diresse a casa.
 
 
 
Quando rientrò, Hope gli saltò al collo.
"Picnic!" esclamò.
Non sapeva cosa significasse quella parola, ma tutti sembravano felici quindi lo era anche lei.
"Sì, amore, facciamo un picnic. Sei contenta?" le chiese il papà arruffandole i capelli.
"Sì, tanto!"
"Andremo in un posto bellissimo, vedrai."
"Eccoci" disse Demi uscendo dalla cucina. "Noi siamo pronte e abbiamo preparato questo" continuò mostrandogli il cestino.
"Fantastico!"
"Pensavo di portare Danny e Batman con noi, con il guinzaglio. Tra le varie cose che abbiamo comprato ce n'è anche uno per il gatto, per quando inizierà ad andare fuori, e pensavo che magari uscire un po' con noi potrebbe fargli bene."
"Non è una cattiva idea, amore. Non ci avevo pensato!"
Fu così che Demetria sollevò il gattino, che iniziò a fare le fusa, e lo mise nel trasportino, poi prese in braccio Batman, mentre Andrew faceva salire in macchina le bambine, metteva la borsa e il cestino nel bagagliaio e prendeva i due guinzagli.
"Perfetto, possiamo andare allora!" esclamò.
Demi prese una coperta che avrebbe voluto distendere nel prato, poi uscì.
Una volta in macchina, Andrew raccontò alla fidanzata quel che gli aveva detto il dottore. Anche lei ci rimase male quando sentì che il suo ragazzo avrebbe dovuto prendere più medicine, ma d'altro canto sapeva che quella dottoressa era brava e che lui ne aveva bisogno, quindi non disse niente per non farglielo pesare. Non voleva che si sentisse in colpa per
nulla. Espresse i suoi dubbi, gli stessi che aveva lui e lo incitò molto a chiarire fin da subito la questione.
“Scrivile una mail adesso.”
“No, voglio godermi questa giornata e basta.”
Lo pregò di farlo il giorno seguente, ma conosceva abbastanza bene Andrew da sapere che purtroppo si sarebbe fatto bloccare dall’ansia e avrebbe aspettato il prossimo appuntamento. Cercò di capirlo, anche se non ci riuscì del tutto. Non sapeva se sarebbe stato giusto insistere o meno. Non l’aveva mai forzato a fare nulla, ma in quel caso si trattava di conoscere qualcosa sulla sua salute. Aprì la bocca per parlare ma non ne uscì alcun suono, così decise di lasciar perdere almeno per il momento.
Andarono fuori città e parcheggiarono la macchina vicino ad un grande parco in cui, da quel che Mackenzie poteva vedere, si trovavano molti alberi dei quali non conosceva il nome e anche tante panchine e qualche tavolo. Quella mattina non c'era nessuno lì, ma la bambina pensò che, probabilmente, nei weekend il posto doveva essere piuttosto affollato.
"Ho pensato che sarebbe stato più bello sederci per terra" disse Demi, "ma bisogna vedere se l'erba è ancora troppo bagnata."
Perché non aveva riflettuto prima sul fatto che il giorno precedente era piovuto e grandinato? Ogni tanto era proprio distratta. Era molto bagnata, difatti, quindi decisero di sedersi su una panchina e godersi quella bella giornata. Il sole splendeva alto nel cielo accarezzando i loro visi con i suoi raggi. Anche se sarebbe stato più bello sdraiarsi sul prato, l'importante era stare all'aria aperta. Si accomodarono su una panca che si trovava accanto a un albero, Demi fece uscire il gatto e lo attaccò subito al guinzaglio che poi assicurò alla tavola in modo che non scappasse, ed eseguì la stessa operazione con Batman. I due guinzagli non si stringevano attorno al collo degli animali, bensì circondavano loro il busto. Demi li aveva scelti apposta così, perché aveva sentito di cani che si erano strozzati con quegli aggeggi. I quattro si guardarono intorno. In primavera quel luogo doveva essere pieno di fiori, pensò Mackenzie. Tuttavia, non le dispiaceva non vederli. Il profumo fresco dell'erba bagnata le era sempre piaciuto, le trasmetteva un senso di pace e libertà, e il canto degli uccellini rallegrava l'atmosfera. Rimasero tutti e quattro immobili per un tempo indefinito, godendosi i suoni della natura. Persino Hope, che vista la sua età era una bimba piuttosto vivace e alla quale piaceva muoversi e fare sempre qualcosa, era incantata. Per lei il vento che muoveva i rami degli alberi, le foglie che iniziavano a cadere, i fili d'erba che, grazie all'acqua e alla luce del sole sembravano brillare, erano cose meravigliose. Certo, le aveva osservate tante altre volte, ma ora che era più grande ci prestava un'attenzione particolare. Demi vedeva quant'era concentrata a guardarsi attorno e notava che la sua curiosità cresceva secondo dopo secondo. Anche Batman osservava tutto quanto con attenzione, e drizzava le orecchie al più piccolo rumore che sentiva e Danny faceva lo stesso, anche perché lui non era quasi mai stato all'aria aperta, quindi era ancora più concentrato. I guinzagli erano molto lunghi, quindi gli animali potevano muoversi con una certa libertà. Annusavano il terreno e giocavano con i fili d'erba.
Hope si alzò e corse poco distante dai genitori.
"Lalla!" esclamò. "Lalla!"
Nessuno capì che cosa intendesse all'inizio, poi la mamma notò che stava inseguendo una farfalla la quale, ovviamente, continuava a volare via.
"Non ti allontanare troppo, amore" le disse solo, poi lasciò che corresse felice.
A quelle piccole corse si unì anche Mackenzie, e le due bambine cominciarono a rincorrersi. Una scappava e l'altra la prendeva e viceversa. Ad un certo punto Mackenzie si nascose dietro un albero, e Hope poco dopo la trovò, poi i ruoli si invertirono.
A cosa giochiamo? chiese Mackenzie ai genitori. Possiamo fare qualcosa tutti insieme?
"Ho portato una cosa che forse potrebbe piacere a tutti" disse Demi, tirando fuori dalla borsa un piccolo oggetto rotondo che a Mac non ricordava nulla di familiare. "Si chiama frisbee. È un gioco con delle regole, visto che è un vero e proprio sport, ma io non le conosco" ridacchiò. "Comunque, potremmo dividerci in due squadre e lanciarlo, e ognuno dovrà cercare di schivare i colpi."
Chi vince? chiese la bambina.
Non sapendo nemmeno una regola del frisbee, Demi rispose la prima cosa che le venne in mente:
"Vinciamo tutti! Dovremo provare a schivare più colpi possibili!"
Hope non aveva capito molto, ma quel gioco sembrava divertente. Demi si alzò, la prese per mano e le due si posizionarono al centro del prato, mentre Andrew e Mackenzie si misero ad alcuni metri da loro. La ragazza lanciò il frisbee facendogli fare una rotazione in modo da dargli lo slancio iniziale, e questi volò verso Andrew che, purtroppo, non riuscì a schivarlo in tempo e ricevette un colpo in pancia.
"Ahi!" esclamò ridendo, visto che in realtà non si era fatto niente.
Lo tirò alla fidanzata che, invece, si spostò con agilità e il frisbee cadde a terra.
"Ce l'ho fatta!" urlò.
"La prossima volta ti colpirò, stanne certa!" le rispose il fidanzato, fingendo una voce minacciosa.
Sorrise a Mackenzie per farle capire che stava scherzando. Non voleva che il tono da lui usato le facesse ricordare cose brutte.
Hope raccolse il frisbee, tirò indietro la mano e lo lanciò verso la sorella, che venne colpita su una gamba. Mackenzie glielo tirò indietro, facendo attenzione a non colpirla in viso, ma Hope fu svelta e riuscì a schivarlo.
"Brava, amore!" esclamò la mamma. "Si tira così, guarda."
Hope osservò i suoi movimenti e, poco dopo, riuscì ad imitarla.
"Questa piccina impara in fretta" disse Andrew.
Continuarono a giocare per diverso tempo, ridendo teneramente quando qualcuno veniva colpito, e applaudendo nel momento in cui accadeva il contrario. A un tratto Demi tirò il frisbee verso destra e Batman lo prese con la bocca, correndo poi verso di loro per riportarlo. Non riuscì a raggiungerli - il guinzaglio non era così lungo -, ma fu molto felice quando la padrona glielo ridiede. Anche Danny lo prese tra le zampe, una volta, così i quattro decisero di coinvolgere anche gli animali in quel gioco. Avrebbero voluto liberarli, ma temevano che il gattino sarebbe scappato, quindi si dissero che non era il caso. Danny e Batman erano così felici di prendere il frisbee e riportarlo ai padroni! Il gattino continuava a miagolare e il cane abbaiava ed entrambi saltavano.
"Non ho mai visto un gatto che riporta un gioco!" esclamò Demi stupita.
Passarono così circa un'ora tra risate, corse e giochi, e quando si fermarono per fare una pausa e mangiare non si sentivano affatto stanchi, anzi. L'aria aperta stava facendo bene a tutti ed essere lì, insieme, a divertirsi li aveva messi di buonissimo umore. Mentre mangiava i suoi panini, Mackenzie dava dei pezzettini di affettato al cane e al gatto, che i due divoravano subito.
Mamma, guarda là in fondo! scrisse ad un tratto, quando tutti ebbero finito il pranzo.
Demi prese il foglio e lesse, poi vide che la bambina stava indicando qualcosa con il dito.
"Wow, ci sono…"
"Giostre! Giostreeeeee!" urlò Hope felice.
Demi ed Andrew non le avevano viste prima probabilmente a causa di alcuni alberi che bloccavano loro la visuale. Guardando meglio, notarono che al di là di una piccola fila di piante si trovava un prato in cui c'erano due panchine e varie giostre, tra cui alcune altalene, uno scivolo, due cavallini a dondolo e molto altro ancora.
"Quando venivamo noi non c'erano, uffa!" si lamentò Andrew, come avrebbe fatto un bambino.
Demi rise, intenerita da quell'esclamazione, ammettendo che era la stessa cosa che aveva pensato lei.
"D'accordo," disse poi, "andiamo sulle giostre."
Slegarono il cane e il gatto, i quali corsero sotto gli alberi a fare i bisogni. Demi li seguì, più che altro per controllare che Danny non scappasse via, cosa che cercò di fare infatti.
"Sapevo che avrei dovuto lasciargli il guinzaglio" si disse, ma ormai era fatta.
Immaginava che il micio non si sarebbe sentito a proprio agio nel fare i bisogni stando comunque legato, per questo le era venuto spontaneo lasciarlo libero. Lo chiamò varie volte, seguendolo, mentre lui correva via e Mackenzie, che li guardava, sentiva il suo cuore iniziare a battere forte e le gote andare in fiamme. Cosa sarebbe succeso se il micio fosse andato in strada? O se non fossero più riusciti a trovarlo? Non poteva perderlo! Lo amava troppo, non avrebe sopportato una cosa del genere. Sentiva gli occhi pizzicare. Presto avrebbe pianto, ne era sicura.
Hope intanto si era messa a urlare, capendo che la situazione era improvvisamente cambiata, e Andrew cercava di tenere buono Batman, che tirava il guinzaglio come un matto perché voleva inseguire Danny.
Quando il gatto si nascose sotto una panchina, Demi si avvicinò camminando pianissimo, e cercando di fare il meno rumore possibile. Si chinò con una lentezza quasi esasperante, mentre era sempre più preoccupata al pensiero che, se non fosse stata attenta, sarebbe potuto succedere qualcosa a Danny. Se così fosse stato non solo lei non se lo sarebbe mai perdonato, ma molto probabilmente Mackenzie l'avrebbe ritenuta, a ragione, responsabile. Allungò le mani e riuscì a prenderlo, ma il gatto iniziò subito a dimenarsi per scendere.
"Non posso lasciarti libero qui, piccolo. Mi dispiace" sussurrò.
Andò verso Andrew e le bambine, che intanto si erano spostati, con il cane, sul prato con le giostre. Dopo essersi assicurata che gli animali non potessero scappare Demi si mise lì accanto ad accarezzarli, soprattutto per tranquillizzare il micetto che appariva nervoso. Povero, in fondo lui voleva solo correre. Per quanto avrebbe desiderato portarlo a casa, in modo che potesse divertirsi lì dentro, non voleva togliere alle sue figlie un altro po' di gioco. Hope era su un'altalena e il padre la spingeva su e giù, mentre Mackenzie saliva e scendeva dallo scivolo.
"Più alto, papà!" gridava la più piccola, e l'uomo obbediva facendo ridere sempre più la bambina.
Demi rimaneva un po' in disparte e li guardava sorridendo. Danny iniziò a fare le fusa e, poco dopo, si addormentò. Dato che la situazione si era calmata, la ragazza decise di andare dal fidanzato.
"Come sta andando?" gli chiese.
"Benissimo! Sei stata grande a riprendere Danny. Qualcuno dovrebbe assumerti come… non lo so, recupera gatti o qualcosa del genere."
Demi ci mise qualche secondo, poi scoppiò a ridere seguita dal suo ragazzo, che poco dopo continuò:
"Insomma, guarda quello che hai fatto per Chloe e per me! Se non ci fossi stata tu, non  so cosa…"
Andrew non riuscì a terminare la frase. Si rabbuiò ricordando la terribile angoscia che aveva provato quel giorno maledetto.
"Ehi, ehi, ascoltami. Io c'ero, l'abbiamo cercata insieme, e anche tu hai fatto tutto il possibile. L'abbiamo ritrovata e ora sta bene, è questo l'importante."
"Hai ragione."
Demi gli diede un delicato bacio sulla guancia e lui ricambiò.
"Papà, basta" disse Hope, per fargli capire che era stanca di andare in altalena.
"Va bene principessa, cosa vuoi fare?"
La bambina non rispose e continuò a guardarsi intorno. Osservò la sorella che, intanto, continuava ad andare sullo scivolo.
"Hope, ti faccio vedere una cosa!" esclamò Demi.
Andò su un'altalena, una di quelle per i bambini più grandi, e ci si sedette iniziando a dondolarsi avanti e indietro. Fece cenno ad Andrew affinché si accomodasse in quella vicina.
"Non ci penso proprio" dissentì lui.
"Dai, per favore! È bello tornare bambini ogni tanto" disse la ragazza ridendo.
"Non so nemmeno se ci sto; e poi che succede se la rompo?"
"Non accadrà."
"Come fai ad esserne tanto sicura?"
"Sono resistenti. Coraggio, vieni!"
Alla fine l'uomo si lasciò convincere. In effetti ci stava appena su quella giostra, ma non gli importava. Iniziò a dondolarsi anche lui, ma più piano di Demi.
Dio, da quanto non lo facevano!
"Una volta ero io a spingerti, ricordi?" le chiese, poi si alzò, le andò dietro e iniziò a farlo.
"Certo che sì! Mi sentivo felice come adesso" rispose la ragazza, con lo sguardo sognante perso nel vuoto.
"Anch'io, anzi, ora mi sento ancora più felice. Sai perché?"
"No."
"Beh, perché adesso ti amo, e tu e le bambine siete la cosa più bella della mia vita! So che te l'ho detto tante volte, Demi, e non vorrei stancarti, ma…"
"Non lo fai" mormorò lei commossa. "Ogni volta che sento queste parole, è come se fosse la prima. Ti amo anch'io, e anche tu per noi sei la cosa più bella."
Hope e Mackenzie, vedendo la mamma sull'altalena, scoppiarono a ridere. Poco dopo, però, non li guardarono più, così Demetria scese dall'altalena, si avvicinò al suo ragazzo e lo baciò. Fu un bacio intenso e lento, che sapeva di amore e felicità.
"Siamo tutti così contenti" sussurrò Andrew. "Sarebbe bello restare qui per sempre."
"Già" concordò la ragazza.
Avrebbero adorato rimanere lì, in un piccolo universo fatto di gioia, in una specie di bolla che, per il momento, li stava proteggendo dal mondo e dalla vita, troppo spesso crudeli e ingiusti. Purtroppo, però, quello era solo un bellissimo sogno, che non si sarebbe mai potuto realizzare.
"Beh, potremmo venire ancora" propose l'uomo. "Niente e nessuno ci impedisce di tornarci qualche fine settimana."
"Sarebbe bello!" esclamò Demi, come trasognata.
"Guarda, amore, c'è un pezzo di prato che non è più bagnato come prima. Potremmo distenderci la coperta che hai portato e metterci tutti e quattro lì."
Demi domandò alle bambine se erano d'accordo e tutte e due corsero subito dai genitori. Si sdraiarono l'uno accanto all'altro, godendosi la brezza leggera che da poco aveva cominciato a soffiare. Il sole si era nascosto dietro una nuvola, quindi non faceva troppo caldo. Si stava davvero bene.
 
 
 
Mamma, ci racconti una favola? chiese Mackenzie.
Non glielo domandava praticamente mai, si riteneva un po' grandicella per quelle cose, ma quel giorno ne aveva voglia.
"D'accordo, ma non me ne viene in mente nessuna, al momento" disse la ragazza riflettendoci. Avrebbe voluto essere come sua mamma: lei si inventava sempre tante belle storie per far addormentare le sue bambine, aveva una fantasia davvero fervida. "Non ricordo nessuna di quelle che mi raccontava la vostra nonna, purtroppo. Non importa, ve ne dirò una di quelle che si raccontano di solito ai bambini. Ne avete una preferita?"
Solo in quel momento la ragazza si rese conto che, anche se le sue bambine erano con lei da più di un anno, non sapeva ancora quel che aveva appena domandato. Era assurdo. Come mai non aveva mai chiesto quella cosa alla bambina?
Mackenzie ci pensò un momento. Non ne aveva una che le piaceva in particolare. "Biancaneve"? No, no, la vera mamma della ragazza moriva e lei non voleva che questo le facesse tornare in mente la sua, di madre; e poi la matrigna era così cattiva! "Cenerentola"? Anche per quella favola valeva lo stesso discorso. Uffa, ma perché nelle storie tutti i genitori dovevano morire? Era talmente assurdo e triste!
Hope non rispondeva nulla. Probabilmente non conosceva il titolo di nessuna favola, ma Mackenzie si disse che li avrebbe imparati presto.
Cappuccetto rosso! esclamò infine, contenta di averne trovata una che andasse bene.
 
 
 
Demi sorrise. Era felice che la sua piccola le avesse chiesto di raccontarle una storia, così prese un profondo respiro e cominciò.
"C'era una volta una bambina che viveva con la sua mamma in una piccola casetta…"
"Papà dov'è?" chiese Hope.
"Non c'è, tesoro" le disse Andrew.
"Perché?"
La favola non lo raccontava, ma lui e Demi immaginavano che o se ne fosse andato, o fosse morto.
"Non lo sappiamo, piccola. Diciamo che è andato via per qualche giorno per, ehm, per trovare lavoro in città, okay?"
Demetria sperò che Hope si accontentasse di quella risposta.
"Dopo torna?"
"Sì, certo! Allora, dicevo, stavano in questa casetta, e sia la mamma che la nonna della bambina le volevano molto bene. Quest'ultima, quando poteva, le faceva dei regali, ma un bel giorno non seppe più cosa portarle, così le fece un cappuccetto di velluto rosso, e da allora la piccola venne soprannominata Cappuccetto rosso. Un giorno la nonna si ammalò, e la mamma chiese alla bambina di andare a portarle un cestino con qualcosa da mangiare e a farle un po' di compagnia."
La mamma continuò a raccontare, mentre le bambine ascoltavano in silenzio. Rimanevano immobili e concentrate sul racconto. Continuavano a guardarla negli occhi e a sorridere quando cambiava voce per fare tutte quelle dei vari personaggi. Anche Andrew, nonostante fosse adulto, la stava a sentire come rapito. Quando Demi terminò, i tre la applaudirono.
L'applauso più bello del mondo pensò la ragazza, ricordandosi che aveva fatto lo stesso pensiero quando, molti mesi prima, Mackenzie l'aveva applaudita dopo che lei aveva cantato "Skyscraper".
Rimasero qualche minuto in silenzio, a guardare le poche nuvole bianche che si vedevano in cielo, poi Andrew disse:
"Piccole, conosco un giochino che potrebbe farvi divertire moltissimo! Tranquille, non dovrete correre come prima." Guardò Demi e sussurrò: "Te lo facevo sempre, quand'eri piccola."
La ragazza non capì a che cosa stesse alludendo, ma dopo qualche secondo ricordò e sorrise apertamente.
"Mi piaceva un sacco" commentò.
Ci sono delle regole?  chiese Mac.
"No, ci si diverte e basta. Una di voi due deve alzarsi."
Fu Mackenzie a farlo.
"Bene," disse Demi, "allora cominciamo con Hope."
I genitori fecero combaciare i bordi della coperta in modo che la bambina fosse chiusa lì dentro, come in una specie di involucro, poi la sollevarono leggermente e la fecero dondolare prima piano, poi un po' più forte. La piccola, intanto, rideva come una pazza, rimanendo quasi senza fiato.
Poco dopo fu Mackenzie a provare quel gioco, e anche lei ebbe le stesse reazioni. La sua risata argentina fece sciogliere il cuore dei genitori. Era così bello sentirla ridere, udire la sua voce anche se solo attraverso quel suono!
Poco dopo decisero di tornare a casa. Le bambine sembravano stanche, e anche i genitori sentivano il bisogno di riposare.
 
 
 
Demi si trovava nello studio di Catherine da qualche minuto. Le aveva raccontato della bella mattinata che aveva passato con la sua famiglia e detto che Mackenzie si era divertita.
"Ora dov'è?" le chiese la donna.
"Con Andrew da Padre Thomas, per le lezioni di catechismo."
"Capisco. Quindi, in sostanza sta passando una bella giornata."
"Sì."
"Ne sono felice." Quella bambina si meritava un po' di tranquillità. "Com'è andata la visita in ospedale?"
"Mi è stato detto di darti questo."
Demi le passò il foglio sul quale lo psichiatra aveva scritto qualche riga per spiegare la situazione della piccola. Catherine lo lesse con attenzione, poi sussurrò, forse parlando più a se stessa:
"PTSD, quindi; come sospettavo. Mac come l'ha presa?"
"È spaventata, ma oggi sembra aver messo quei pensieri da parte."
"Bene. È importantissimo che riesca a distrarsi. Gli esami dunque sono andati bene?"
"Sì, fisicamente non ha nulla. Ora come intendi procedere?"
"Vediamo se, continuando a portare i giocattoli e a parlare di loro, riuscirà a ricordare qualcos'altro. Mi aveva detto che associava l'ansia ad un mostro, e vorrei che lo disegnasse, in modo da capire come se lo immagina; e poi ovviamente se preferirà parlare potrà farlo, come sempre. Vorrei unire il gioco e il disegno al dialogo. Mackenzie deve giocare e disegnare come ogni bambino, ma ha anche tanto, tantissimo bisogno di esprimere i suoi sentimenti e le proprie emozioni a parole."
Demi si ritrovò d'accordo.
"Mi sembra così strano che oggi non sia successo nulla di brutto" commentò.
"Che intendi?"
"Ultimamente le cose non sono andate così bene. Inoltre, Andrew ieri si è sentito male."
"Cosa? Oh mio Dio!"
Catherine ora era allarmata. Impallidì leggermente e sbarrò gli occhi.
Demetria le raccontò tutto quel che era capitato.
"Immagino che le bambine si siano spaventate molto."
"Sì; e Mackenzie non ha voluto parlare di quello che aveva provato. Ci ha raccontato solo di un incubo che aveva fatto, ma non riguardava la situazione di Andrew."
La psicologa sospirò, sperando che la ragazza non la sentisse, poi cercò di nascondere la propria preoccupazione dietro un sorriso di incoraggiamento.
"Tranquilla, Demi, affronteremo tutto e Mackenzie ne verrà fuori. Con la sua forza di volontà in primis, e il vostro affetto e il mio aiuto poi, sono sicura che ce la farà e che lotterà finché non avrà ricordato, dovessero volerci anni. Si sistemerà tutto, okay?"
Catherine le stava parlando più come un'amica che come una psicologa. A Demetria non dispiacque affatto, ma non riuscì a non porle una domanda.
"Perché mi rassicuri così tanto? Sei davvero molto dolce con me, ed io lo apprezzo, ma perché?"
Catherine si fece improvvisamente serissima.
"Non posso parlarne. Non qui, non è professionale."
Non era solo seria, si disse Demi guardandola. Era anche triste, abbattuta. Cercava di non darlo a vedere, ma la ragazza notava il dolore sul suo viso, che sembrava ricoprirle gli occhi come un velo.
"Catherine, ti prego, parla!" la incitò Demi.
Capiva che la ragazza non volesse dire qualcosa che forse riguardava la propria sfera personale, e ammirava la sua correttezza, ma anche se non la conosceva molto, e se non poteva certo definirla una sua amica, Demi non sopportava di vedere quell'espressione addolorata senza sapere né perché stesse così, né se avrebbe potuto aiutarla in qualche modo. Catherine non l'aveva mai fatto, e quel giorno, per la prima volta, parlò con un genitore di un suo paziente di cose che non riguardavano la persona o la terapia. Si sentì in colpa nel pronunciare quelle parole, ma capì di averne un disperato bisogno, e lo fece.
"Quando…" iniziò, poi trasse un profondo respiro e  sfregò le mani sui pantaloni. "Quando ho scoperto di avere il cancro, e sono andata a New York per curarmi, stavo in una casa in affitto vicino all'ospedale. I miei genitori erano così preoccupati per me che, senza volerlo, mi trasmettevano la loro ansia. Li sentivo parlare, la notte. Dicevano cose del tipo:
"E se la terapia non dovesse funzionare? Se qualcosa andasse storto?"
Io, in camera mia, piangevo perché avevo una paura fottuta. Avevo fatto amicizia con una ragazza in ospedale, Angelique. Aveva origini francesi ed era più grande di me, aveva ventun'anni. Era una delle persone più dolci che io conoscessi. Siamo state amiche per un anno. Ci sostenevamo prima delle terapie, e anche dopo quando stavamo male. Se potevo, io andavo a casa sua o lei veniva da me, e comunque ci sentivamo al telefono tutti i giorni. Purtroppo la chemioterapia per lei non funzionò, e ad un certo punto si arrese. Disse che non voleva più curarsi. I suoi insistettero, parlarono con i medici, fecero di tutto ma Angelique fu irremovibile. Non ne poteva più, ed io la capivo. Avrei voluto arrendermi anch'io, tante di quelle volte! Non ne hai idea, Demi! Quando morì io soffrii tantissimo e per lungo tempo. Dolori del genere non passano mai, comunque. La cosa più triste e più brutta fu che, in tutto questo, i miei genitori non seppero rimanermi accanto nella maniera giusta. Pensavano così tanto al fatto che ero malata, alle cure e a tutto il resto, che non si rendevano conto che io avrei avuto bisogno di più abbracci, di sentirmi dire che ero bellissima anche se ero senza capelli, che non avrei dovuto odiarmi per il mio aspetto. Dovevo chiedere loro di abbracciarmi. Ti rendi conto?" La sua voce si stava spezzando, Catherine ne era consapevole, ma doveva terminare il discorso, arrivare al punto. Non poteva piangere, non in quel momento. "È a causa della chemioterapia se sono sterile. Ho fatto molti cicli ed è andata così. Comunque ora ho il mio bambino, sto bene e sono felice. Se ti dico tutto questo, è perché nei momenti più neri nessuno mi ha mai rivolto una vera parola di conforto, come:
"Sei forte, puoi farcela!"
Per cui, io ora lo dico a te, ad Andrew, a Hope e soprattutto a Mackenzie: potete farcela. Lo so che adesso ti sembrerà difficile, che sicuramente ti domanderai:
"Quanto ci metterà la mia bambina a guarire? Farò abbastanza per lei?"
Non so rispondere alla prima domanda, ma alla seconda sì: tu stai facendo tutto quello che puoi, io ne sono sicura, e anche Andrew. Okay?"
Demi scoppiò a piangere. Fece il giro del tavolo e abbracciò Catherine, stringendola a sé più forte che poteva.
"Avevo b-bisogno di q-queste parole" disse tra i singhiozzi, "di essere r-rassicurata."
"Lo so. Lo so, cara!" sussurrò l'altra con dolcezza.
Catherine lasciò che si sfogasse, che buttasse fuori il dolore e l'agitazione attraverso le lacrime, e sperò che in quel modo si sarebbe sentita meglio. La tenne stretta per dieci minuti, non lasciandola andare nemmeno un secondo. Pian piano il respiro di Demi si regolarizzò, e cominciò a tremare di meno, finché i singhiozzi e il pianto cessarono.
"Grazie" mormorò.
"Di nulla. L'ho fatto con il cuore!"
"Non ricordo se te l'avevo detto, non mi sembra, ma Mackenzie mi ha fatto alcune domande riguardo l'autolesionismo e l'anoressia."
"Sì, mi aveva detto di aver scoperto che Andrew aveva tentato il suicidio. Ha detto quell'espressione e io ci sono rimasta. Non credevo la conoscesse, ma mi ha spiegato che l'aveva sentita in un programma alla TV, e pian piano ha capito."
"Non avrei mai voluto che venisse a sapere tutto questo adesso. È troppo piccola" sospirò Demi.
"Lo so, ma ormai è capitato."
Non c'era nervosismo in quell'affermazione, anzi, Demi vi lesse comprensione e gentilezza.
"Ci si sono messi anche i giornalisti." Fu così che raccontò quanto era successo la settimana precedente. "È stato orribile, per lei" concluse.
"Lo posso immaginare. Ha parlato ancora di questo, con voi?"
"No, dice che non è pronta."
"Datele tempo. Non forzatela. Vedrete che quando lo sarà, vi porrà lei altre domande."
"Okay, seguiremo il tuo consiglio Catherine" le rispose Demi, grata per tutto il supporto che stava dando a tutti. "Lo stesso giorno in cui i giornalisti mi hanno praticamente attaccata ho anche rischiato di fare un incidente, ed io e Mac eravamo appena uscite dal tuo studio."
"Oh! Queste due settimane sono state particolarmente difficili, eh?"
"Sì, parecchio."
"D'accordo. Allora ci vediamo lunedì e, pian piano, risolveremo un problema alla
volta."
 
 
 
Quando, dopo qualche minuto, la ragazza se ne fu andata, Catherine accese il computer e aprì un file che conteneva i dati di Mackenzie e le prime valutazioni che la ragazza aveva fatto. Dopo ogni seduta, con lei e con gli altri bambini, prendeva appunti su quanto era stato detto, sulle reazioni dei piccoli e su tutto quel che riteneva importante, e nel momento in cui aveva una visione più completa d'insieme li sistemava. Aveva tempo, quindi decise di farlo con quelli riguardanti la bambina. Li rilesse e poi iniziò a scrivere.
 
Mackenzie Lovato:
sei anni, ha perso i genitori a causa di un omicidio. Il trauma che ha subito è stato così violento che la bimba  non proferisce parola da un anno e mezzo.
Prima in affidamento e poi adottata, la bambina presenta evidenti segni del lutto complicato, uniti ad una bassa autostima di se stessa. Sembra sminuirsi molto, anche quando fa dei progressi. Soffre di PTSD e di un forte stato ansioso. Una volta a casa ha manifestato rabbia, e a volte di notte è vittima di incubi a suo dire terrificanti nei quali ricorda dettagli di quanto accaduto quella notte. La sua mente ha attuato un meccanismo di difesa che le impedisce, però, di rammentare tutto.
A volte appare rilassata e contenta, anche durante le sedute, ma molto spesso è tesa, in allarme, soprattutto quando ha attacchi di panico violenti, e tende ad essere triste e malinconica. Ha paura di perdere i genitori adottivi, teme che l'assassino di quelli naturali possa farle del male e cerca di evitare le situazioni che le fanno ricordare l'omicidio. Prima di essere adottata temeva il contatto fisico, ma ora non più.
 
Quella era la perizia psicologica che, per ora, Catherine era riuscita a delineare. Non aveva ancora parlato con la bambina di ciò che le aveva fatto la sua prima madre affidataria, - avrebbe dovuto affrontare anche quel trauma con lei -, quindi non aveva scritto nulla a riguardo. Sospirò e si appoggiò meglio allo schienale della sedia mettendosi poi la testa fra le mani. Le faceva male. Era sempre così che si sentiva quando sistemava meglio ciò che aveva scritto sui suoi pazienti. Scrivere la aiutava a riflettere ancora di più sulle loro situazioni, e quello era l'unico momento in cui la psicologa poteva davvero lasciarsi andare alle emozioni, farsi toccare dai problemi di quei bambini, anche se solo per poco. Non era giusto che tanti bimbi soffrissero! Non sapeva se sarebbero guariti tutti, ma era riuscita ad aiutarne molti, in passato, che avevano terminato la terapia sentendosi finalmente bene, quindi avrebbe continuato a lavorare con quelli che seguiva adesso per dar loro tutto l'aiuto possibile. Non si sarebbe mai arresa come, ne era sicura, non l'avrebbero fatto loro.
 
 
 
Quella era la prima volta che Andrew accompagnava la figlia da Padre Thomas. Ci erano andati dopo aver lasciato Hope dalla nonna.
"Sono felice di conoscerti, caro!" esclamò il Parroco sorridendogli e facendo entrare entrambi nella stanza in cui svolgeva le lezioni di catechismo.
"Anch'io lo sono, Padre. L'avevo vista tante volte in chiesa, e mi ero anche confessato da lei, se ricorda."
"Sì, certo!"
L'uomo non aggiunse altro, ma avrebbe voluto dirgli che il giorno del funerale di Carlie non aveva potuto essere lui a celebrare la funzione a causa di alcuni impegni urgenti. Non voleva accuire il suo dolore, così decise di lasciar perdere.
"Come ti senti, figliolo?" gli chiese, sperando di non aver posto la domanda nel modo sbagliato.
"Non lo so. In certi momenti bene, in altri malissimo."
"Ci sono se hai bisogno di parlare. Sono sempre disposto ad ascoltare i miei parrocchiani."
Andrew non aveva mai parlato con un prete dei suoi problemi, ma gli rispose che, se avesse avuto bisogno, sarebbe andato da lui e lo ringraziò.
"Io resto qui fuori" disse infine, poi diede un bacio alla figlia e uscì. La vedeva tranquilla e a suo agio, quindi non aveva motivo di preoccuparsi. Quando si sedette, rifletté sul fatto che erano anni che non si confessava. Avfrebbe dovuto, prima o poi. Era necessario e giusto che andasse in chiesa a confessare di essersi tagliato per diverso tempo e di aver tentato il suicidio. Sarebbe stata durissima, ma voleva riuscirci. Desiderava essere perdonato da Dio, anche se sapeva che lui in realtà l'aveva già fatto, visto che Andrew si era pentito di quelle azioni.
"Non sono pronto" si disse. "Non ancora." Quella constatazione gli fece male al cuore, e non poco. Si vergognò da morire e si sentì in colpa. "Perdonami, Signore!" lo supplicò, poi iniziò a pregare.
 
 
 
"Mackenzie, scusami se non ti ho parlato subito."
Padre Thomas temeva che la piccola si fosse sentita messa in disparte, trascurata, e non avrebbe mai voluto darle l'impressione che fosse così.
Lei sorrise.
Stai tranquillo, va tutto bene. Anzi, sono felice che tu abbia parlato con il mio papà.
"Bene! Tu come ti senti?"
Era così gentile! Le chiedeva ogni volta come stava.
Questi giorni sono stati difficili. Io e la mamma abbiamo rischiato di fare un incidente con la macchina, ho ricordato qualcosa del mio passato mentre ero dalla psicologa, e ieri mio papà si è sentito male ed è finito in ospedale, e anche mamma non è stata tanto bene. Ieri, prima che tutto questo succedesse, ero andata in ospedale a fare degli esami e mi è stato detto che ho il PTSD.
Le pareva di aver fatto un buon riassunto della situazione.
"Mi dispiace. Non posso immaginare quanto tu sia stressata. Te la senti di fare lezione?"
Sì, certo!
L'entusiasmo della piccola rese felice Padre Thomas.
"D'accordo. L'ultima volta avevamo parlato dell'annunciazione da parte dell'Arcangelo Gabriele della venuta di Gesù e della sua nascita, di re Erode e dei pastori, ti ricordi?"
Lei annuì.
Il Parroco le parlò dei Re Magi, della Stella Cometa che li aveva guidati, dei doni che avevano portato a Gesù, e della successiva fuga in Egitto di Giuseppe, Marie e il bambino.
"Vedi, i Re Magi e la gente sapevano che lui era importante, persino Erode ne era a conoscenza. Gesù avrebbe potuto nascere ricco come un principe; e invece no, perché lui è sempre stato umile. Era un bambino come tutti gli altri. Agli uomini si è mostrato piccolo, indifeso, come tutti i bimbi del mondo."
Che belle parole pensò Mackenzie.
L'avevano colpita tantissimo. Erano profonde e facevano riflettere.
"Nei Vangeli c'è scritto che Gesù cresceva diventando sempre più sapiente, il che significa che imparava molte cose. A dodici anni, i suoi genitori lo portarono a Gerusalemme, com'era usanza a quei tempi, per la festa di Pasqua, e mentre stavano tornando a Nazzareth, non lo trovarono più. Erano molto preoccupati e ansiosi, e lo cercarono per tre giorni. Alla fine lo trovarono a Gerusalemme, nel tempio, dove stava interrogando e ascoltando i dottori. Quando gli chiesero come mai era sparito, e gli dissero di essere stati angosciati per lui, il bambino rispose che doveva occuparsi delle cose di suo Padre. Quest'ultimo era Dio, ovviamente."
Mackenzie ascoltava sempre più interessata, registrando tutte quelle informazioni. Era davvero bellissimo sentir parlare di Gesù.
Quando è diventato grande cos'ha fatto?
"È andato ad annunciare la parola di Dio alle persone. Andava di villaggio in villaggio per questo e faceva molta strada, ovviamente sempre a piedi, seguito dagli apostoli. La gente lo stava ad ascoltare, ma c'era anche chi gli era contro e non credeva in lui. Di questo parleremo più avanti. Oggi vorrei leggerti una parabola dal Vangelo di Luca, quella sui dieci lebbrosi."
Va bene.
Mackenzie non vedeva l'ora di sentirla.
"Innanzitutto, devi sapere che in questo piccolo racconto Luca dice che Gesù stava andando a Gerusalemme e stava attraversando la Galilea e la Samaria. Tra i Giudei, cioè gli Ebrei, e i Samaritani c'era un profondo odio, sia per ragioni storiche che religiose: i primi si consideravano il popolo eletto, mentre i Samaritani erano emarginati. I Giudei credevano che la loro fede fosse corrotta. Dunque, Gesù entra in un villaggio, e gli si avvicinano dieci lebbrosi, che come lui si stanno recando a Gerusalemme. Lo chiamano per nome, da lontano, dandogli anche l'appellativo "Maestro", e gli chiedono di avere pietà
di loro." Detto questo, il Parroco prese il Vangelo e iniziò a leggere: "Vedutili, egli disse loro: «Andate a mostrarvi ai sacerdoti». E, mentre andavano, furono purificati. Uno di loro vedendo che era purificato, tornò indietro, glorificando Dio ad alta voce; e si gettò ai piedi di Gesù con la faccia a terra, ringraziandolo. Or questo era un Samaritano. Gesù, rispondendo, disse: «I dieci non sono stati tutti purificati? Dove sono gli altri nove? Non si è trovato nessuno che sia tornato per dare gloria a Dio tranne questo straniero?» E gli disse: «Alzati e va'; la tua fede ti ha salvato»."
Come aveva già fatto, Padre Thomas fece qualche momento di pausa per dare a Mackenzie il tempo di riflettere su quanto aveva appena ascoltato.
Alla bambina quella parabola era piaciuta molto. Conteneva, come ognuno di quei racconti del resto, un messaggio molto bello, una lezione di vita in un certo senso. O almeno, lei la considerava tale.
Quindi, questa parabola insegna che è importante ringraziare Gesù, giusto? chiese, sperando di non aver sbagliato a capire.
"Esattamente, brava Mackenzie! Ringraziare Gesù è importantissimo, ma anche chiamarlo a gran voce come fanno i lebbrosi, cercarlo con tutte le nostre forze, confidargli le paure, i dolori, i problemi che abbiamo."
Perché Gesù non tocca i lebbrosi per guarirli?
"Lui sa bene che sono i Sacerdoti a dover verificare che la guarigione sia davvero avvenuta, le cose funzionavano così al tempo. Non li tocca perché riesce a guarirli lo stesso."
Come mai loro lo chiamano da lontano?
La bambina non riusciva proprio a capirlo. Insomma, avrebbero potuto avvicinarsi, inginocchiarsi davanti a lui e chiederglielo.
"La lebbra è una malattia contagiosa. In alcuni Stati molto poveri del mondo esiste ancora oggi. Al tempo di Gesù i lebbrosi erano emarginati dalla società, dovevano vivere lontano dai centri abitati ed erano considerati impuri."
Che brutta cosa! Dovevano avere una vita molto difficile.
"Già."
Padre Thomas non si sarebbe mai stancato di pensarlo: quella bambina aveva una sensibilità e una maturità pazzesche.
Non si poteva curare?
"Purtroppo no. I lebbrosi chiamano Gesù da lontano perché, dato che non possono avvicinarsi alle persone, non lo fanno nemmeno con lui."
Ah. E come mai gli altri nove non vanno a ringraziarlo? Sono stati maleducati!
L'uomo sorrise.
"Hai ragione, ma loro non pensavano di esserlo. Erano Giudei, facevano parte di quello che poco fa ho definito "popolo eletto", quindi pensavano di avere il diritto di essere guariti. È un Samaritano, uno straniero, un uomo la cui fede era appunto considerata corrotta, a tornare a ringraziarlo, e questa cosa colpisce molto. In realtà la guarigione dai propri mali, qualsiasi essi siano, non è un diritto. Bisogna chiedere la grazia a Dio, se si crede, affidarsi ai medici se questi mali si possono curare, e avere speranza e fede."
Allora, anch'io devo continuare a chiedere a Dio di farmi stare meglio, e sperare che un giorno sarà così.
"Esatto."
Mi leggi un'altra parabola?
"Certo. Ora parleremo di quella del buon samaritano. Un dottore della legge voleva mettere alla prova Gesù, e gli chiese cosa bisognava fare per avere la vita eterna. Lui allora gli domandò cos'era scritto nelle Scritture, ed egli rispose:
«Amerai il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima, con tutta la tua forza e con tutta la tua mente e il prossimo tuo come te stesso».
Gesù gli rispose che aveva detto bene, ma quegli gli domandò ancora chi fosse il suo prossimo. L'altro non gli diede una risposta diretta, ma gli lesse questa parabola.
«Un uomo scendeva da Gerusalemme a Gerico e incappò nei briganti che lo spogliarono, lo percossero e poi se ne andarono, lasciandolo mezzo morto. Per caso, un sacerdote scendeva per quella medesima strada e quando lo vide passò oltre dall'altra parte. Anche un levita, giunto in quel luogo, lo vide e passò oltre. Invece un Samaritano, che era in viaggio, passandogli accanto lo vide e n'ebbe compassione. Gli si fece vicino, gli fasciò le ferite, versandovi olio e vino; poi, caricatolo sopra il suo giumento, lo portò a una locanda e si prese cura di lui. Il giorno seguente, estrasse due denari e li diede all'albergatore, dicendo: Abbi cura di lui e ciò che spenderai in più, te lo rifonderò al mio ritorno».
Infine, Gesù domandò al dottore della legge chi, secondo lui, fosse il prossimo di quello che era stato derubato e ferito dai briganti. La sua risposta fu:
«Chi ha avuto compassione di lui».
Vedi, Mackenzie, il sacerdote e il Levita sono passati oltre. La zona che stavano attraversando, e quella in cui si trovava l'uomo, era molto pericolosa, un deserto pieno di predoni e di imboscate, in una delle quali era caduto proprio il povero viandante. Probabilmente i due che non l'hanno aiutato si sono comportati così per paura di essere feriti, o perché avevano altro da fare, e quindi se ne sono andati così, di fretta. Il Samaritano, invece, si è comportato diversamente: non si è curato del fatto che avrebbe potuto incorrere in chissà quali pericoli, né del fatto che stava andando chissà dove. Ha avuto compassione di lui, ha capito che quell'uomo aveva bisogno di aiuto, si è fermato e ha fatto di tutto per prendersene cura. Ha anche pagato il locandiere perché continuasse ad assisterlo, e detto che sarebbe ritornato a prendere i soldi e, presumibilmente, anche per sincerarsi che l'uomo stesse meglio. Il nostro prossimo è colui che ci è vicino, che ci aiuta, che ha compassione di noi, ma non nel senso di pietà. Compassione significa "patire insieme". Chi prova questo sentimento partecipa delle sofferenze degli altri, le sente anche proprie, è empatico, è sensibile. Tutti noi dobbiamo imparare ad esserlo con gli altri. Gesù qui parla anche di se stesso: lui ha sempre aiutato tutti, soprattutto gli umili e i più deboli."
Padre Thomas aveva parlato senza riuscire a fermarsi, e solo in quel momento se ne accorse. Forse aveva dato alla bambina troppe cose sulle quali riflettere per quel giorno.
Chi è il levita?
"Un sacerdote, un ministro del culto."
Anch'io imparerò ad avere compassione?
"Sei talmente dolce e matura che sono sicuro che tu l'abbia già imparato, Mackenzie. Comunque, vedrai che crescendo diventerai sempre più sensibile e attenta ai bisogni degli altri, ma ricorda che non devi trascurare te stessa. Occuparsi degli altri va benissimo, è una cosa bellissima, ma non bisogna dimenticarsi di se stessi e di ciò che si prova."
Poco dopo, quella lezione di catechismo si concluse.
Mackenzie uscì tenendo per mano il padre, ed era contentissima. Sentire le parole di Gesù le trasmetteva sempre una carica, una positività e un'energia pazzesche, anche nei momenti più bui nei quali credeva che non avrebbe più provato tutto ciò.
Tornati a casa, i due trovarono Demi e Hope sedute sul divano. La ragazza disse che aveva fatto appena in tempo ad andare all'uscita di scuola di Mackenzie. Fortunatamente aveva incontrato Elizabeth per chiederle cos'avevano fatto quel giorno e se le maestre avevano dato compiti. C'erano stati molti assenti in classe, quindi le insegnanti avevano solo ripassato ciò che era stato fatto i giorni precedenti, e non c'era nulla da fare per casa. Quando Mackenzie udì quella notizia si mise a saltare felice.
"Elizabeth mi ha detto che le sei mancata molto, oggi. Era preoccupata per te" aggiunse la madre.
Mackenzie pensò che era molto dolce da parte sua, e che il giorno dopo l'avrebbe ringraziata tantissimo. La conosceva da poco, ma aveva la sensazione che sarebbero diventate presto grandi amiche.
Il resto del pomeriggio e la serata trascorsero tranquilli. I quattro andarono a trovare Jack e Chloe, passarono un po' di tempo con loro, li accarezzarono e ci giocarono insieme, dopodiché cenarono a casa di Andrew e decisero di rimanere lì a guardare qualcosa alla televisione. Tornarono a casa presto visto che il giorno dopo le piccole avrebbero dovuto andare a scuola, e quando si misero a letto si addormentarono quasi subito, sentendo che i loro cuori erano leggeri e le loro anime piene di serenità e di speranza. Grazie a Dio, avevano passato una giornata piuttosto tranquilla.
 
 
 
credits:
Vangelo secondo Luca, versetti 14-19
 
 
Vangelo secondo Luca, versetti 27, 30-35 e 37
 
 
 
NOTE:
1. non me ne intendo di macchine e di motori. Ho fatto qualche ricerca su cosa potrebbe succedere ad un'auto che rimane per molto tempo sotto la grandine e la pioggia, soprattutto se scende molta acqua in poco tempo, com'è successo nel capitolo precedente. Spero quindi di aver fatto un buon lavoro.
2. È vero: l'assicurazione non sempre copre le spese dell'auto in America.
3. Anche le informazioni mediche sono vere. Io assumo Zoloft da molto tempo. Nel foglietto illustrativo, che ho trovato sul sito www.my-personaltrainer.it, si legge:
L'utilizzo del litio è indicato per la profilassi e il trattamento di:
• Stati di eccitazione nelle forme maniacali e ipomaniacali;
• Stati di depressione o psicosi depressive croniche nelle psicosi maniaco-depressive.
4. Anche nel mio caso la prima volta il medico di base non è stato chiaro e io non capivo se soffrissi di depressione o meno, ma stupidamente non ho avuto il coraggio di chiedere. Quando l'ho fatto mi ha detto di sì e mi ha spiegato meglio. Io prendevo il Daparox, però, non il Litio. Quello ho cominciato a prenderlo da pochi mesi. Prima assumevo lo Zoloft e difatti qui avevo scritto che ad Andrew era stato prescritto, ma poi il mio psichiatra mi ha detto che poteva provocare mal di testa, mi ha fatto diminuire il dosaggio fino a non prenderlo più e le mie emicranie sono diminuite moltissimo. Per cui, anche se all'inizio avevo parlato di questo antidepressivo, una volta saputo che poteva far venire mal di testa ho ho deciso di riscrivere, di non darlo ad Andrew e passare direttamente all'altro. Il Litio mi è stato prescritto dallo psichiatra, ma penso che lo possa dare anche il medico di base anche senza una visita specialistica. Per me, con i primi antidepressivi, è stato così.
5. Il lutto complicato è un lutto la cui elaborazione viene rallentata o interrotta, perché chi ne soffre non riesce ad accettare la perdita subita. Mackenzie infatti non l'ha ancora fatto, e i sogni che ha e tutto quello che le accade e che le riporta alla mente quella terribile nottele provoca sofferenza e un forte senso di mancanza dei genitori naturali.
 
 
 
 
ANGOLO AUTRICE:
nonostante tutto, sono riuscita a pubblicare molto prima di quanto avevo previsto. Siete contente, ragazze? Come avete notato non sono riuscita a far passare un mese, ma nel prossimo capitolo succederà, promesso. Una parte è già stata scritta, devo solo terminarlo. Spero che questo vi sia piaciuto e di aver spiegato tutto in modo chiaro. So che le scene dal meccanico e dal medico forse sono un po' noiose, ma volevo fare in modo che la giornata non iniziasse bene e quelli mi sembravano i modi giusti. Per quanto riguarda le battute finali del capitolo, sono consapevole del fatto che la descrizione di loro che vanno a casa di Andrew può apparire un po' frettolosa, ma volevo che fosse così. Non volevo allungare troppo quella parte e rischiare di essere ripetitiva.
 
Ringrazio iker, Alex___, cussolettapink e Emmastory per avermi dato qualche idea sul picnic, perché ero un po' bloccata e non sapevo come far divertire i protagonisti. Un grazie anche a °FallingToPieces_ per avermi suggerito di inserire quella favola, e a MaryS5 e a Ciuffettina per avermi aiutata a scegliere le parabole di cui parlare in questo capitolo. Nel prossimo probabilmente ne metterò un'altra. Il capitolo è dedicato a tutte voi! Il prossimo arriverà appena mi sarà possibile, spero di non stare lontana da questa storia troppo tempo, ma con la tesi ancora da terminare e la laurea che si avvicina non posso promettervi nulla.
A presto,
crazy lion

Aggiornamento del 2019: l'anno scorso avevo scritto questo capitolo quando assumevo ancora lo Zoloft, ma mesi dopo quando sono andata dallo psichiatra lui mi ha detto che anche quel farmaco poteva provocare i forti mal di testa che avevo e così l'ho diminuito fino a toglierlo, per poi cominciare a dicembre la cura con il Litio. Per evitare ad Andrew questa sofferenza ho deciso di riscrivere e passare direttamente al secondo farmaco.  
   
 
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