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Autore: crazy lion    11/02/2018    4 recensioni
Attenzione! Spoiler per la presenza nella storia di fatti raccontati nel libro di Dianna De La Garza "Falling With Wings: A Mother's Story", non ancora tradotto in italiano.
Mancano diversi mesi alla pubblicazione dell’album “Confident” e Demi dovrebbe concentrarsi per dare il meglio di sé, ma sono altri i pensieri che le riempiono la mente: vuole avere un bambino. Scopre, però, di non poter avere figli. Disperata, sgomenta, prende tempo per accettare la sua infertilità e decidere cosa fare. Mesi dopo, l'amica Selena Gomez le ricorda che ci sono altri modi per avere un figlio. Demi intraprenderà così la difficile e lunga strada dell'adozione, supportata dalla famiglia e in particolare da Andrew, amico d'infanzia. Dopo molto tempo, le cose per lei sembrano andare per il verso giusto. Riuscirà a fare la mamma? Che succederà quando le cose si complicheranno e la vita sarà crudele con lei e con coloro che ama? Demi lotterà o si arrenderà?
Disclaimer: con questo mio scritto, pubblicato senza alcuno scopo di lucro, non intendo dare rappresentazione veritiera del carattere di questa persona, né offenderla in alcun modo. Saranno presenti familiari e amici di Demi. Anche per loro vale questo avviso.
Genere: Drammatico, Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altri, Demi Lovato, Joe Jonas, Nuovo personaggio, Selena Gomez
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Spoiler!, Tematiche delicate
Capitoli:
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Ciao a tutte, ragazze!
Non dico molto perché il capitolo è lunghissimo e non immaginavo di aver scritto così tante pagine, ma i personaggi hanno voluto fare ciò che desideravano e io li ho seguiti. Avevo pensato di dividerlo in due: uno dedicato solo ad Andrew e l'altro soprattutto a Mackenzie e Demi, ma poi mi era sembrata una cavolata quindi ho deciso di no.
Ci sarà molta carne al fuoco, per cui non aggiungo altro. Leggete le note, eh, mi raccomando.
Al solito buona lettura!
 
 
 
 
Mi sono chiuso dentro, non voglio più essere così, ma non posso essere nient'altro.
(Frase tratta dal film Jack Frusciante è uscito dal gruppo)
 
 
 
 
 
 
90. IN UN MESE
 
Un mese. Non sembrano molti giorni, vero? In effetti non lo sono, a volte. Se stiamo bene, spesso il tempo scorre anche troppo in fretta, e un mese passa senza che ce ne rendiamo conto. Se ci sentiamo male, o abbiamo qualunque tipo di problema, invece, quel susseguirsi di giorni può essere eterno e diventare una vera e propria agonia. Infine, ci sono quei periodi della vita nei quali andiamo su e giù, sbalzati di qua e di là tra momenti di serenità e altri nei quali sprofondiamo nella tristezza più nera.
Mackenzie non sapeva che ora fosse, ma doveva essere ancora molto presto. Era stanca. Ultimamente stava dormendo male. Il suo corpo implorava pietà, voleva riposare, ma la mente non la pensava allo stesso modo. I pensieri, e soprattutto gli incubi, continuavano a tormentare il sonno della bambina. Erano sempre gli stessi, stramaledetti sogni, che però non la stavano portando da nessuna parte. Alcun ricordo, nemmeno un dettaglio si aggiungeva a ciò che già rammentava. Prima o poi sarebbe impazzita se non avesse ricordato, si disse; oppure si sarebbe semplicemente rassegnata al fatto che non ci riusciva, per chissà quale motivo, poi.
"Non sarebbe la prima volta che non riesco in qualcosa" si disse. "Se andare da Catherine non mi aiuterà, dovrò solo… abituarmi al fatto che non supererò mai tutto questo."
Quella prospettiva le metteva addosso una tristezza incredibile. Che fosse questo che provava suo papà? La mamma le aveva detto che non veniva a trovarle da giorni perché soffriva di… depressazione? Non ricordava se fosse la parola giusta, forse no. Le pareva un po’ più semplice, ma al momento non le veniva proprio in mente. Quando aveva chiesto a Demi cos’era, lei le aveva risposto che era una malattia della testa che rende tristi e fa stare malissimo. Ce l'aveva anche lei o si stava solo facendo un sacco di film mentali?
È più probabile la seconda ipotesi.
Sbuffò e si alzò. Doveva fare qualcosa per scacciare quelle brutte sensazioni. Appoggiò i piedi sul pavimento freddo della stanza e rabbrividì per un istante, poi si infilò le ciabatte e uscì nel corridoio. Entrata in camera della mamma le si avvicinò. Dormiva tranquilla. Non potendo chiamarla per svegliarla, Mackenzie le sfiorò una guancia. La donna tremò leggermente, spaventandosi per un momento, ma poi riconobbe quel tocco.
"Mackenzie" sussurrò, con la voce impastata dal sonno. "Hai avuto un altro incubo?"
La bambina cercò a tentoni l'interruttore della lampada che la mamma teneva sul comodino, lo accese e annuì.
"Hai pianto, vero?"
Sì, prima. L'hai visto?.
"Hai gli occhi arrossati. Perché non sei venuta da me quando è successo?" le chiese, mentre si sedeva sul letto e la abbracciava.
La piccola avrebbe tanto voluto ricambiare quella stretta, ma non ne ebbe la forza. Stava troppo male persino per compiere un gesto che, tra una madre e una figlia, dovrebbe essere sempre naturale e spontaneo.
Voglio farlo da sola, mamma. Non posso avere sempre qualcuno che mi…
Non terminò la frase perché capì di non poterne davvero più. Non sapeva cosa l'avesse spinta a dire ciò e non ci rifletté nemmeno. Scoppiò a piangere silenziosamente, mentre Demi la sollevava e la metteva sotto le coperte con sé.
"Io ci sarò sempre per te, amore mio" le sussurrò, iniziando ad accarezzarle la schiena per tentare di calmarla. "So che sei molto coraggiosa, ma non devi affrontare tutto questo da sola, e soprattutto non alla tua età. Fai ragionamenti da grande, ma sei ancora una bambina e non devi aver paura di venire dalla mamma se stai male, né vergognarti di questo. È normale, tanti altri bimbi lo fanno, sai?"
Mackenzie sorrise appena e si rilassò. Era bello che la mamma la rassicurasse in quel modo, aveva bisogno di sentire tali parole. Demi le passò un fazzoletto perché si asciugasse gli occhi, poi andò a prenderle un bicchiere d'acqua. Quando finì di bere, Mackenzie si sentì molto meglio.
Grazie, mamma!
"Di nulla, tesoro mio. Ora dormiamo, è ancora presto."
Si addormentarono abbracciate, mentre Hope nel lettino lì accanto riposava tranquilla, ignara di quel che era appena successo.
 
 
 
Qualche ora dopo fu la bimba più piccola a svegliarla. Iniziò a piangere forte, come faceva sempre. La cosa che ogni volta spezzava il cuore alla ragazza era che, quando singhiozzava così, sembrava che le mancasse il respiro. Hope aveva sempre avuto quella caratteristica. Fu solo quando accese la luce che Demi si accorse che la bambina era in piedi nel letto. C'erano le sponde, quindi non sarebbe caduta, ma se si fosse sporta troppo avrebbe potuto farsi male.
"Hope, guardami." La voce le uscì più dura di quanto avrebbe voluto. Le prese le mani nelle sue e continuò, raddolcendosi: "Non ti alzare più in piedi mentre sei a letto. Ti farai la bua."
"Hope n-no bua" balbettò lei, poiché le lacrime le impedivano quasi di parlare.
"Brava. Scusami, non volevo spaventarti poco fa." Le accarezzò il viso e poi la prese in braccio. "Calma, piccolina" mormorò, iniziando a camminare per la stanza.
Ben presto il suo pianto si trasformò in una serie di dolci gorgogli. Capendo che la bambina non aveva alcuna intenzione di riaddormentarsi, la ragazza si sedette per un solo attimo sul bordo del letto. Sospirò. Non dormiva più bene da due settimane, dato che non vedeva il suo fidanzato. Era molto preoccupata per lui: sapeva quanto stesse male, soprattutto da quando il giorno della gita le aveva detto che probabilmente soffriva anche di depressione e nei giorni a seguire se n'era sempre più convinto.
“Magari non lo è, non puoi autodiagnosticartela” aveva cercato di farlo ragionare Demi. “E poi, sai cosa devi fare se vuoi avre risposte certe.”
“Sì, lo so” le aveva risposto stancamente.
E, alla fine, la malattia era stata diagnosticata per davvero. Aveva fatto anche gli esami del sangue ela visita neurologica perché aveva ancora molte crisi epilettiche, quindi per tre mesi avrebbe dovuto aumentare un po' la dose di antiepilettici e, se la situazione non fosse migliorata, alzare ancora il dosaggio arrivando a tre pastiglie anziché due e mezza. Per fortuna non aveva l'emicrania con aura e il mal di testa, anche se veniva dopo le crisi, pareva essere in realtà causato dallo stress. Demi cercava di non pensare a come stesse Andrew, ma non ci riusciva. Anche quando lavorava, andava a prendere le bambine a scuola e all'asilo, giocava con loro, sbrigava le faccende domestiche, una parte della sua mente era focalizzata solo sul suo ragazzo. Avrebbe voluto aiutarlo, andare da lui per fargli compagnia magari, ma Andrew stava così male che non voleva vederla. Poteva capirlo, in parte. Anche lei, da più giovane, aveva passato periodi tristissimi nei quali l'unica cosa che aveva desiderato era stata  rimanere sola. Non aveva sofferto di depressione, però; e paragonare quei suoi sentimenti ad una vera e propria malattia le sarebbe sembrata una mancanza di rispetto per chi, come Andrew, ne soffriva sul serio, quindi non l'aveva mai fatto. Mentre lei pensava, Hope la stava guardando perplessa.
"Mamma" disse.
"Ciao, amore. Mi fai un sorriso?"
Lei la osservò, seria.
Demi allora iniziò a farle il solletico ai fianchi e alla pancia e Hope rise un sacco.
"Ancora mamma, ancora!" gridò, quando si fu calmata.
"Shhh, non adesso. Mackenzie deve riposare un altro po'."
"Fame, mamma."
"D'accordo, andiamo a mangiare."
In realtà Mac si era svegliata da un po' e le guardava, ma pareva stare troppo bene sotto le coperte per riuscire ad alzarsi. Demi decise di lasciarla stare per un altro po' e, intanto, scese a preparare la colazione a Hope.
Poco dopo Mac le raggiunse, già vestita e pettinata. Demi le chiese se era contenta di rivedere Elizabeth, anche se si erano incontrate a scuola il giorno prima. Conosceva già la risposta, ma la bambina non scriveva nulla e lei voleva che lo facesse almeno un po'.
Sì, certo.
"Se ti va, possiamo invitarla a casa nostra uno di questi giorni. Se sua mamma è d'accordo, per me non ci sono problemi, anzi."
Mi piacerebbe, ma la conosco ancora poco. Preferirei aspettare.
"Hai ragione."
Prima di fare colazione chiese alla mamma se avfrebbero potuto dire una preghiera. Lei acconsentì e iniziò a dire un Padre Nosttro, mentre Mackenzie lo pensava, sperando che un giorno sarebbe riuscita a recitarlo anche lei.
"Mac Mac, giochiamo?" chiese Hope quando tutte ebbero finito di mangiare.
Lei fece cenno di sì e sorrise, quindi Demi lasciò che le bambine si divertissero con le bambole e con i peluche per qualche minuto. Era così bello vederle ridere insieme! Mentre giocavano andavano molto d'accordo, forse anche grazie alla differenza d'età. La più grande stava insegnando all'altra come fare la coda ad una bambola, ma Hope non riusciva a capire. Mackenzie però non si arrendeva, e continuava a ripetere quelle azioni con lentezza e pazienza.
Non perdendole di vista, Demetria diede da mangiare e da bere a Danny  e a Batman, che stranamente stavano ancora dormendo. Quando sentirono il rumore del cibo, però, si precipitarono a mangiare.
"Hope, dobbiamo andare a prepararci."
Le dispiaceva interrompere quel momento, ma avrebbero dovuto essere a scuola nel giro una mezzoretta.
"No, mamma!" protestò infatti la bambina.
"Su, non fare i capricci. Oggi pomeriggio avrete tempo per divertirvi."
Fu così che le due bambine andarono a scuola. Appena vide Elizabeth Mackenzie scese dalla macchina e corse ad abbracciarla, mentre Hope pianse un po' quando la mamma dovette lasciarla all'asilo, ma una maestra riuscì a calmarla parlandole dei giochi che avrebbero fatto quel giorno insieme.
 
 
 
Andrew si alzò controvoglia, mugugnando qualcosa di incomprensibile. Scostò le coltri con un gesto infastidito e poi rifece il letto tirando le coperte con malagrazia, come se gli avessero fatto chissà cosa, poi prese alcuni vestiti che aveva preparato la sera precedente e che aveva appoggiato su una sedia, li gettò con forza sul letto, si tolse il pigiama e li infilò. Aprì la finestra per far cambiare l'aria e proprio in quel momento i gatti saltarono sul davanzale. L'uomo, che ormai sapeva che i suoi tesori avevano quell'abitudine, teneva sempre le zanzariere abbassate in modo che non potessero saltare giù e rischiare di farsi male. I gatti cadono sempre in piedi, si dice, ma lui aveva letto che non era affatto vero. Li accarezzò e li grattò sulla schiena.
"Vi faccio stare qui al massimo cinque minuti, poi chiudo" disse loro, e i due miagolarono come per protestare, cosa che lo fece ridere.
Non rideva da un po'. Era venerdì mattina, era quasi metà ottobre. Da una settimana aveva cominciato ad assumere i nuovi farmaci. La precedente, in cui aveva diminuito gli altri e poi smesso di prenderli non si era sentito molto bene ma non tanto come ora. Sapeva che all'inizio sarebbe stato male, che avrebbe passato giorni molto difficili, ma non si aspettava di provare tutto quel malessere. Non essendo un vero e proprio antidepressivo, aveva sperato che il Litio non lo avrebbe fatto sentire male e invece era accaduto il contrario. Il corpo si doveva abituare, gli era stato spiegato e ci sarebbe voluto un po’ di tempo prima che il suo umore migliorasse. Ma non si trattava solo della pastiglia in sé. C’entrava anche la depressione stessa, una malattia che annienta la volontà. La mattina si alzava stanco anche se la notte aveva dormito, e provava quella sensazione per tutta la giornata. Era oppresso quasi costantemente da un profondo senso di tristezza misto a malinconia e brutti pensieri ai quali non riusciva a dare un senso logico, che lo lasciavano in pace solo in alcuni momenti di relativa serenità. Purtroppo, però, questi ultimi erano pochissimi. Le medicine lo stancavano e a volte gli facevano venire sonno, e ovviamente non poteva riposare visto che era in ufficio. Lavorava a fatica, sbuffando e cercando di non farsi sentire e la sera tornava a casa, cenava e non vedeva l'ora di andare a letto, sul quale si addormentava privo di ogni forza fisica e mentale. Non aveva né tremori, né mal di testa, né nessun altro effetto collaterale, e questo lo rassicurava molto. Sapendo tutto ciò, la prospettiva di dover vivere un'altro, estenuante giorno in quelle condizioni gli faceva venir voglia di rimettersi immediatamente a letto, o di sedersi sul divano a guardare un film, ma purtroppo non poteva. Si lavò la faccia, si sistemò i capelli, fece colazione - grazie al cielo non aveva perso l'appetito - e poi tornò in bagno per fare ciò che non osava da giorni: guardarsi allo specchio. Aveva un aspetto da far  paura. Il suo viso era stravolto e aveva gli occhi stanchi.
Faccio proprio schifo, in queste condizioni pensò.
Quel giorno Carlie avrebbe compiuto ventisette anni e al sol pensiero si sentiva venir meno, ma purtroppo non aveva tempo di andare al cimitero. L'avrebbe fatto nella pausa pranzo, anche se questo avesse significato non mangiare. Dopo aver chiuso la finestra e salutato i suoi gatti,andò alla fermata dell'autobus. Sapeva quale avrebbe dovuto prendere, ma dopo un quarto d'ora non era ancora arrivato. Gli venne un dubbio.
"Scusi," chiese ad una signora anziana, "per caso sa dirmi se il sette è già passato?"
"Sì, figliolo, circa venti minuti fa. È arrivato prima, oggi."
"No, no, no! Porca puttana!" imprecò, cercando di non farsi sentire.
Perché dovevano capitare tutte a lui? Ora sarebbe arrivato in ritardo e sicuramente il suo capo gli avrebbe fatto una bella ramanzina. Fu costretto ad aspettare altri dieci minuti buoni prima che arrivasse il numero quattordici, autobus che faceva la stessa strada ma compiendo un giro molto più lungo. Trovò posto, per fortuna, anche se l'abitacolo era pieno di studenti e confusione. L'autista guidava come un pazzo, andando forte e poi frenando di colpo.
"Chi ha dato la patente a questo decerebrato?" si domandò.
Alcuni ragazzi gridavano qualcosa che si avvicinava molto a ciò che lui aveva pensato, ma l'autista non li sentiva a causa della troppa confusione.
Quando Andrew scese era tutto sudato. Gli era parso di soffocare lì dentro e ringraziò Dio di non avergli fatto scoppiare un attacco di panico. Respirare l'aria, seppur inquinata, di Los Angeles fu un vero e proprio sollievo.
"Sei in ritardo" sbottò Janet, appena lo vide entrare.
"Lo so, scusami. L'autobus era passato prima di quanto mi aspettassi, ne ho preso un altro che faceva un giro più lungo e…"
"Non mi interessa! Hai un processo molto importante lunedì, te ne sei dimenticato, Marwell?" urlò battendo un piede per terra.
Era davvero furiosa.
"Certo che no, capo."
Non gli piaceva chiamarla così, ma dato che lei aveva usato il suo cognome lui aveva agito di conseguenza.
"Va bene, senti, lasciamo stare. Non mi va di discutere con te, Andrew, e anzi scusami se me la sono presa così tanto" riprese la donna, diventando più dolce. "Non è colpa tua se sei arrivato in ritardo."
"Scuse accettate, Janet."
Le sorrise.
"Perfetto! Pace?"
"Pace."
"Okay, ora però corri in ufficio, fila."
"Agli ordini."
Era andata meglio di quanto si sarebbe aspettato.
Era lì da un'ora e cercava con tutte le sue forze di lavorare.
"Andrew?"
La voce di Bill lo distrasse da quelle divagazioni.
"Sì?"
"Mi stavi ripetendo la tua arringa e ti sei bloccato. Ti senti male?"
Il suo amico, come Janet, sapeva che Andrew aveva iniziato a prendere altri antidepressivi - non lo erano in realtà, ma lui li definiva così per comodità anziché chiamarli "stabilizzatori dell'umore" -, quindi comprendevano che si sentisse stanco. Tuttavia, il capo esigeva comunque il massimo da lui anche se Bill, all'insaputa della donna, a volte svolgeva qualche lavoro per l'amico in modo da farlo rilassare per alcuni minuti. Vedeva quanta fatica gli costava anche solo sedersi alla scrivania e mettersi ad analizzare documenti, o ancora di più parlare con i suoi clienti. A volte sembrava da un'altra parte, fuori dal mondo. Chissà in quali meandri si perdeva la sua mente. Se Bill avesse posto questa domanda ad Andrew, lui non avrebbe saputo cosa rispondere. Molto spesso pensava a Carlie e si isolava per questo, rifletteva su quanto le mancasse, su alcuni momenti vissuti con lei - come stava facendo quel giorno -, ma a volte non capiva proprio a che cosa pensasse. La sua psicologa gli diceva che era importante che lui si focalizzasse sul presente, e che quando la mente si perdeva da qualche parte cercasse di capire dove andava. Purtroppo, per quanto si sforzasse, l'uomo non riusciva mai a comprenderlo e la cosa gli provocava ogni volta un forte dolore.
"Ehm, sì, credo di sì. Cioè, io… insomma, non mi sento benissimo" ammise infine, dopo aver balbettato.
"Ne vuoi parlare?"
"Oggi è il compleanno di Carlie."
"Oh. Non lo sapevo."
"Sto malissimo! Mi manca più del solito, mi sento ancora più triste e continuo a pensare a lei e al giorno in cui è morta."
Si era aperto un pochino, grazie al cielo.
"Mi dispiace, Andrew. Ti capisco benissimo, anch'io il giorno del compleanno di Oscar mi sento uno schifo, ma immagino che per te sia ancora peggio visto il periodo nero che stai passando."
"Non so se è peggio, non mi piace fare confronti tra me e qualunque altra persona, ma comunque non è una bella giornata e sicuramente questo periodo non è dei migliori."
"Vuoi descrivermi quel che senti in questi giorni?"
Bill era sempre così dolce con lui. Da quando i due si erano avvicinati, Andrew aveva riscoperto la gioia di avere un amico. Certo, prima di mettersi con lei aveva Demi, ma non aveva un amico maschio da tantissimo tempo e non ricordava che fosse tanto bello. Probabilmente, si disse, perché tutti quelli che aveva avuto in passato si erano dimostrati superficiali, mentre Bill riusciva a comprenderlo davvero, nel profondo.
"No, non importa. Non voglio che interrompiamo il lavoro per questo, non è per nulla professionale."
Avrebbe avuto un disperato bisogno di parlare, di dire come si sentiva e anche di piangere, ma non era corretto farlo in quel momento.
"A me importa sapere come stai. So che sei molto ligio al dovere, ma forse sfogarti potrebbe farti bene."
"Dopo."
 
 
 
Quella scena si ripeteva da giorni, ormai. Andrew non ci stava con la testa, Bill cercava di farlo aprire e lui si chiudeva sempre di più in se stesso, lasciandosi avvolgere dal buio di quella depressione senza permettere a nessuno, nemmeno a se stesso, di rompere quella barriera per far entrare la luce, per aiutarsi e lasciare che anche gli altri gli dessero una mano. Bill gli aveva proposto di andare a camminare con lui, qualche volta, la sera. Forse uscire avrebbe fatto bene ad Andrew, e poi camminare aumenta le endorfine e migliora l'umore, è risaputo, ma lui aveva sempre rifiutato, di solito dicendo:
"Grazie amico, ma sono troppo stanco",
oppure:
"No, non me la sento."
Quella sua continua passività allarmava Bill sempre di più. Lo vedeva assente, distratto, e avrebbe voluto fare qualcosa per lui ma non sapeva cosa. C'erano delle volte in cui il suo atteggiamento gli faceva quasi saltare i nervi e gli sarebbe tanto piaciuto scuoterlo, dirgli di darsi una mossa, di rimboccarsi le maniche e di reagire, di lottare per riprendersi. Subito dopo però pensava ad Oscar, a quanto lui aveva sofferto per la sua morte, e ancora prima per quella del padre, e per tutti i pregiudizi e le cattiverie che tante persone gli avevano rivolto riguardo la sua omosessualità. Aveva raccontato ad Andrew che perfino la madre non aveva mai accettato il suo orientamento sessuale, e che per questo negli anni i due non avevano fatto altro che litigare sempre più furiosamente, ed ora si sopportavano appena. Entrambi credevano di aver ragione e la mamma di Bill rifiutava di comprenderlo e di andargli incontro. Anche con il padre le cose non erano state affatto semplici quando, a diciotto anni, aveva detto ad entrambi di essere gay.
"Questa è la mia natura" aveva urlato vedendo lo shock dipinto sui volti dei genitori. "So che vi risulta molto difficile accettarla, ma io sono così, vi voglio bene e vorrei che voi capiste… Non avete idea di quanto ho sofferto in tutti questi anni per tenere nascosto chi sono veramente. Non potevo più rimanere nell'ombra, non con voi!"
Quante notti aveva passato a piangere e a sentirsi sbagliato a causa del suo orientamento? Innumerevoli.
"La tua natura ci fa ribrezzo, ci fa schifo!" aveva esclamato il padre.
Il disprezzo nella sua voce aveva trafitto il cuore  di Bill come se si fosse trattato di un coltello affilato.
"Non so se riusciremo mai ad accettarlo" aveva sussurrato la madre, più tranquilla. "Vai in camera tua per favore, io e tuo padre dobbiamo parlare."
Come se lui non avesse potuto ascoltare, come se la sua fosse stata una malattia.
Si era riavvicinato alla mamma dopo la morte del papà, ma quando lei si era sentita meglio, l'aveva allontanato di nuovo. Tutto l'affetto che si erano dimostrati in quei mesi si era volatilizzato, per lei. Pareva non essere mai esistito. Né la donna, né il marito avevano mai voluto conoscere Oscar, e quando Bill li aveva chiamati per dir loro che era morto, non gli avevano dimostrato un minimo di affetto e comprensione. Eppure, nonostante tutto, nonostante quella che lui considerava vera e propria cattiveria nei propri confronti, sentimento che non credeva di meritare, li aveva sempre amati e odiati. Quei due sentimenti continuavano a coesistere in lui anche adesso. Forse un giorno l'odio sarebbe scomparso, chi lo sapeva; ma l'amore, l'uomo lo sperava con tutto se stesso, non se ne sarebbe mai andato.
"Maledizione" sussurrò.
"Cosa?" gli chiese Andrew, il cui sguardo si era perso fuori dalla finestra.
"Niente… niente. Stavo solo pensando a quello che ti ho raccontato sui miei genitori e tutto il resto. Andrew, secondo te si può odiare e amare una persona?"
"Credo di sì. Parli di tua madre, vero?"
"Già e anche di mio padre."
"Beh, io penso che visto tutto quello che hai passato anche a causa loro i tuoi sentimenti siano, a ragione, molto confusi, per cui è normale che tu provi questo mix di emozioni. Prima o poi riuscirai a fare chiarezza, ne sono sicuro. Magari tu e lei vi potrete riavvicinare!" esclamò, con convinzione.
"Non lo so."
Quel viaggio nel passato aveva fatto perdere a Bill il filo dei pensieri. Non aveva mai sgridato Andrew, né l'aveva forzato a reagire, perché capiva quanto soffriva e sapeva bene che bisognava andare piano, con lui. Gli avrebbe proposto ancora di andare a camminare, magari qualche giorno dopo. Chissà, forse allora avrebbe accettato.
 
 
 
"Bill, vado a bere un bicchier d'acqua e poi possiamo continuare. Ne vuoi uno anche tu?"
La voce gli uscì più bassa e roca del solito. Aveva la gola secca, ma aveva parlato così anche perché era rimasto un bel po' di tempo in silenzio e perché il Litio gli faceva provare quella sensazione.
"No grazie, sto bene" rispose l'altro sorridendogli.
Uscito nel corridoio, Andrew lo attraversò pian piano. I suoi passi, lenti e pesanti, riecheggiavano in tutto l'ambiente.
Perché questo posto mi sembra così vuoto e privo di vita?
Da quando faceva quei pensieri assurdi? Se non si sentiva nessuno era perché ognuno si trovava nel proprio ufficio a lavorare, o alcuni avvocati erano in tribunale per un processo. Bill e Janet gli volevano bene, gli altri colleghi erano gentili con lui. Come aveva anche solo potuto pensare di definire "vuoto e privo di vita" lo studio legale in cui amava lavorare? Da quando assumeva i nuovi medicinali la sua tristezza era peggiorata molto, e aveva mandato una mail al suo medico dicendole che faceva pensieri strani come quelli di poco prima. Lei gli aveva domandato se aveva avuto pensieri suicidi o di autolesionismo e lui le aveva detto che aveva pensato di tagliarsi, qualche volta, ma poi non l'aveva mai fatto. La dottoressa allora gli aveva chiesto di prendere un appuntamento con lei.
"Come ti ho spiegato il Litio è uno stabilizzatore dell'umore e aiuta a diminuire i pensieri suicidi e di farsi del male, ma lo prendi da pochi giorni, è normale che non abbia ancora fatto effetto. Tuttavia stai male da molto tempo, Andrew e non mi riferisco solo a queste ultime settimane. Con tutto quello che ti è successo e visto che non riesci a riprenderti, io ti farei fare una visita specialistica."
"Che intende?" aveva domandato lui, agitandosi udendo quelle parole.
Era forse qualcosa di grave? Il cuore aveva cominciato a martellargli nel petto.
"Intendo un consulto psichiatrico. Lo psichiatra può capire meglio di me queste cose, è specializzato più di quanto lo sono io. Ovviamente devi decidere tu se vuoi farlo o no, sei maggiorenne ed io non posso di certo obbligarti."
"Lei crede che lui potrebbe capire che cos'ho oltre agli attacchi di panico?"
La donna l'aveva guardato intensamente negli occhi.
"Io sospetto si tratti di depressione reattiva. L'avevo pensato già l'altra volta in cui ci siamo visti, ma non volevo allarmarti. Ti ho dato uno stabilizzatore dell'umore per vedere se avrebbe potuto aiutarti, ma il dosaggio è troppo basso, come dicono anche gli esami che hai portato."
"Cos'è la depressione reattiva?"
"È un disturbo depressivo che si prova, a volte, quando si perde qualcosa come il lavoro, o qualcuno. Lo dico perché è da molto che non stai bene, che sei sempre giù, e penso che tu provi qualcosa di più della semplice tristezza. Ora stai peggio perché prendi i farmaci nuovi, è vero, ma vorrei comunque confermare questo mio sospetto."
"Come mai non se n'è accorta subito?" aveva chiesto lui, alzando un po' la voce. Si era fidato di quel medico e lei non gli aveva mai detto che avrebbe potuto trattarsi di depressione. "Anche l'altra volta, io gliel'ho chiesto e lei non mi ha risposto."
"Scusami, non mi sono resa conto di aver sbagliato. Non ho fatto apposta a non dirtelo, semplicemente pensavo che quando ho parlato di stabilizzatore dell'umore tu avessi capito, ma è colpa mia avrei dovuto assolutamente esplicitare e spiegare meglio. Mi dispiace. Non sono stata affatto chiara."
Andrew pensò, per un momento, di cambiare medico e si domandò se aveva ancora fiducia in quella donna. Fu un pesiero che durò solo un attimo, perché poi comprese che anche se aveva commesso un grande sbaglio lui le credeva, si trovava bene con lei ed era deciso a darle un'altra possibilità, anche se dovette mandare giù un boccone molto amaro.
La donna riprese:
"Questo disturbo è subdolo. Trattandosi di una forma leggera di depressione è molto facile, per noi medici, scambiarla per profonda tristezza."
"Lo psichiatra potrebbe cambiarmi farmaci un'altra volta?"
Non voleva ricominciare tutto di nuovo, sarebbe impazzito.
"No, perché non hai effetti collaterali e li assumi da poco. Sicuramente li aumenterà ma non subito, devono passare un po' di giorni prima, e potrebbe confermare o meno ciò che sospetto."
Lui si era voluto fidare e aveva accettato. Ne aveva parlato con la psicologa la quale aveva ritenuto che forse, vista la situazione, un consulto psichiatrico sarebbe stato utile. L'appuntamento gli era stato dato prestissimo, due giorni prima. L'uomo con cui Andrew aveva parlato per due ore, dopo aver letto due lettere che gli avevano scritto il medico e la psicologa, aveva fatto la sua diagnosi: depressione reattiva. La dose dei farmaci avrebbe dovuto rimanere la stessa solo per altre due settimane, poi si sarebbero rivisti e lui gli avrebbe aumentato il dosaggio.
"Di quanto?" gli aveva domandato, non perché fosse preoccupato ma solo per sapere.
"Generalmente questo farmaco viene dato in dosi molto alte, anche novecento milligrammi. Nel suo caso, siccome non soffre di depressione bipolare, credo che potremo arrivare a trecento o forse seicento. Se non dovesse essere sufficiente potremo aggiungere un antidepressivo, ma bisognerà valutare bene perché molti antidepressivi hanno come effetto collaterale il mal di testa, di cui lei a volte già soffre."
Andrew sperava che non fosse necessario prendere così tante medicine e soprattutto aggiungerne un'altra.
Lo psichiatra l'aveva incoraggiato dicendogli che vedeva che era determinato e che ce l'avrebbe fatta. Il prossimo appuntamento era fissato per l'inizio di novembre. Era stato molto gentile e soprattutto umano.
Stava assumendo più antiepilettici, ma solo la sera, la mattina prendeva la dose normale. Per ora non vedeva grandi effetti, le emicranie grazie a Dio erano diminuite ma quei flash luminosi gli davano fastidio, soprattutto di notte. Cercava di non farci caso e di essere fiducioso, nonostante in quel periodo il suo umore fosse a terra.
Entrato nel piccolo bagno l'avvocato aprì il rubinetto e si risciacquò il viso, poi bevve qualche sorso d'acqua e si asciugò con alcune salviette.
"Dio."
Un flash di luce arrivò, sorprendendolo, e lo bloccò. Si sentì confuso, come se una parte del suo cervello non connettesse più bene. Provò a chiudere gli occhi ma quella luce continuava, e anzi si faceva sempre più intensa, poi se ne andò, ma subito dopo ricominciò e durò a lungo, forse trenta secondi o più. Andrew rimase immobile, cercando di controllare il panico che rischiave di assalirlo. Sapeva che, anche se avesse chiamato qualcuno, nessuno avrebbe potuto fare niente per aiutarlo. Le crisi epilettiche dovevano passare da sole. Per fortuna poco dopo tutto finì.
Respirò a pieni polmoni sperando che fosse passato tutto, ma improvvisamente, i suoi occhi si chiusero e la mente si perse. Dapprima ricordò il corpo della sorella defunta, poi il funerale e il suo tentato suicidio, e infine un episodio accaduto molti anni prima.
 
 
"Andrew?"
Il ragazzino era nella sua stanza a studiare storia per l'interrogazione del giorno dopo sulle guerre puniche. Non gli piaceva quel periodo storico, era incredibilmente noioso. C'erano troppi avvenimenti.
Come sempre pensò.
Sottolineò qualche concetto importante e poi cercò di scrivere un riassunto di quanto aveva appena letto, anche se sintetizzare non era mai stato il suo forte.
"Carlie?" chiese, ricordando che la sorellina l'aveva appena chiamato. Infatti era lì, sulla porta, a guardarlo. "Come mai non sei in salotto a giocare con la mamma?"
"Si è addormentata" rispose la bambina.
"Ti annoiavi?" Dato che lei non rispondeva, Andrew si rese conto che forse non conosceva ancora il concetto di "noia", così riformulò la domanda. "Sei stanca?"
"Sì" sospirò.
"Vieni qui."
La piccola gli si avvicinò e lui se la mise sulle gambe. Gli era sempre piaciuto tenere in braccio sia lei che Demi, sin dalla loro più tenera età. Il giorno dopo avrebbe chiesto ai suoi il permesso di andare a trovarla. La casa di Demetria era relativamente vicina, e ormai il bambino sapeva andare in bicicletta senza rotelle da solo e mamma e papà gli lasciavano fare dei piccoli giri senza la loro presenza.
"Cosa fai?" gli domandò Carlie guardando il libro.
"Leggo e scrivo."
"Cosa?"
"Storia, domani la mia maestra mi farà delle domande."
"Anch'io voio legele e scrivele una stoia."
La frase che aveva pronunciato era piena di errori che fecero sorridere il bambino. Non la corresse perché sapeva che non le piaceva che qualcuno continuasse a farlo.
"Non è una favola, Carlie" le spiegò, scompigliandole i capelli. "Si impara a scuola, su delle persone e delle cose importanti che sono vissute e successe tantissimi anni fa."
"Ah. È bella?"
"Non mi piace molto."
"Allora perché la leggi?"
"A scuola non si può scegliere cosa imparare."
"Si può giocare?"
"Sì, a volte. Si esce in cortile per un po'  e si corre o si fanno altri giochi, ma non per molto tempo."
"Uffa! Non voio andare a scuola" si lamentò.
Andrew cercò di non ridere. La sua sorellina, come Demi del resto, era capace di farlo sciogliere.
"Non accadrà subito, tranquilla."
"Quando finisci?"
"Tra un po', perché?"
"Giochiamo fuori insieme?" domandò speranzosa, indicando con il ditino il cortile.
Andrew aveva una finestra aperta dalla quale entrava la tiepida aria primaverile, e il canto degli uccellini rallegrava l'atmosfera mentre il sole riscaldava l'ambiente. Gli sarebbe tanto piaciuto stare all'aperto, piuttosto che chino sui libri e chiuso in casa.
"Se finisco presto sì, te lo prometto, altrimenti lo faremo domani. Senti, perché non mi fai un bel disegno mentre io studio, così resti qui con me?"
"Evviva!" esclamò la piccola battendo le manine.
Il fratello la fece sedere su una seggiola bassa che teneva in camera apposta per lei, poi scese in salotto e portò di sopra un piccolo tavolino che Carlie usava proprio per disegnare, glielo mise davanti, le diede un foglio e dei colori e la bambina cominciò la sua opera d'arte.
Andrew riprese lo studio, guardando di tanto in tanto la sorella che, concentratissima, continuava a colorare.
"Ecco qui" disse, alzando il disegno in aria, tutta fiera.
"Fammi vedere."
C'erano raffigurati due bambini, uno più grande e l'altra piccola.
"Siamo io e te" chiarì.
"È bellissimo, tesoro!"
Andrew la abbracciò e le diede un bacio, poi le promise che l'avrebbe appeso in camera sua.
"Così ti ricorderai di me anche quando non ci sarò" aggiunse lei.
"Certo, ma tanto noi resteremo sempre insieme."
"Sempre sempre?"
"Sì! Dai, andiamo a giocare adesso."
 
 
L'uomo sospirò. Nonostante quella passeggiata nel viale dei ricordi, si sentiva un po' meglio almeno fisicamente. Era pronto a tornare al lavoro… beh, più o meno; ma anche se non lo fosse stato, avrebbe dovuto. Non poteva permettere alla depressione di abbatterlo del tutto. Non aveva dovuto abituarsi all'idea di soffrire di quel disturbo mentale; anzi, era come se in parte sentisse già da molto che prima o poi avrebbe scoperto qualcosa del genere. Certo, però, sperava che non sarebbe mai arrivato a quel punto.
"Sei caduto proprio in basso, Andrew" disse alla sua immagine riflessa.
Carlie non avrebbe voluto che lui si riducesse così, e soprattutto che non si commiserasse e che non si piangesse addosso, lo sapeva, ma in quel momento l'uomo sentiva di non riuscire a fare altro. C'era una frase di un film, "Jack Frusciante è uscito dal gruppo", che descriveva alla perfezione come si sentiva. Aveva letto il romanzo e visto il film anni prima, dato che sapeva l'italiano, e quella citazione l'aveva colpito molto. La pronunciava Martino, amico del protagonista, che poco dopo si toglieva la vita sparandosi un colpo in testa.
"Mi sono chiuso dentro, non voglio più essere così, ma non posso essere nient'altro."
 
 
 
"Sono tornata! Sì, sono al lavoro, cazzo!" esclamò Demi iniziando a saltare sul posto.
Era rientrata allo studio di registrazione da alcuni giorni, eppure ancora non ci credeva. Il lunedì della settimana precedente, quando era arrivata, tutti l'avevano accolta con baci, abbracci e un grandissimo striscione con scritto:
La nostra cantante preferita è di nuovo qui a farci sognare con la sua voce!
Quella sorpresa l'aveva resa felicissima. C'era stato un piccolo rinfresco con il suo manager, il coro, i ballerini, i musicisti e tutti coloro che facevano parte del suo team. La stanza del rinfresco era stata piena di gente.
Adesso c'erano persone che continuavano a correre di qua e di là. Demi avrebbe voluto non truccarsi mentre lavorava e cantava, tanto la gente non la poteva vedere ma Rosalie, una stilista che, oltre ad avere un lavoro tutto suo, si occupava anche dell'abbigliamento che Demi doveva indossare ai servizi fotografici e ai concerti e anche di truccarla, la pensava in maniera diversa.
"Sei molto più carina, con il trucco!" trillò la giovane.
"Me lo dici sempre, Rosie" sbuffò l'altra.
La chiamava così perché la ragazza le aveva sempre detto di odiare il suo nome. Si conoscevano da quando Demi era uscita dalla clinica. La ragazza che c'era prima si era licenziata, Demi non ricordava per che motivo.
"Lo faccio perché è vero. Dai, vieni."
"Okay."
"Come stai, Demi?" le chiese ancora la stilista, mentre entravano nel camerino.
La ragazza non lo ricordava così pieno di attaccapanni e di abiti di ogni genere e colore. Nei giorni precedenti era sempre rimasta con i suoi vestiti nonostante Rosalie non fosse stata d'accordo.
"Me l'hai preparato in questi giorni?" le domandò.
"Sì, ti piace?"
"Beh, sono davvero tantissimi vestiti!"
Le pareti ne erano piene.
"Per qualunque occasione" aggiunse l'altra.
"Comunque sì, mi piace!"
C'erano jeans, gonne, maglie, felpe, maglioni, e sul pavimento si trovava una grande scarpiera con tante paia di scarpe. Ovviamente era tutto di marca.
"Questi abiti sono tutti usciti da poco, e anche le scarpe. Le ho cambiate in modo che fossero alla moda."
"Grazie" sussurrò Demi, "non dovevi. Insomma, a me va bene portare qualunque cosa."
"Senti, lo so che non te ne frega molto di vestiti e che non ti piace mettere cose firmate, ma tu sei Demi Lovato, okay? Nella vita privata puoi vestirti come vuoi, ma la tua immagine, sia qui che soprattutto in pubblico, dev'essere perfetta."
Era la stessa cosa che le dicevano le persone che si occupavano di fare i video per le sue canzoni e anche coloro che stampavano le foto che poi sarebbero finite sulle copertine dei suoi album.
"Lo so" disse lei sorridendo appena. "Devo essere impeccabile, ma nessuno lo è, in fondo."
"Questo è vero, ma è necessario che tu faccia una buona impressione anche per quanto riguarda il tuo aspetto, okay?"
Rosalie sapeva quanto Demi si sentisse a disagio in situazioni come quella. Nonostante fosse una cantante da tanti anni, non ci si era mai abituata, quindi la ragazza cercava di essere sempre paziente con lei.
"Hai ragione."
"Comunque, come stai?" ripeté passandole alcuni vestiti perché si cambiasse, poi uscì dal camerino ma rimase lì accanto per poterla ascoltare.
Demi le parlò della situazione che stava vivendo a casa.
"Mi dispiace che tua figlia non stia bene. Vorrei dirti che si sistemerà tutto, ma so di non poterlo fare, quindi sappi solo che io ci sono se hai voglia di parlare."
"Ti ringrazio, sei molto dolce. Tu come stai?"
"Tutto bene. Matthew sta benissimo! Va a scuola, è bravo ed è molto contento."
Il bambino di Rosalie aveva otto anni e, anche se Demi l'aveva incontrato solo qualche volta, poteva assicurare che era dolcissimo come la mamma.
Quando finì di indossare i jeans e le maglie attillate che Rosalie le aveva dato, la ragazza rientrò e le pettinò con cura i capelli, poi li raccolse in una treccia e la truccò.
"Sono contenta di essere di nuovo qui" disse la ragazza quando ebbero finito. "Lo dico ogni giorno appena entro!"
"Significa che sei emozionata, è una bella cosa. Anche noi siamo felici che tu sia di nuovo qui, Demi."
Le due donne si abbracciarono. Avevano la stessa età, ma erano molto diverse: Rosalie era più alta e aveva i capelli mossi e biondi, talmente splendenti che la luce del giorno sembrava farli luccicare. Demi glieli accarezzò in un gesto forse un po' troppo affettuoso. Erano morbidissimi.
"Scusami! Davvero, non so che mi è preso" disse, scostandosi subito.
"Non preoccuparti, anzi, mi ha fatto piacere ricevere questa coccola."
"Torniamo dagli altri? Dovrò pur cantare, oggi."
"Certo!"
Prima di accendere il microfono, Demi trasse un profondo respiro. Era sempre così emozionata quando stava per cantare!
"Da cosa partiamo, oggi?" chiese al suo manager, che la ascoltava sempre durante le prove.
"Che ne dici di "Don't Do It For Me Anymore"?"
"Va bene."
Era una bellissima canzone, secondo lei. L'aveva scritta pensando ai problemi che aveva avuto in passato, e diceva in sostanza che non ci sarebbe ricaduta mai più. Si schiarì la voce, poi la musica partì e lei iniziò a cantare.
"I see the future without you
The hell was I doing in the past?
Now that I've learned all about you
A love just like ours wouldn't last
 
I won't fall for your games
So don't hate me when I say
That you
Don't do it for me anymore
No, you
Don't do it for me anymore"
"Demi, rifacciamo il ritornello. Quando  dici "you" devi allungare di più l'ultima lettera" le disse l'uomo.
"Ah, okay."
Aveva perso il fiato, se n'era resa conto. Cantava spesso a casa, ma la verità era che non era più così allenata. Non si perse d'animo e riprovò, ma fallì anche quella volta. Tentò ancora e ci riuscì.
"Bene!" esclamò Phil, soddisfatto.
La canzone riprese e proseguì con la seconda strofa, e poi arrivò la parte che piaceva di più a Demi.
"I'm sorry for honesty
I could not bear to lie to you, to lie with you
I'm sorry for honesty
I'm well aware I lied to you when I lied with you"
Subito dopo la sua voce si abbassò, per poi alzarsi improvvisamente con la ripetizione del ritornello. Cantò così bene, e con degli acuti talmente pazzeschi, che coloro che la stavano ascoltando sentirono un brivido scendere lungo tutto il corpo. Non stava semplicemente cantando. Stava dicendo ai problemi del passato che non avrebbero mai più fatto parte della sua vita, li stava sconfiggendo con maggior forza grazie a quella canzone.
"Demi, sei stata grande!" esclamò un coro di voci, seguito da un applauso.
"Grazie a tutti, ragazzi."
Era contenta che fosse piaciuto così tanto il suo modo di cantare, ma in fondo non aveva fatto nulla di straordinario. Aveva però messo il cuore, e tutta se stessa, in quelle parole e nella propria voce e ne andava fiera.
 
 
 
Mackenzie ed Elizabeth, tenendosi per mano, stavano scendendo con i loro compagni per andare a ricreazione. Dopo tre ore di lezione ci voleva proprio una pausa. Mac lo ammetteva senza problemi: per quanto la scuola le piacesse, ultimamente sentiva di non avere energia e non vedeva l'ora che arrivasse quel quarto d'ora in cui poteva staccare la spina e rilassarsi un po'. Adorava anche il momento del pranzo per lo stesso motivo.
"Stai bene?" le chiese l'amica.
Lei fece cenno di no.
"Ascolta, non importa se non hai preso un bel voto nel dettato sulle vocali, okay?"
Beh, forse non importerà a te visto che hai preso una A. Io invece ho una C e è brutto.
Non ricordava se si dicesse “e” o “ed”, ma non se ne preoccupò. Scrisse senza fermarsi e poi passò il foglio all'amica, che lo lesse abbastanza in fretta.
"Non volevo dire che non devi sentirti così, e lo sai."
Elizabeth era davvero brava a scuola. Tra i compagni era una di quelli che leggeva più speditamente. Mac si sentiva una stupida: aveva scritto che anche la "b", la "y" e la "w" erano vocali. Come aveva potuto? Non aveva senso! Per il resto aveva scritto le cinque vocali giuste, e quando la maestra aveva finito di dettarle e aveva detto di scrivere qualche piccola parola che avevano imparato usando quelle lettere e anche alcune consonanti che già conoscevano, lei aveva aggiunto quelle tre lettere alla lista, e poi non aveva scritto nessuna parola. Quindi non aveva rispettato la consegna, e anzi era andata, se così si poteva dire, fuori tema. L'ora dopo avrebbe di nuovo avuto la maestra Beth, che alla fine di quella precedente aveva detto:
"Dopo ti vorrei parlare un momento"
e la bambina era corsa via, spaventata. Chissà, forse avrebbe voluto sgridarla.
Se lo farà avrà ragione pensò. Ho fatto proprio schifo, oggi.
Lizzie le aveva parlato dolcemente, ma lei non aveva ancora risposto. Stavano scendendo gli ultimi gradini, quando Mac sentì che qualcuno la stava chiamando. La voce era dietro di lei. Lasciò la mano dell'amica - chissà perché - e si girò. Il bambino che le voleva parlare era Jeremy. Mackenzie non lo conosceva molto, ma era uno di quelli che non le permettevano mai di sedersi al loro tavolo. Lo facevano praticamente tutti, in realtà, ma lui in particolare.
"No, niente, volevo solo dirti che sei una negra antipatica."
La piccola sbarrò gli occhi. Che cos'aveva detto? Gli scrisse di ripetere e lui prese il foglio e lo strappò.
"Hai capito benissimo" rispose, poi gettò i pezzettini di carta per terra.
Aveva sussurrato, quindi Elizabeth non aveva sentito nulla.
"Che ti ha detto?" le domandò quando furono in cortile.
Nulla, solo che anche lui ha preso un brutto voto nel dettato.
Stava mentendo alla sua unica amica? Bene, così sì che metteva solide basi per costruire un buon rapporto!
"Ecco, vedi? Non tutti sono andati bene."
Mia mamma mi sgriderà, o comunque ci starà male, e anche papà. In questo periodo abbiamo già tanti problemi e io faccio altri casini proseguì la piccola, tristemente.
"Che vuoi dire?"
Elizabeth non sapeva che il papà della sua amica stava male e che erano giorni che lei, la mamma e Hope non lo vedevano. Non era al corrente nemmeno di tutto quello che era successo ultimamente a lei e alla sua famiglia. Non le aveva detto nulla nemmeno quando era tornata a scuola. Quando Elizabeth le aveva chiesto come mai non era venuta a scuola, lei aveva risposto che aveva avuto un po' di febbre; e, quando le due si erano abbracciate, alcuni compagni di classe avevano commentato:
"Gne gne, guardatele, sembrano una coppietta! Perché non vi sposate?"
e avevano iniziato a cantare la marcia nuziale e a ridere. Le due bambine li avevano ignorati, ma in realtà quel commento aveva fatto loro male perché non era stato detto con il tono scherzoso di una semplice battuta, ma come una presa in giro bella e buona.
Niente, non ascoltarmi. Oggi sto poco bene.
"Ultimamente non mi sembri molto in forma, non solo oggi" commentò l'altra, che iniziava a preoccuparsi.
C'era qualcosa che non andava, ne era sicura.
Vado dentro, Elizabeth. Scusa.
Lo scrisse con una serietà e una tristezza che lasciarono la piccola senza parole, ma prima che potesse dire qualcosa Mackenzie era già volata dentro l'edificio. Corse per i corridoi e si chiuse nel primo bagno che trovò. Si sedette sul water e iniziò a mangiare la sua merendina al cioccolato controvoglia. Continuava a combinare casini. Del resto, perché se ne stupiva? Era così da tempo, ormai. Non era riuscita a salvare i suoi genitori, né a impedire che venisse fatto del male a lei e a Hope, non parlava più, soffriva di PTSD, aveva preso un brutto voto e aveva anche mentito alla sua amica. Tutti dicevano che non c'era nulla di sbagliato in lei, ma più il tempo passava, più la bambina si convinceva del contrario. Era sempre più stanca. Le cose non facevano che complicarsi, nella sua vita, e appena qualcosa andava male lei si dava la colpa. Sempre. Stava diventando paranoica.
In quelle due settimane con Catherine si era comportata in modo completamente diverso. La prima volta aveva raccontato molto brevemente quello che era successo, e quando la psicologa le aveva chiesto di disegnare per descrivere cos'aveva provato, aveva lasciato il foglio bianco, dopodiché aveva scritto tre parole:
Ho avuto paura.
Catherine le aveva chiesto di spiegare meglio le sue emozioni, di non tenersi tutto dentro, ma lei era rimasta in silenzio. La psicologa aveva provato di tutto: a dirle parole dolci per tranquillizzarla, a suggerirle di giocare di nuovo con i leoni che continuava a portare, a fare qualche respiro profondo e provare a fare o a scrivere qualcosa, ma niente. Era passata così un'ora di completo e assoluto silenzio da parte sua, mentre Catherine continuava a cercare di aiutarla e lei si isolava sempre più. Non ricordava nemmeno cosa le aveva detto, a volte non aveva neanche sentito la sua voce. Non sapeva perché, ma non aveva avuto voglia di parlare quel giorno. Quando Demi gliene aveva chiesto la ragione, lei aveva risposto:
Non ne ho idea, mamma. Non so cosa dirti.
La seduta che aveva fatto pochi giorni prima, quella settimana, era andata nello stesso modo.
Buttò la carta nel cestino e, dopo essersi presa il viso tra le mani, iniziò a singhiozzare.
 
 
 
Elizabeth continuava a girare per il cortile senza sosta. Camminava sul ghiaino trascinando i piedi. Sapeva che forse poteva dare fastidio a qualcuno, ma adorava troppo sentire il rumore di quei sassolini sotto le scarpe. Mackenzie sembrava essere arrabbiata e triste. Per caso ce l'aveva con lei? Aveva detto qualcosa di sbagliato? Sfregò le mani l'una contro l'altra e decise di andare a cercarla. Se c'era un problema, era meglio risolverlo subito e, se Mackenzie non voleva fare il primo passo, ci avrebbe pensato lei. Sentiva un gran peso al petto, unito ad un'ansia pazzesca. Che cosa poteva aver fatto di male? Forse era stata brusca quando aveva parlato dei voti che avevano preso? Mentre pensava a tutto questo scivolò sulla ghiaia e cadde, ma non batté la testa perché mise le mani a terra e si protesse in tempo. Qualche bambino rise.
"Non guarda nemmeno dove cammina, quella!" sentì esclamare.
Non riconobbe quella voce. Forse era un bambino più grande.
"Infatti, sembra abbia la testa fra le nuvole" commentò un altro.
Lei non vi prestò attenzione. Erano bimbi di altre classi, quindi l'interesse per ciò che dicevano era pari a zero.
"Stai bene?"
Era Beth, l'insegnante di inglese.
"Sì maestra, sono solo caduta. Non mi sono fatta niente" si affrettò a dire, rialzandosi.
Non aveva tempo di parlare con lei, doveva andare dalla sua amica il più presto possibile.
"Fammi vedere" disse questa, in un tono tanto dolce e materno che Elizabeth non seppe dirle di no.
La donna le guardò le mani, le ginocchia, e quando capì che non c'erano ferite o sbucciature trasse un sospiro di sollievo. Le pulì il vestito con un fazzoletto in modo che tutta la polvere andasse via. Aveva un tocco gentile, quella maestra. Le sue mani calde trasmisero sicurezza e calma alla bimba.
"Grazie" le disse, "ora entro."
"La ricreazione non è ancora finita!"
"Lo so, ma ho voglia di stare un po' da sola."
Sorrise per farle capire che era tutto a posto.
"Sicura di star bene?"
Se le avesse detto che Mackenzie non si sentiva un granché e che era preoccupata per lei, e se la bambina fosse venuta a saperlo, probabilmente avrebbero litigato. Decise di non dirle nulla.
"Sì, sì, sto benissimo!" esclamò con un po' troppa enfasi. "È solo che ogni tanto ho bisogno di rimanere da sola."
"Immagino. Succede anche a me, a tutti. Vai pure, piccola, e sappi che se vorrai parlare di qualunque cosa io sono qui, d'accordo?"
"Certo, grazie maestra!"
"Di nulla, tesoro."
La donna le diede un bacio e poi la lasciò andare.
Elizabeth entrò con calma a scuola in modo che l'insegnante, che la stava ancora guardando, non sospettasse niente. Si diresse in classe, ma non trovandovi nessuno scese e andò in bagno.
"Mac, sei qui?" chiamò. Sentì un rumore e capì che si trovava nell'ultimo dei bagni delle femmine. Mackenzie girò la chiave e aprì. "Hai pianto?"
Era inutile porre quella domanda, si vedeva lontano un miglio. La bimba aveva gli occhi rossi e sembrava molto scossa.
Annuì comunque in risposta.
"È colpa mia? Ho fatto qualcosa che non andava?"
No, Lizzie. Non si tratta del voto, né di quello che hai detto. Sapevo che non volevi farmi star male, ma solo dirmi che prendere un brutto voto non è una tragedia.
La mano di Mackenzie tremava talmente tanto che la sua scrittura era a malapena leggibile.
"Esatto! Vedrai che tua madre non se la prenderà troppo."
Non ne sarei così sicura.
"Se accadrà, sono convinta che riuscirai a dimostrare sia a te stessa che a lei che nei prossimi dettati sarai bravissima, e non solo in quella materia. Allora, mi vuoi dire perché sei scappata così?"
Mac le fece cenno di chiudere a chiave la porta e la bambina ubbidì. Cominciò a scrivere e le raccontò tutto quello che era successo in quelle ultime settimane a lei e alla sua famiglia. Fu difficile e doloroso, ma ci riuscì. Scrisse ogni cosa senza piangere, cercando anzi di ricacciare indietro le lacrime che minacciavano di bagnare il foglio, e quando terminò e lo passò all'amica, si rese conto di averlo riempito sia davanti che dietro. Elizabeth lo lesse con attenzione, anche più volte, come se volesse sincerarsi di aver capito bene, mentre l'amica la guardava sentendo il cuore battere all'impazzata.
"Mi dispiace per tutto quello che sta succedendo, Mac" disse infine Lizzie. "Perché non me ne hai parlato prima? E soprattutto," e allora la sua voce si alzò e il suo tono si fece quasi adirato, "perché mi hai mentito, stamattina? Perché non mi hai detto che Jeremy ti aveva offesa? Se te lo stai chiedendo sì, sono arrabbiata, perché avresti dovuto venire a raccontarmi tutto subito. Le vere amiche si raccontano ogni cosa e non hanno segreti." In quel momento la campanella suonò. Mackenzie stava per aprire la porta e tornare in classe, ma Elizabeth la fermò. "No, aspetta!" La sua voce di bambina, quand'era piena di rabbia, cambiava completamente. Si faceva più grossa, non sembrava nemmeno la stessa. "Non puoi andartene così!" Le prese le mani e gliele strinse. "Dimmi ogni cosa, per favore."
Io… iniziò Mackenzie, ma poi si bloccò.
"Parlami!"
Ora Elizabeth era più dolce, la la stava quasi implorando. Era preoccupata per lei e fu allora che Mac capì di non poterle, e non volerle, più mentire.
Io non ti ho detto nulla non perché non desideravo che tu sapessi ogni cosa, ma perché, ecco, tu sei sempre così allegra, sorridente e positiva nonostante tutto! I bambini ci prendono in giro, non ci fanno sedere al loro tavolo, e anche se ci stai male il tuo sorriso non scompare mai. Io, invece, in questo periodo sto avendo dei problemi a casa e sono sempre così triste e spaventata! Non volevo farti entrare nell'oscurità che avvolge e riempie la mia mente e il mio cuore.
Elizabeth restò a bocca aperta per qualche secondo. Le parole di Mackenzie l'avevano colpita tantissimo. Erano così profonde e piene di dolore, che per un momento la piccola non seppe né che dire, né che fare; poi la abbracciò di slancio, facendola quasi cadere sul pavimento da quanta forza ci mise.
"Non devi avere paura di questo" mormorò con dolcezza. "Stai soffrendo tantissimo, lo posso solo immaginare, ma la tua mente e il tuo cuore sono bellissimi. Sono pieni di affetto per me, per la tua famiglia, e… io ti voglio bene, Mackenzie! Hai capito? Ti voglio bene! Ogni cosa si sistemerà. Non importa se gli altri bambini non ci considereranno, noi due resteremo insieme, parleremo, ci divertiremo, giocheremo. Magari un giorno io ti inviterò a casa mia e un altro tu farai lo stesso con me, e potremo fermarci a dormire assieme. Sarebbe bellissimo, non credi?"
Stava cercando di consolarla e di farla sentire meglio grazie alla sua amicizia e a quei piccoli progetti futuri, che però per i bambini sono molto importanti.
Sì, mi piacerebbe molto giocare con te e venire a casa tua, e anche invitarti scrisse Mackenzie non appena si fu calmata. Anch'io ti voglio bene, Lizzie!
"Lo so. Ora facciamoci una promessa: non ci diremo nessuna bugia, mai; e se per qualche motivo dovesse capitare, racconteremo subito la verità l'una all'altra."
Va bene, promesso.
Si appoggiarono la mano sul cuore, come per giurarselo e poi se la strinsero.
"Prima sono caduta e mi hanno riso dietro" riprese Elizabeth. "Non so chi fossero quei bambini, ma li ho ignorati."
Forse dovremmo raccontare a qualcuno di queste prese in giro, non credi? Magari alle maestre, o ai nostri genitori.
Mackenzie non sapeva se quella fosse la cosa giusta da fare. Probabilmente stava ingigantendo il problema.
"No, secondo me non serve. Vedrai che si stancheranno presto e ci lasceranno in pace."
L'altra avrebbe voluto chiederle come faceva ad esserne così sicura, ma lasciò perdere e decise di fidarsi.
Le piccole non capivano che la situazione era seria. Le prese in giro, le offese, l'esclusione dalla classe lo sono sempre. A volte, però, chi è vittima di bullismo non se ne rende conto subito. Cerca di non darci peso, di soffrire il meno possibile. Purtroppo, però, i bulli non si stancano; e Mac e Lizzie non l'avrebbero capito per molto tempo.
Una volta tornate in classe Elizabeth si scusò con la maestra per entrambe, dicendo che era colpa sua se erano in ritardo e lei rispose che, per quella volta, avrebbe chiuso un occhio. Alla fine della lezione chiamò Mackenzie alla cattedra e le chiese di uscire un momento con lei.
"Come stai, cara?" le domandò.
La bambina incontrò il suo sguardo e, per un momento, si perse nei suoi occhi verdi, così simili a quelli del padre, e poi nei lineamenti dolci del viso della donna, che somigliavano un po' a quelli della madre. Per un momento pensò di raccontare alla maestra la verità, ovvero che stava passando un brutto periodo a casa, ma poi decise di lasciar perdere. In fondo quella donna non avrebbe potuto far niente per aiutarla, e di certo il fatto che stesse attraversando momenti difficili non giustificava il fatto che non fosse andata bene in quel dettato.
Sto bene, Beth. Sono solo molto stanca.
"Come mai?" Dato che la bimba non scriveva niente, la ragazza continuò: "Sai, mia mamma mi dice sempre che gli occhi sono lo specchio dell'anima; e anche se sorridi, io vedo che c'è qualcosa che non va. Sotto quella maschera di felicità nascondi tristezza, e anche ansia forse."
Sembri la mia psicologa scrisse la piccola.
La cosa non le dava fastidio, anzi, solo che la colpiva il fatto che una sua insegnante le avesse detto una cosa tanto profonda.
"Diciamo che qualcosa ne capisco."
Aveva studiato psicologia dello sviluppo al liceo e aveva anche frequentato un corso più approfondito all'università, assieme a quelli di inglese, francese e spagnolo, quindi se ne intendeva.
Okay, ho qualche problemino a casa.
L'aveva confessato, alla fine; e in quel momento sentì di essersi liberata di un gran peso.
"Ti ascolto."
Si spostarono in un angolo del corridoio e fu lì che la bambina iniziò a scrivere. Raccontò anche a lei tutto, omettendo però il fatto che i compagni non la trattavano bene. La signorina Rivers lesse ogni cosa. Sapeva che Mackenzie aveva avuto un passato traumatico, ma non aveva idea che soffrisse di PTSD.
"Avresti dovuto venire a parlarmene prima, Mackenzie" le sussurrò. "Io vi ascolto volentieri, ma voi, tutti voi, dovete aprirvi con me se volete che vi aiuti."
Io non ho bisogno di aiuto. Tu non puoi fare nulla per me.
Sperò di non essere sembrata brusca con quelle affermazioni.
"In realtà ne hai bisogno, magari non te ne rendi conto ma cerchi aiuto. Ti sei appena sfogata con me, e chi non vuole essere aiutato non lo fa con nessuno, credimi."
Ti assicuro che mi impegnerò di più e andrò molto meglio le prossime volte! esclamò Mackenzie con convinzione. In questi giorni sono stata molto deconcentrata, ma non accadrà più.
"So che non mi deluderai, piccola. Vieni a parlarmi se ne senti il bisogno. Io ci sono."
La maestra abbracciò anche lei, poi le due si salutarono e Mackenzie tornò in classe.
 
 
 
Era ormai ora di pranzo e Bill si alzò per andare a mangiare nel solito posto, quella trattoria in cui aveva portato Andrew mesi prima.
"Bill perdonami, ma stavolta non vengo" gli disse lui, atono.
Il giorno prima l'amico l'aveva praticamente costretto ad uscire da quell'ufficio, solo per aiutarlo, per farlo reagire, e anche se Andrew aveva capito che si era comportato così per il suo bene, una volta trovatosi in mezzo a tanta gente si era sentito a disagio. Non l'aveva spiegato a Bill per non farlo sentire in colpa.
"Amico, perché? So che la depressione ti fa star male e che fatichi ad uscire, ma a me dispiace se ti chiudi qui dentro tutto il giorno."
Bill era affranto. Non stava riuscendo  ad aiutarlo quanto avrebbe voluto.
"Devo uscirne da solo. Sono io che devo fare il lavoro più grande. Non so cosa mi faccia o non mi faccia bene, ora come ora. Semplicemente, oggi preferisco restare qui. Sento che avrei un attacco di panico se venissi fuori, in mezzo a tutte quelle persone."
"Okay, allora non ti forzo" disse l'altro, comprensivo, "ma resto qui a farti compagnia."
"Non è necessario, davvero. Vai pure, ho bisogno di stare un po' da solo."
Cercò di sorridergli per fargli capire che andava tutto bene, ma entrambi sapevano che non era così.
"È per Carlie, vero? È perché oggi è il suo compleanno e quindi stai male e non vuoi compagnia."
"Sto particolarmente di merda, oggi, se proprio vuoi saperlo; ma anche se non fosse il suo compleanno, non credo che me la sentirei. Dopo pranzo voglio andare in cimitero a salutarla."
"Così non mangerai niente. Non ci puoi andare stasera?"
"In effetti sì, se non dovrò lavorare oltre le 19:00."
"Allora vacci quando esci. Ora stai tranquillo e mangia qualcosa, per favore. Non farmi preoccupare, okay?"
"Va bene, promesso."
"D'accordo, ci vediamo dopo; ma se hai bisogno chiamami."
"Certo. Ciao."
"Hai il pranzo, vero? Non è che vuoi rimanere qui per non mangiare niente."
Ultimamente Andrew mangiava poco, e anche questo preoccupava l'altro uomo e lo insospettiva.
"Mi sono portato un panino da casa." Vedendo che Bill rimaneva sulla porta, perché evidentemente non gli credeva, il più giovane tirò fuori una scatola di plastica e la aprì. Dentro c'era un grande panino avvolto nella carta stagnola. "Visto?"
"Perdonami, è che ti voglio bene e mi preoccupo per te."
Andrew, colpito da quella sincera manifestazione d'affetto, andò verso di lui e lo abbracciò.
"Anch'io te ne voglio. Sei un amico speciale, Bill."
La sua voce si ruppe a causa dell'emozione.
"Wow, è un bellissimo complimento! Comunque anche tu lo sei, per me."
Detto questo si salutarono ed Andrew rimase solo. Si risedette alla scrivania e lavorò per un altro po', poi decise di mangiare anche se non aveva molta fame. Addentò il primo morso con una lentezza a dir poco esasperante e fece fatica a mandar giù il boccone.
"Sto così male!" si disse. Non voleva fare vittimismo, ma a volte non poteva fare a meno di dirlo. Una piccola e silenziosa lacrima gli rigò il volto. "Mi manchi, Carlie! Mi manchi, porca puttana; e la tua assenza, oggi, mi pesa ancora di più. È come un macigno sul cuore."
Finito di mangiare e bere buttò via le cartacce e la bottiglietta d'acqua e rimase lì, fermo su quella sedia, per un tempo indefinito, con la testa piena di pensieri confusi e tristi. Si sentiva sempre più svuotato di ogni energia.
Il pomeriggio passò lentamente, come la mattinata del resto. Andrew lavorò senza mai fermarsi, dando tutto ciò che poteva.
"Sei stato bravo" gli disse Bill entrando nel suo officio e vedendo le carte. "Per il tuo processo di lunedì è tutto pronto."
"Già, tu a che punto sei con il tuo?"
"Dovrò restare ancora un po' qui, ma ho quasi finito."
"Vuoi che rimanga a farti compagnia?"
"No tranquillo, vai pure da tua sorella e poi a casa, ti vedo stremato."
"In effetti lo sono. Grazie Bill, per tutto intendo. Un giorno mi sdebiterò."
"Bah, non devi. Tu per me faresti lo stesso, giusto?"
"Sì."
"Allora siamo pari; e comunque, quando le cose si fanno con il cuore, non bisogna sdebitarsi di nulla."
Si strinsero la mano e si salutarono, poi Andrew uscì. Quella giornata di lavoro era finita.
L'autobus arrivò dopo poco, vi salì e si fermò quando vide che da lì avrebbe potuto proseguire a piedi fino al cimitero, dato che era abbastanza vicino. Arrivò quando il custode aveva le chiavi in mano e stava per chiudere.
"Appena in tempo" si disse.
"Signore, sto per…" Avrebbe voluto dirgli di tornare il giorno seguente, ma vedendo la stanchezza e il pallore sul volto dell'uomo, e leggendo il dolore nei suoi occhi, cambiò idea. "Vada, ma solo per qualche minuto."
"La ringrazio!"
Strinse la mano anche a lui. Aveva fatto uno strappo alla regola senza nemmeno conoscerlo, non era cosa da poco.
"Si figuri. Ora entri, su."
Si avvicinò alla tomba della sorella e si accovacciò lì accanto.
"Non sono riuscito a portarti nessun fiore, Carlie, ma comunque buon compleanno."
Un singulto gli mozzò il fiato, tanto che dovette sedersi per terra perché gli era parso di stare per svenire. Cercò di respirare profondamente, ma era inutile: quando veniva lì, provava un misto di dolore, tristezza, senso di mancanza e sollievo perché sentiva la sorella più vicina, ma erano le emozioni negative a predominare, come sempre.
Guarirò, un giorno. Non so quando accadrà, ma succederà. Voglio uscire dalla depressione, solo che spesso me ne dimentico perché sto troppo male.
Aveva appena detto una grande verità, si rese conto. Demi non faceva che incoraggiarlo, così come la sua psicologa e il pensiero di voler guarire, che comunque aveva sempre avuto fin da quando aveva tentato di uccidersi, lo fece sentire un po' più forte.
"Ho tentato il suicidio" mormorò.
Era vero, si era detto che non gli importava se sarebbe morto o no, ma comunque aveva compiuto quel gesto. Non aveva quasi mai pronunciato quelle tre parole, come se temesse che, facendolo, la sua situazione sarebbe peggiorata.
Che cavolo vuol dire? Non ha senso!
"Volevo suicidarmi" disse ancora.
Voleva, appunto, parlava al passato. Ora, invece, che cosa desiderava? Vivere? O tornare a farlo? Oppure continuare a sopravvivere? Non riuscì a darsi una risposta. L'unica cosa di cui era certo era che, una volta passato quel brutto periodo, avrebbe voluto rivedere Demi e le loro piccole. Gli mancavano così tanto! Poco dopo, a malincuore, dovette salutare la sorella. Mandò un bacio alla fotografia e uscì, sentendosi ancora più sconfortato.
Tornato a casa andò in camera sua e frugò nei vari cassetti. Non ci aveva più pensato per tutto il giorno - voleva cercare di non impazzire di dolore mentre lavorava -, ma era sicuro di avere ancora quel disegno. Doveva per forza essere da qualche parte! Mise sottosopra la camera, guardò in ogni angolo o cassetto, persino negli armadi, buttò a terra oggetti e festiti, poi andò nella stanza della sorella e fece lo stesso, ma niente. Pensò che avrebbe potuto essere a casa dei suoi genitori, ma sapeva che  non avrebbe avuto il coraggio di tornarci, non in  quello stato. Ripensò a quando erano morti e al trasloco suo e di Carlie, e fu allora che ricordò: era stata proprio la ragazza a stracciare il disegno, staccandolo dal muro della camera di Andrew e facendolo in mille pezzi prima di gettarlo nel cestino. Quando il fratello, entrando, si era messo a piangere e le aveva domandato perché aveva buttatto via un ricordo che per entrambi era tanto prezioso, lei si era  sentita tremendamente in colpa.
"Non volevo, Andrew!" aveva singhiozzato, crollando sul pavimento. "Sono arrabbiatissima con la vita per quello che è successo e me la sono presa con la prima cosa che mi è fcapitata sottomano. Non ho nemmeno pensato che potesse essere. … altrimenti non avrei mai… oddio, perdonami, ho fatto una cosa orribile, mi dispiace!"
Era scoppiata in un pianto inconsolabile. Per l'ora successiva Andrew aveva cercato di tranquillizzarla dicendole che era solo un disegno, ma  per entrambi quell'immagine era molto di più.
"Cazzo" disse, dopo essere tornato al presente. "Non ce l'ho più."
Non era arrabbiato con Carlie, solo tremendamente afflitto.
"Così ti ricorderai di me anche quando non ci sarò", gli aveva detto da bambina.
"Lo faccio ogni giorno, sorellina, ma non avere più quel disegno mi strazia il cuore."
 
 
 
Quando Demi seppe che Mackenzie aveva preso un brutto voto, cercò di capirne le ragioni e la bambina le rispose la stessa cosa che aveva detto alla signorina Rivers quella mattina, ovvero che si sentiva sotto stress. I colloqui con gli insegnanti sarebbero stati a dicembre e la ragazza era sicura che, per allora, Mac sarebbe migliorata. Riuscì comunque a prendere un appuntamento con la signorina Rivers il lunedì, lo stesso giorno in cui lo chiese e andò a scuola il pomeriggio per parlarle, sperando di non fare tardi da Catherine ma pensando che in fondo anche quella era una cosa importante. Voleva capire cosa l'insegnante pensava di quanto era successo. Aveva lasciato le bambine con Madison.
Beth la aspettava nell'atrio. La salutò e le due andarono in aula insegnanti, che in quel momento era vuota. Si sedettero e Demi le chiese spiegazioni.
"Secondo me è solo molto stanca, signorina Lovato" le rispose. "Non si può essere sempre al top."
"Non ho mai preteso che Mackenzie lo fosse. Non sono uno di quei genitori che vuole che il proprio figlio porti a casa ogni giorno una A, solo che Mac si è buttata parecchio giù e la cosa mi preoccupa, vista la nostra situazione."
"Sì, me ne ha parlato. Mi dispiace per quello che state passando. Ciò che posso fare è cercare di starle accanto. Le ho detto che puàò venire a parlarmi quando se la sente, è una cosa che ho sempre ribadito più volte ai miei studenti. Noi insegnanti non siamo solo qui per insegnare, siamo anche esseri umani che hanno voglia di aiutare i bambini, se possibile; ed io so ascoltare."
Non aveva mai smesso di sorridere mentre parlava e Demi rimase positivamente impressionata da lei.
"È una brava maestra" commentò infatti, e poi la ringraziò.
"Faccio solo il mio dovere."
"No, non è vero. Ci sono insegnanti che se ne fregano se i loro studenti stanno male, o che non capiscono il loro disagio, e mi creda, io ne ho conosciuti. I miei erano così. Sarei stata davvero molto felice di avere una maestra come lei, signorina Rivers!" esclamò, mentre gli occhi le si riempirono di lacrime.
Chissà, forse se anche solo un insegnante avesse capito che lei era vittima di bullismo, o che si tagliava e che soffriva di altri disturbi, sarebbe stato in grado di farle capire che aveva bisogno di aiuto e la sua vita sarebbe stata diversa. Tuttavia, era consapevole di aver commesso lei stessa degli errori sotto quel punto di vista. Se il suo grido era rimasto inascoltato, era perché non aveva alzato abbastanza la voce.
"La ringrazio. Mi ha detto una cosa molto bella. Comunque io credo che non ci sia da preoccuparsi. Mackenzie è stressata e l'ansia fa perdere la concentrazione. Si riprenderà presto, ne sono
sicura!"
Dopo quel colloquio Demi tornò a casa sentendosi positiva e fiduciosa. Non avrebbe mai perso la fiducia che riponeva in sua figlia e la signorina Rivers l'aveva accresciuta.
 
 
 
Quel giono, da Catherine, Mackenzie si stava comportando come aveva fatto altre volte.
Mi dispiace, non ci riesco scrisse guardando i leoni di peluche.
"Non preoccuparti. Vuoi disegnare, o parlare d'altro? Magari potresti farmi un disegno riguardante la tua ansia, il mostro a cui l'avevi associata."
Non mi va.
La poca, o per meglio dire assente, reattività della bambina preoccupava sempre più la psicologa. La bambina avrebbe però dovuto trovare in se la forza di uscire da quel momento di stallo, Catherine poteva solo darle degli stimoli per farlo.
"Di cosa vuoi parlarmi?"
Elizabeth è fantastica, credo che sia la mia amica del cuore sai?
"Wow, che bello!"
Sì, è meravigliosa, molto dolce e sensibile, mi trovo benissimo con lei.
"Con gli altri compagni, invece?"
Non ho legato con nessun altro, per il momento, ma non importa. Meglio avere pochi amici ma buoni, no?
Mackenzie sorrise per nascondere la tristezza che provava nel sentire quegli insulti che ricevava ogni giorno, soprattutto sul colore della propria pelle. Aveva parlato spesso con Lizzie di questo, ma quando una diceva che forse sarebbe stato meglio raccontare tutto, visto che i bambini non si stancavano di offenderle, l'altra la convinceva a non farlo e le faceva capire che rimanere in silenzio era la cosa giusta da fare. Tuttavia,  anche se all'inizio non era stato così, col passare dei giorni si erano rese conto che stavano male per quel che succedeva. Era come se si trovassero in una sorta di circolo vizioso dal quale non riuscivano ad uscire. Nascondevano la tristezza dietro bellissimi sorrisi e veniva loro automatico.
"Tu piangi qualche volta?" chiedeva a volte Elizabeth a Mac, riferendosi ai bulli che le offendevano.
No; e tu?
"No. Vorrei, ma non ci riesco."
Già, anch'io.
"È vero, ma non c'è nulla di male nel conoscere nuove persone, anzi" osservò Catherine.
Lo so, ma a me basta avere Lizzie accanto. Sto bene così.
La donna, vedendo il sorriso e la felicità della bambina, si convinse che stava dicendo la verità. Mackenzie, in cuor suo, sperò che si accorgesse del suo dolore, così come pregava che la mamma lo comprendesse, ma non accadeva mai. Stava diventando molto, troppo brava a mascherare quella parte di se stessa.
Passò il resto della seduta a parlare della sua nuova amica, e quando usc', Catherine disse a Demi che avrebbe voluto parlarle.
"Sì, volevo farlo anch'io" ammise la ragazza.
Presero quindi un appuntamento, ma la psicologa non riuscì a darglielo quella settimana.
"La prossima va bene?"
"Certo!"
 
 
 
Demetria aiutava Mackenzie a fare i compiti tutti i pomeriggi, ma avendo notato che si era buttata un po' giù ora cercava di starle ancora più dietro.
Mamma, sono stanca!
Era passata una settimana e mezza e ottobre volgeva ormai al termine. Era pomeriggio e la bambina stava facendo matematica da circa due ore. Stava imparando le addizioni ed era piuttosto brava, ma non ne poteva più ed era sfinita.
"Su amore, ancora due e poi abbiamo finito" la incoraggiò la mamma. "Allora, quanto fa due più cinque?"
Sei?
"No, prova a contare con le dita."
Mackenzie si concentrò e lo fece.
Uffa, fa sei insistette.
Demi sospirò, sperando che la piccola non l'avesse udita. Quando si impuntava su quelle cose era difficile non perdere la pazienza. La ragazza provava a stare calma, ma non sempre ne era capace. Comunque, da quando sua figlia aveva iniziato la scuola notava una cosa: era molto brava nelle materie umanistiche e meno in quelle scientifiche, proprio come lei. L'aveva adottata, ma sotto quel punto di vista era come se avesse preso un lato del suo essere e ciò la faceva sorridere.
Sono ancora convinta che faccia sei.
"Va bene, allora proviamo con un altro metodo." La ragazza andò in cucina e aprì la credenza, tirando fuori alcuni cioccolatini. Li portò in salotto e li appoggiò sul tavolo. "Mia mamma mi faceva sempre contare in questo modo quando non riuscivo a capire. Prova."
Sette! rispose subito.
"Brava! Visto? Con i cioccolatini funziona. Ora scrivilo e poi possiamo mettere via e preparare lo zaino per domani."
Demi esigeva che Mackenzie si facesse la cartella per il giorno dopo appena terminava i compiti per casa. La piccola a volte protestava dicendo che ci avrebbe pensato il giorno successivo, ma la mamma era molto rigida a riguardo.
Dopo posso mangiare un paio di cioccolatini?
"Certo."
Demi era andata a parlare con Catherine il giorno prima.
"Il percorso si sta rivelando più complicato del previsto" le aveva detto la psicologa. "Purtroppo, non vedo miglioramenti in tua figlia. Sembra quasi che lei non riesca a ricordare, o che non voglia, non lo so. Sono dubbiosa su questo punto. Non capisco se ha paura di farlo, o se proprio non vuole. Dovremo lavorarci con molta, moltissima calma."
"Come mai, secondo te, si comporta così?"
"Non ne ho idea, tu hai notato qualcosa di diverso in lei, nel modo in cui si comporta?"
"No, è sempre tranquilla, a scuola sta andando bene, i suoi voti migliorano. Ti ha detto che la settimana scorsa ha preso una C in inglese?"
"No, mi racconta soprattutto di Elizabeth e di quanto si trovi bene con lei e dice che con gli altri compagni non è ancora riuscita a legare molto bene, ma la cosa non sembra pesarle. Parla solo di questo, Demi."
"Mi stai dicendo che non ricorda proprio più nulla?"
"Esatto, non menziona nemmeno i suoi genitori, niente di niente."
"Dio! Non lo sapevo, non me l'aveva detto."
Abbassò la testa per un momento. La situazione si complicava.
"Quindi a scuola la vedi bene?" le domandò ancora Catherine.
"Sì. Io… insomma, non credo abbia problemi con i compagni." Aveva fatto altri colloqui con tutti gli insegnanti in quei giorni. "Ho parlato con le sue maestre e hanno detto che non hanno notato nulla."
Demi non credeva che sua figlia fosse vittima di bullismo. Lei lo era stata e se anche Mackenzie avesse avuto questo problema, pensava, se ne sarebbe sicuramente accorta. Il bullismo è un fenomeno spesso nascosto, la ragazza lo sapeva anche troppo bene, ma forse si stava semplicemente preoccupando troppo. In ogni caso, si era detta che sarebbe stata attenta.
"Chi soffre di PTSD a volte fa fatica a relazionarsi con le persone. Io credo che Mackenzie abbia questa difficoltà: si è legata ad Elizabeth ma non riesce a farlo con altri. Forse bisogna solo darle tempo. Proverò a cambiare strategia, a non farle portare più i giocattoli dal prossimo mese, e vedremo."
"Di che strategia parli?"
Quando la psicologa gliela illustrò, Demi si ritrovò d'accordo. Forse stavano per trovare la strada giusta.
 
 
 
Anche se c'erano alcune cose negative a scuola, Mackenzie ci andava molto volentieri per un unico, ma importantissimo motivo: stare con la sua amica Elizabeth. Dal giorno in cui avevano discusso e poi fatto pace, le due bambine si erano unite ancora di più. Si incontravano nell'atrio della scuola. Erano le prime ad arrivare e passavano alcuni minuti da sole prima che giungessero altri bambini più grandi.
"Hai fatto i compiti?" le chiedeva a volte Elizabeth.
Mackenzie le rispondeva sempre di sì e la sua amica le domandava una mano per capire delle cose che lei non aveva compreso. Si aiutavano a vicenda: Mackenzie non era molto brava in matematica, materia nella quale l'amichetta se la cavava piuttosto bene. Elizabeth, invece, aveva qualche problema in geografia; ma oltre a darsi una mano per i compiti, parlavano tantissimo e lo facevano sempre, anche quando non avrebbero potuto. Mentre salivano le scale con i loro compagni, non smettevano un attimo e continuavano a quel modo fino a quando arrivava l'insegnante. Durante la lezione cercavano di stare attente, anche se ogni tanto scappava loro qualche parola. A volte le insegnanti le scoprivano e le sgridavano, ma al contempo cercavano di rafforzare la loro amicizia. Per esempio, se i bambini dovevano fare un lavoro di gruppo, loro due venivano sempre messe insieme.
Durante il pranzo si sedevano allo stesso tavolo, perché gli altri bimbi non le volevano.
Quando Mackenzie tornava a casa, più che raccontare della scuola, parlava della sua amica dicendo:
Sapete di cosa ho parlato oggi con Elizabeth?
oppure:
Lizzie mi ha detto che ha una casa delle bambole più grande della mia e che quando andrò a trovarla me la farà vedere!
A volte Demi si annoiava un po' sentendo sempre quei discorsi, ma non lo dava a vedere e si concentrava solo sul fatto che era felice perché la sua bambina aveva una vera amica.
Mackenzie non aveva esercizi di matematica da svolgere, grazia al cielo. La mamma aveva fatto bene a forzarla a portarsi avanti, il pomeriggio precedente. Finiti i compiti chiese:
Mamma, quando viene papà?
Ancora quella domanda!
"Verrà presto, vedrai."
Hope, che fino a quel momento era stata seduta sul tappeto a giocare, si alzò ed esclamò:
"Dici e no viene!"
Infatti sottolineò la sorella.
Ogni volta che parlavano del papà e domandavano di lui, le bimbe diventavano tristi e a Demi si spezzava il cuore. Avrebbe voluto e dovuto rassicurarle, dire loro che le cose sarebbero migliorate, ma non riusciva a tranquillizzare se stessa e quindi le risultava difficile farlo con le figlie.
"Lo chiamerò e gli dirò che gli mancate, okay? Promesso!"
Le piccole si accontentarono di quella risposta.
Demi lo fece, ma il fidanzato non rispose e le inviò un messaggio dicendole che le avrebbe telefonato lui non appena si fosse sentito
meglio.
Era sabato e nel pomeriggio Mackenzie andò da Padre Thomas. Negli incontri precedenti il Parroco le aveva letto e spiegato altre parabole: quella della moltiplicazione dei pani e dei pesci, per esempio, o quella dei talenti. Le aveva anche raccontato di alcune guarigioni fatte da Gesù, soffermandosi in particolare su quella del cieco di Gerico e poi le aveva parlato della resurrezione di Lazzaro. La bambina aveva imparato tantissime cose e le ricordava tutte alla perfezione, rispondendo bene a qualche domanda che ogni tanto l'uomo le poneva.
"Mackenzie," le disse quando Demi se ne fu andata, "ne parlerò anche con i tuoi genitori, ma volevo dirti che, tra un po', battezzerò te e Hope."
La bambina si illuminò.
Davvero? Quando? Dai, dimmelo, quando?
Il cuore iniziò a batterle fortissimo e provò una gioia così grande che credette di non averla mai sentita prima d'allora.
Lui le sorrise. Era bello vederla felice.
"Beh, ci vorrà ancora un mesetto circa, ma ormai sei pronta. Dobbiamo solo imparare le ultime cose, che sono comunque importantissime."
D'accordo.
"Bene, cominciamo la lezione allora?"
Certo! esclamò entusiasta.
"La scorsa volta ti ho parlato della resurrezione di Lazzaro. Giovanni, nel suo Vangelo, subito dopo questo episodio racconta dell'entrata di Gesù a Gerusalemme, ma prima di parlare di questo, vorrei leggerti un brano di Luca. Tratta di Gesù e i bambini, e penso che sarà interessante, per te, saperne qualcosa. Forse hai già sentito questa lettura in chiesa."
Mackenzie rifletté sul fatto che era più di un mese che non andava a messa. Con tutto quello che stava succedendo, né lei né la mamma ci avevano più pensato. Ora comunque era lì per una lezione di catechismo, e sperò in cuor suo che il Signore l'avrebbe perdonata per non essere andata nella sua casa a pregare. La bambina guardò il Padre e si mise in ascolto.
"Gli presentavano anche i bambini perché li accarezzasse, ma i discepoli, vedendo ciò, li rimproveravano. Allora Gesù li fece venire avanti e disse: «Lasciate che i bambini vengano a me, non glielo impedite perché a chi è come loro appartiene il regno di Dio. In verità vi dico: Chi non accoglie il regno di Dio come un bambino, non vi entrerà»."
Wow! Gesù amava moltissimo i bambini, proprio come avevi detto tu qualche mese fa osservò Mackenzie.
"Esatto. L'ha fatto sempre, continua tuttora."
Questa cosa che hai letto è successa a Gerusalemme?
"Non si sa. San Luca non dà indicazioni per capirlo. Forse è accaduta in uno dei villaggi che Gesù attraversava per recarvisi. Non si dice nemmeno chi siano le persone che gli portavano i bambini. Secondo te?"
Le loro mamme ipotizzò.
"Già, lo penso anch'io. Le mamme vedevano in Gesù un simbolo di bontà divina, e quindi gli portavano i loro piccoli perché li benedicesse. Luca dice "accarezzare", ma in realtà intende "benedire". Comunque, Gesù lo fa attraverso il contatto umano, e questo è molto importante. I discepoli, però, temendo che venisse disturbato, sgridavano queste povere mamme che in realtà non avevano fatto niente di male. Con le frasi che pronuncia, Gesù vuole far capire che loro non hanno nessuna colpa, appunto, e che i bambini devono entrare in contatto con lui, perché Dio ha promesso il Regno dei Cieli a chi è povero di spirito, piccolo e umile, e quindi in primis ai bambini, che tra l'altro sanno riconoscere la bontà nelle persone molto meglio degli adulti. A volte noi abbiamo una visione terrena, e non divina delle cose. Guardiamo troppo a ciò che abbiamo qui e non a quel che ci aspetta un giorno, ovvero la vita eterna. Soltanto coloro che sanno essere umili e poveri di spirito, potranno entrare in Paradiso."
Quindi per andarci devo essere sempre brava e buona?
"Nessuno riesce ad esserlo sempre, tesoro, ma io ormai ti conosco, e so che sei una bambina buonissima. Sicuramente un giorno andrai in Paradiso."
Mackenzie sorrise e pregò che questo avvenisse il più tardi possibile. Non voleva morire com'era successo ai suoi genitori. Come accadeva ogni volta che ci pensava, la piccola si rattristò. Sentiva la gola riarsa e le lacrime non ci avrebbero messo molto a scendere. Deglutì e le ricacciò indietro con tutta la forza di cui era capace.
Scusami scrisse poi, vedendo che il Padre la stava guardando.
"Non preoccuparti. Vuoi parlarmi di come ti senti? Sei triste per quello che ho letto?"
Il Parroco lo riteneva poco probabile visto che era una lettura allegra.
No, è che il Paradiso mi fa pensare ai miei genitori.
Non aggiunse altro e l'uomo annuì. Aveva capito.
 
 
 
Demi era salita di nuovo in macchina. Aveva anche Hope con sé e l'aveva portata dentro per accompagnare Mackenzie. Le sarebbe piaciuto rimanere fuori dalla stanza ad aspettarla, ma la piccola si era messa a piangere e poi aveva iniziato a sbadigliare, quindi la mamma aveva preferito metterla nel seggiolino in modo che potesse dormire un po'. Era scivolata da poco in un sonno profondo. Demi la stava guardando dormire quando le squillò il cellulare. Pensando che fosse Andrew lo tirò fuori subito, piena di aspettative e di speranze, ma poi vide un altro nome sullo schermo:
Selena.
L'aveva sentita solo via SMS nelle ultime settimane, raccontandole comunque tutto ciò che era successo. Rispose.
"Pronto?"
"Pronto Dem, sono io. Perché bisbigli?"
"Hope sta dormendo."
"Capisco. Ti disturbo?"
"No, figurati!"
"Volevo chiederti se possiamo incontrarci, anche solo per chiacchierare. Ho poco tempo perché devo tornare al lavoro, ma se puoi dimmi dove sei e ti raggiungo."
"Volentieri!"
Le diede l'indirizzo e, dopo dieci minuti, l'amica era lì. Demi scese dalla macchina e corse ad abbracciarla.
"Mi sei mancata un casino!" esclamò.
"Anche tu."
Salirono nell'auto di Demetria e cominciarono a parlare prima delle loro questioni personali e poi di lavoro.
"Sto provando a contattare Lil Wayne" disse Demi. "Ho sempre voluto fare una collaborazione con lui e spero di averne la possibilità. Mi piacerebbe cantare insieme "Lonely"."
"Hai pensato con chi altri vorresti collaborare per il tuo album?"
"Non ancora, ma ci sto riflettendo. Sto anche ragionanndo sul titolo del CD."
"Beh, direi "Sorry Not Sorry", no? In fondo, è una canzone che per te significa molto."
Selena sapeva, come del resto ora ne erano a conoscenza anche Phil e tutti i collaboratori della ragazza, che l'aveva scritta non soltanto per i suoi haters, ma anche per i bulli che la prendevano in giro a scuola.
"Sì, ma non lo so. Non sono sicura che sia quella la canzone che voglio mettere per prima, né che darà il titolo all'album. Non riesco a spiegarti come mai ho questa sensazione, Sel."
In tutta sincerità non lo sapeva, però la provava in maniera piuttosto forte.
"Hai ancora tempo per decidere, tranquilla" la rassicurò l'amica.
"Non moltissimo, in realtà. Tra qualche mese dovremo cominciare a pubblicizzare il CD, e stavo pensando anche di fare un mini tour l'anno prossimo per far conoscere un po' di pezzi prima dell'uscita dell'album, ma è ancora tutto da vedere." Ne stava parlando da giorni con il suo manager. I due collaboravano insieme per capire cosa fosse meglio fare e soprattutto ciò che Demi voleva. "Inoltre dovremo iniziare a fare i video, a montarli e dato che nell'album ci saranno diciassette canzoni avremo un sacco di lavoro da fare."
"Sono sicura che riuscirai a portare a termine ogni cosa nel migliore dei modi, come sempre" le disse sorridendo.
"Grazie, sei molto incoraggiante Selena."
"Lo sono perché credo in te."
Demi la strinse forte, commossa.
"Non mi merito queste parole."
"Oh sì, invece! Si sistemerà tutto, vedrai."
L'altra annuì, capendo che non si stava riferendo solo al suo lavoro.
"A te come va al lavoro?"
"Anch'io sto registrando un nuovo album e sono a buon punto, direi. Tuttavia, mi hanno anche presa per fare un altro film."
"Grande!"
Demi alzò le mani in aria in segno di esultanza.
"Grazie!"
L'amica la imitò.
"Spero che Andrew starà meglio, nei prossimi giorni. È davvero abbattuto e sentirsi così per settimane non dev'essere per niente facile. Io, poi, non ho mai preso farmaci quindi immagino che cambiarli sia molto difficile, sono anche quelli che lo fanno stare così."
"Andrew è un uomo forte, Demi. Ha solo bisogno di riprendersi."
"Sì" sospirò. "Ti confesso che avevo paura che si potesse fare del male, ma non è mai successo fortunatamente. I farmaci che prende diminuiscono il desiderio di ferirsi ma sai, temevo comunque per la sua salute."
Non l'aveva ancora detto a nessuno, era stata troppo presa da tutto il resto per parlarne, e aveva preferito tenersi tutto dentro anche se non era stato facile. Ora si sentiva come se si fosse tolta un peso.
"Te l'ha detto lui?"
"Sì, gliel'ho chiesto per messaggio e mi ha risposto."
Demi ne era felice: aveva mantenuto la promessa che non si sarebbe fatto mai più del male, e questo significava che il suo ragazzo aveva molta più forza di quanto entrambi immaginavano. Ce la stava mettendo tutta per sentirsi meglio, anche se in quel momento non ci riusciva.
"Magari  tra un po', quando questo brutto periodo sarà finito, potrete anche fare dei progetti per il futuro, per esempio che so, andare a convivere."
"Eh?" chiese lei, alzando appena la voce non per la rabbia ma per la sorpresa.
Non ci aveva ancora pensato.
"State insieme da mesi, Demi e intendevo solo che siccome ormai vi considerate una famiglia a tutti gli effetti, non sarebbe troppo presto per fare un altro passo nella vostra relazione."
"Non lo so, non ne abbiamo mai parlato. L'idea mi piace, anzi a dire la verità sarebbe bellissimo!" si entusiasmò. "Prima, però, vorrei che Mackenzie si sentisse meglio, anche solo un po'."
"Sì, lo immagino. È giusto, queste cose si devono fare quando nella vita c'è una certa stabilità. Comunque sono davvero contenta per voi. Nonostante le difficoltà, siete sempre rimasti insieme e anche quando avete litigato siete riusciti a far pace. Superare i problemi, in una coppia, è molto importante."
"Sei saggia, Sel."
"Forse l'ho già detto, ma da quando anni fa ho avuto quel problema al cuore sono maturata."
C'è un proverbio che dice:
Non tutti i mali vengono per nuocere
e Selena ci credeva fermamente.
 
 
 
Padre Thomas stava per leggerle un brano tratto dal Vangelo di Matteo riguardante l'entrata di Gesù a Gerusalemme. Le aveva spiegato che la folla gli andava incontro e che  mentre nei Vangeli di Marco, Matteo e Luca non era spiegato come mai questa lo glorificasse, in quello di Giovanni veniva detto che lo faceva perché Gesù aveva resuscitato Lazzaro. Tuttavia, Padre Thomas riteneva che quello di Matteo fosse il Vangelo che descriveva in maniera più approfondita quanto accaduto.
"Quando furono vicini a Gerusalemme e giunsero presso Bètfage, verso il monte degli Ulivi, Gesù mandò due discepoli, dicendo loro: «Andate nel villaggio di fronte a voi e subito troverete un’asina, legata, e con essa un puledro. Slegateli e conduceteli da me. E se qualcuno vi dirà qualcosa, rispondete: “Il Signore ne ha bisogno, ma li rimanderà indietro subito”». Ora questo avvenne perché si compisse ciò che era stato detto per mezzo del profeta:
Dite alla figlia di Sion:
Ecco, a te viene il tuo re,
mite, seduto su un’asina
e su un puledro, figlio di una bestia da soma.
I discepoli andarono e fecero quello che aveva ordinato loro Gesù: condussero l’asina e il puledro, misero su di essi i mantelli ed egli vi si pose a sedere. La folla, numerosissima, stese i propri mantelli sulla strada, mentre altri tagliavano rami dagli alberi e li stendevano sulla strada. La folla che lo precedeva e quella che lo seguiva, gridava:
«Osanna al figlio di Davide!
Benedetto colui che viene nel nome del Signore!
Osanna nel più alto dei cieli!».
Mentre egli entrava in Gerusalemme, tutta la città fu presa da agitazione e diceva: «Chi è costui?». E la folla rispondeva: «Questi è il profeta Gesù, da Nazzaret di Galilea»
Gesù entrò nel tempio e scacciò tutti quelli che nel tempio vendevano e compravano; rovesciò i tavoli dei cambiamonete e le sedie dei venditori di colombe e disse loro: «Sta scritto:
La mia casa sarà chiamata casa di preghiera.
Voi invece ne fate un covo di ladri».
Gli si avvicinarono nel tempio ciechi e storpi, ed egli li guarì. Ma i capi dei sacerdoti e gli scribi, vedendo le meraviglie che aveva fatto e i fanciulli che acclamavano nel tempio: «Osanna al figlio di Davide!», si sdegnarono, e gli dissero: «Non senti quello che dicono costoro?». Gesù rispose loro: «Sì! Non avete mai letto:
Dalla bocca di bambini e di lattanti
hai tratto per te una lode?»."
La folla l'ha accolto come un re. Era felice di vederlo.
Fu questa l'osservazione della bambina, che aveva gli occhi sbarrati dallo stupore. Non si aspettava che gli avessero fatto una così grande festa.
"Sì, perché tutte quelle persone, che facevano parte del popolo, hanno capito che l'arrivo di Gesù era la venuta del Messia che da tanto aspettavano. Lui accetta tante esclamazioni di giubilo nei suoi confronti perché sa che la passione che dovrà affrontare, ovvero le sofferenze che patirà prima di salire nel regno dei cieli, è vicina. "Osanna" significa "Salvaci!", ed è anch'essa un'invocazione. Nella domenica delle Palme si festeggia proprio l'entrata di Gesù a Gerusalemme, e si fa una processione con i rami d'ulivo fino in chiesa."
Quando sarà?
"Tra un po' di mesi, sarà bellissima, vedrai. Tutti i fedeli, in quel giorno, provano la stessa gioia della folla che ha accolto Gesù nella Città Santa. L'asina, che in altri Vangeli è un puledro, è una cavalcatura che quindi simboleggia la regalità. Gesù è il Redentore, ma non impone nulla agli uomini. Loro possono scegliere se seguirlo o no, se credere in lui o meno."
Mackenzie pensò che la domenica delle Palme si sarebbe sicuramente sentita felicissima, e non vedeva l'ora che arrivasse, poi scrisse:
Io credo in lui. Voglio seguirlo.
"Hai detto una cosa molto importante e questo mi fa capire che, anche se sei piccola, la tua fede è profonda. Non è da tutti, credimi."
Prego ogni sera, Padre; e a volte chiedo alla mamma di dire una preghiera prima di mangiare.
"Brava. Come ti senti quando lo fai?"
Felice. Non saprei come dirlo in altro modo.
Sentiva di avere le ali in quei momenti, perché era libera, leggera e senza pensieri, almeno per un po'.
Gli chiese come mai Gesù aveva  rovesciato i tavoli nel tempio e lui le spiegò che l'aveva fatto per purificarlo, perché fosse trattato come la casa del Signore e non come un mercato.
"Ha compiuto un grandissimo gesto" continuò, "ma i sacerdoti e gli scribi non lo capiscono, e vorrebbero che tutti facessero silenzio, che non lo acclamassero, perché non credono che lui sia il figlio di Dio. Tuttavia, è proprio nel grido dei bambini che si svela la profezia, ovvero che la verità non può essere più taciuta. Gesù finalmente si mostra, e il grido di esultanza dei fanciulli è l'espressione più vera della gioia che questo suscita nel popolo."
Se io prego sono come uno di quei bambini, dunque?
"Certo, perché come hai detto credi in Gesù e in Dio. La prossima volta parleremo della passione di Cristo" concluse Padre Thomas, prima di salutarla e terminare la lezione.
Mackenzie aprì la porta e vide che la mamma e Hope la aspettavano lì fuori.
Quando furono uscite, Demi chiese alla figlia com'era andata la lezione.
Benissimo! rispose.
"Ho incontrato la zia Selena, mentre tu eri dentro. Purtroppo non è potuta rimanere qui molto, ma ti saluta e ti dà un bacio."
A Mackenzie dispiacque un po' non vederla, ma disse alla madre che si sarebbero incontrate un'altra volta.
 
 
 
In quei giorni Andrew aveva fatto sempre le solite cose. Ora era al telefono con la fidanzata. Era stato lui a chiamarla quella sera, mentre era fuori per una breve passeggiata, e la cosa aveva reso molto felice la ragazza. Ciò significava che stava cercando di reagire, di lottare contro la depressione, e lui stesso infatti ne era consapevole. Si era preso i propri tempi e, quando se l'era sentita, si era dato una piccola scossa.
"Mackenzie oggi è stata a catechismo" disse Demetria. "Era così contenta quando è uscita!"
"Mi fa piacere."
"Quando possiamo venire a trovarti?"
"Non voglio che le bambine mi vedano così, tesoro. Sto troppo male. Sono pallido, ho le occhiaie e ho paura di spaventarle."
"Lo so" sospirò lei, "ma manchi moltissimo a tutte e due, e anche a me. Inoltre, ciò che mi importa è stare con te, non mi interessa che aspetto hai."
La cosa positiva era che l'uomo non si era completamente chiuso in se stesso. Non vedeva la sua ragazza e non la chiamava, ma a volte le inviava dei messaggi per darle la buonanotte o il buongiorno e per sapere come stavano lei e le piccole. Demi non l'aveva detto alle figlie, perché sapeva che loro le avrebbero chiesto come mai, allora, non veniva a trovarle, e lei avrebbe dovuto ripetere i soliti discorsi, facendole stare ancora più male.
"Anche a me mancate molto. Senti, che ne dici di venire da me, domani sera? Passiamo una serata io e te da soli e, se nei prossimi giorni mi sentirò meglio, ne faremo un'altra con le bambine. Ti va?"
"Perfetto!"
"Hai sorriso, vero?"
Demi era stupita.
"Come hai fatto a capirlo?"
"La tua voce è cambiata. È diventata ancora più bella."
"Mi fai arrossire, così" ridacchiò.
"Anche quando diventi rossa non sei affatto male, sai? Che mi dici di Hope?"
"Sta benissimo, all'asilo gioca e si diverte. Anche Mackenzie sta bene, anche se…"
"Cosa?"
"Niente, ne parliamo domani."
Non gli aveva dato molti dettagli sl suo stato di salute, nei giorni precedenti. Andrew sapeva che la piccola aveva avuto alti e bassi, ma Demi non gliene aveva parlato approfonditamente.
La chiamata si interruppe poco dopo, e ora Andrew era in ansia, Aveva notato un velo di preoccupazione nella voce di Demi mentre parlava della bambina. Pregò che arrivasse presto la sera seguente per saperne di più; e si augurò che non fosse successo nulla di grave, ma immaginò di no, altrimenti Demetria gliel'avrebbe sicuramente
detto.
Rientrato a casa coccolò un po' i suoi gatti, si preparò un paio di toast perché non aveva voglia di cucinare e li mangiò seduto sul divano.
"Magari stasera ci riesco" sussurrò, mentre portava il piatto nel lavello. "Jack, Chloe, secondo voi ce la faccio?"
I gatti miagolarono in risposta e lui sorrise, poi li prese in braccio e diede loro tanti baci. Dopo poco vollero scendere e iniziarono a fare la lotta. Andrew rimase qualche minuto a guardarli mentre saltavano e si rincorrevano felici, poi si diresse in camera, aprì la borsa che portava sempre con sé al lavoro, prese il portatile e lo accese. Stava davanti a quell'aggeggio tutto il giorno, ma non aveva intenzione di lavorare. Aprì una cartella chiamata "Poesie" e cliccò sul nuovo documento che aveva creato qualche giorno prima e che conteneva solo alcune parole sconnesse, prive di un filo logico. Non sapeva come gli fosse venuta l'idea di scrivere. Il giorno del compleanno di Carlie, quando aveva ricordato che il disegno era sparito per sempre, si era sentito così disperato e depresso che si era gettato sul letto senza un briciolo di forza, e poi gli era venuta l'idea di scrivere qualcosa. Aveva quindi buttato giù un po' di parole a casaccio, e riflettendoci, si era reso conto che forse avrebbe potuto venir fuori una bella poesia. Non scriveva da anni e non aveva idea di cosa sarebbe venuto fuori. Rilesse quelle parole e poi iniziò. Le sue dita volavano sui tasti. Si fermò qualche volta per pensare a che parola utilizzare, per creare rime il più armoniche possibile, si concentrò al massimo, e dopo circa mezzora, ecco che il suo componimento era terminato. Quasi senza accorgersene, aveva riempito due pagine.
"Wow!" esclamò, soddisfatto. "La devo far leggere a Demi, domani."
Scrivere gli faceva bene e male al contempo. Da un lato lo aiutava a sfogarsi, dall'altro lo metteva di fronte ai suoi sentimenti più negativi e ciò gli faceva comprendere ancora meglio quanto, in quel periodo, si sentisse triste e malinconico. La depressione non è solo questo, è un male che va oltre la semplice tristezza, ma non avrebbe saputo come altro descriverla.
Appena si mise a letto provò la sensazione che tutta la soddisfazione che aveva sentito poco prima non ci fosse mai stata. Era stanchissimo, forse più di quanto lo era stato quella mattina. Nonostante ciò, quella notte non riuscì a chiudere occhio. Continuò a rigirarsi nel letto senza trovare una posizione. Ad un certo punto guardò la sveglia: era mezzanotte, eppure gli sembrava passata un'eternità.
Fantastico, dovrò stare altre sei ore così. Domani sarò uno zombie.
Aveva preso gli ansiolitici, ma non avevano fatto effetto; e lui si sentiva sempre più male.
Grazie al cielo riuscì a riposare un po' il giorno successivo, dato che il suo capo l'aveva visto talmente sfinito che l'aveva mandato a casa un'ora prima, e quando era rientrato e si era sdraiato sul divano aveva preso sonno quasi subito. Per fortuna si mise la sveglia in tempo. Preparò qualcosa da mangiare e poi uscì a comprare delle rose rosse da mettere al centro del tavolo. Quando Demi arrivò corse ad aprire e, non appena si videro, i due fidanzati si saltarono letteralmente addosso.
"Demetria, amore mio, mi sei mancata così tanto!" esclamò Andrew, emozionato.
Per la prima volta dopo quasi un mese sorrise; e fu un sorriso sincero.
"Anch'io ho sentito la tua mancanza."
"Mi dispiace tantissimo di non essere venuto da te o di non averti invitata i giorni scorsi, ma ero…"
"Shhh, lo so, non ti devi giustificare."
"Non lo sto facendo. Cerco solo di spiegarti, ho bisogno di parlare di come mi sento."
"Già, sfogarsi fa bene."
"Entra, questa è anche casa tua" le disse, prendendola per mano.
"Comunque so che stai male, non ti scusare di nulla. Non hai certo scelto tu di avere la depressione. È la tua mente che soffre, tu non hai colpe."
Mentre teneva la mano del suo ragazzo, Demi pensò che in quel momento era davvero felice. Stava per dire qualcosa di romantico, ma Andrew la precedette.
"Non vorrei essere da nessun'altra parte, e con nessun'altra persona in questo momento."
Lei non parlò. Avvicinò le labbra a quelle di lui, muovendosi lentamente, ed entrambi rimasero un momento così, poi le loro bocche si sfiorarono e infine arrivò quel bacio tanto desiderato.
"Mi è mancato anche questo" sussurrò Demi.
Lui annuì e riprese a baciarla con trasporto. Non ricordava che le sue labbra fossero tanto soffici e delicate come una carezza. Quelli che si scambiarono furono forse i baci più intensi che si diedero da quando stavano insieme. Non seppero nemmeno loro come, ma arrivarono sul letto e ci si buttarono letteralmente sopra. Andrew era su di lei e le lasciava piccoli baci sui capelli, sulla testa e sul collo, provocandole brividi di piacere che la fecero gemere, e quel piccolo grido aumentò quando lui le sollevò la maglietta e le tolse il reggiseno. Le strinse i capezzoli e poi ci passò sopra le dita.
"Ti prego, continua" ansimò Demi, mentre si aggrappava alla sua schiena con tutte le forze, e poi lasciava andare un po' la presa e gliela sfiorava pian piano. Poco dopo la ragazza si alzò e iniziò a spogliarsi, rimanendo in intimo e lui la imitò. Non volevano fare l'amore ma, forse perché non si erano visti per tanto tempo, provavano l'impellente bisogno di avere un contatto fisico più ravvicinato, di toccarsi, di godersi l'uno il calore del corpo dell'altra e viceversa. Entrambi sentivano sempre più caldo, un calore intenso ma piacevole e si domandarono quanto sarebbe aumentato se avessero fatto l'amore lì, in quel preciso istante. Fu un pensiero che durò solo un attimo, per poi svanire come nebbia al sole.
"So che non vuoi e che ci siamo promessi di non farlo fino al matrimonio" le disse Andrew staccandosi piano da lei. "Nemmeno io sono pronto. Se quel che abbiamo fatto ti è dispiaciuto…"
"No" lo interruppe. "Anzi, è stato bello, mi sono sentita circondata da un fuoco che mi trasmetteva sicurezza, che sapeva di casa e di amore."
Lui la guardò stupito, non aspettandosi una frase tanto bella.
"Tu non sei pentito, vero?"
"Assolutamente no, anzi, lo rifarei. Ti amo, Demetria!"
"Anch'io ti amo, Andrew!"
I loro occhi brillavano per la gioia e l'eccitazione che provavano. Ne erano ancora ebbri quando, poco dopo, si alzarono e si rivestirono per andare a cena.
"Che belli!" esclamò la ragazza quando vide i fiori.
"Li ho comprati oggi pomeriggio."
"È una cosa molto romantica averli messi in centro tavola per una cena con la tua ragazza. Grazie."
Era stato un gesto carino e dolce.
"Spero di essere stato un cuoco altrettanto bravo, allora."
Mentre mangiavano la pasta parlarono della situazione di Mackenzie, di Catherine e di tutto quel che era successo. Andrew non nascose la preoccupazione per sua figlia.
"Preferivo parlartene a quattr'occhi, per questo sono stata vaga, al telefono."
"Capisco perfettamente. Certe cose vanno dette in faccia."
"Già. Forse ha ragione la psicologa, dobbiamo darle tempo, però mi dispiace che non ricordi più nulla, che non faccia passi in avanti."
"Sì, anche a me. Io direi che la cosa migliore è starle accanto e vedere che succederà nei prossimi mesi. Sei proprio sicura che non abbia nessun problema a scuola?"
"Ho detto che non penso sia vittima di bullismo, ma qualcosa con i compagni forse è successo, anche se le insegnanti dicono di no. Non voglio preoccuparmi troppo, ma stiamo attenti."
"Certo; queste sono cose molto delicate."
"Sì, infatti."
Parlarono di lavoro e poi della salute di Andrew il quale, dopo averle spiegato come si era sentito ultimamente, le raccontò che aveva ricominciato a scrivere. Demi fu elettrizzata da quella notizia.
"Anche quando eri adolescente ti piaceva!" esclamò.
Ricordava di aver letto qualche sua poesia, quando era stata abbastanza grande, e l'aveva trovata molto bella.
"Sì, ma alla fine delle medie ho smesso perché la scuola e poi l'università e il lavoro mi hanno succhiato ogni energia e portato via troppo tempo. Inoltre, con tutto quello che è successo non ne ho più avuto né la forza, né tantomeno la voglia. Anche se, a pensarci bene, forse in questi anni scrivere mi avrebbe aiutato a buttar fuori il dolore e la frustrazione che sentivo, ma ormai è andata così."
"Già, ma comunque l'importante è che tu abbia ripreso, no?"
"Hai ragione. È successo all'improvviso, non credevo davvero che sarebbe accaduto!"
"A volte le cose belle arrivano quando meno te l'aspetti."
"È proprio vero."
"Mi fai leggere qualcosa?" chiese, incuriosita.
Voleva vedere com'era migliorato il suo stile, che vocaboli utilizzava, leggere finalmente qualcosa che Andrew aveva scritto per esprimere i propri sentimenti.
"Non è una poesia molto bella" si sminuì.
"Dai, dai, per favoreeeee!"
L'uomo non poté resistere a quegli occhioni dolci da cucciola e ad una voce tanto carina, così rise intenerito e acconsentì.
Quando, poco dopo, Demi si sedette al computer con sullo schermo quella lunga poesia, si stupì di quanto avesse scritto.
"Sì, ha molte strofe. Spero ti piacerà" le disse il suo ragazzo.
Era agitato ed emozionato. Da anni nessuno leggeva qualcosa di suo, e di così personale, e aver ripreso in modo tanto repentino forse era positivo, magari la scrittura gli sarebbe davvero servita, in futuro. Avrebbe dovuto parlarne con la sua psicologa la settimana seguente. Pregò di non aver scritto una schifezza.
Demi si concentrò, prese un respiro profondo e iniziò a leggere.
"LA MIA SPERANZA SVANISCE
 
La mia speranza svanisce
e una parte di me perisce.
Qualcosa in me finisce.
Non so cos'è, ma la sua assenza
mi fa provare un senso di impotenza.
 
Il mio fisico, stremato
soffre mentre un dolore,
terribile e continuo,
mi dilania il cuore
e mi toglie il fiato.
 
Il corpo è privo
di ogni energia,
l'anima perde pian piano
il suo soffio vitale e non sa
se questo ritornerà.
 
La mente mia
sta ancor più male.
Il dolore, come fa col fuoco la pioggia,
goccia dopo goccia scende
e le fiamme dei miei sogni spegne.
 
Vorrei urlare:
"Speranza, non mi abbandonare!"
ma questa, indifferente,
se ne va lentamente,
lasciandomi a terra, gemente.
 
Ed io non so se sarò tanto forte
da farcela a lottare
contro i demoni che
camminano tra le porte
ancora aperte
del mio passato,
di ciò che è stato
e che ancora mi fa male.
 
Come posso combattere
contro tutto questo,
se nel presente
altri diavoli feriscono
il mio cuore e la mia mente?
 
A tale quesito non rispondo
perché mi rendo conto
che anche se ci penso
fino ad impazzire
non so cosa dire.
 
Gli usci del mio passato
non riesco ancora a chiudere.
Continuo a provarci,
ma non mi voglio illudere.
 
Quando mi dico:
"Ci posso riuscire!"
accade qualcosa
che li fa riaprire.
 
Farò tutto quel che potrò
e chi soffre più di me aiuterò,
pregando Dio affinché un giorno
da me la speranza faccia ritorno."
"Mamma mia!" fu il commento di Demi, che gli sorrise.
Non sapeva nemmeno cosa dire, come trovare le parole per descrivere le emozioni che quei versi le avevano suscitato.
"Sii sincera, ti piace così tanto?"
"Sì, è bellissima! È molto vera e mi ha colpita soprattutto la parte in cui urli alla speranza di non abbandonarti. Rende il tutto ancora più  toccante."
"La metrica non è perfetta, però e questo non va granché bene."
Sapeva di non essere un poeta, non si considerava di certo tale.
"Fregatene! L'importante è che tu abbia voluto sfogarti esprimendo i tuoi sentimenti più profondi. Ho sempre pensato che a volte la metrica, con tutto il suo conteggio di sillabe e quant'altro, rendesse le poesie più fredde. Questa, invece, tocca il cuore. Non smettere mai di scrivere, amore mio, e anzi, fammi leggere qualcos'altro in futuro. Una volta ho sentito dire che scrivere fa bene all'anima, e credo che nel tuo caso potrebbe essere così."
"Quello che mi hai detto mi rende felice" mormorò lui, che non credeva che le sue parole avessero avuto una tale forza.
D'altronde, sapeva benissimo che è proprio vero che la scrittura è l'arma più potente che abbiamo per esprimerci.
Rimasero insieme ancora per un po' a coccolarsi, e scoprirono che i gatti di Andrew stavano dormendo sotto il suo letto.
"Stanotte avrai compagnia."
"Eh già. Ogni tanto si mettono sul pavimento. È di legno e sembra che ci stiano bene, anche se poi vengono sul materasso o dormono sul divano."
Continuava a sorridere e Demi ne era contenta perché lo vedeva più sereno, e in effetti lui si sentiva proprio così. La strada per stare bene era ancora molto lunga e ci sarebbe voluto un altro po' per abituarsi ai nuovi farmaci, ma forse la crisi più grossa stava passando.
"Io ora vado, Andrew. Domani devo lavorare e bisogna che vada a prendere le bambine che sono da mia madre. Hanno scuola e devono alzarsi presto."
"Sì, certo."
Avrebbero tanto voluto rimanere insieme ancora per qualche ora, ma non era possibile, purtroppo.
"Verrò a trovarti domani sera, promesso. Me la sento. Se non dovessi stare bene, ti chiamerò e ti avviserò."
"Okay. Lo ripeto, ti amo!"
"Anch'io ti amo, luce dei miei occhi!"
Si salutarono dopo essersi dati il bacio della buonanotte, un altro dei tanti gesti simbolo del loro amore.
 
 
 
credits:
Demi Lovato, Don't Do It For Me Anymore
 
 
Vangelo secondo Luca, versetti 15-18
 
 
Vangelo secondo Matteo, versetti 1-16
 
 
 
NOTE:
1. quello che la dottoressa ha detto ad Andrew è vero, non è facile diagnosticare la depressione reattiva. La stessa cosa è stata detta a me, visto che ne soffro da anni. Ecco una definizione più specifica di depressione reattiva dal sito www.paginemediche.it:
La depressione reattiva è una forma di disturbo mentale strettamente legata ad un avvenimento doloroso (ad esempio un lutto, una perdita, una sconfitta, disturbi fisici) caratterizzata da un'intensità e una durata sproporzionate rispetto alla "normale" reazione di fronte a simili eventi.
L'elemento tipico della depressione reattiva è un sentimento di tristezza vissuto a livello cosciente e con forte partecipazione emotiva.
2. Ho inventato io il personaggio di Rosalie.
3. Demi ha detto, in un'intervista, che ha scritto "Sorry Not Sorry" come manifesto contro i bulli che le avevano fatto del male, quindi non solo per i suoi haters in generale come si sapeva all'inizio. Ha anche rivelato, in un'intervista, che ha sempre voluto collaborare con Lil Wayne.
4. Per chiarire, la crisi epilettica di Andrew non è collegata al flashback che ha avuto poco dopo.
5. Io soffro di epilessia, la stessa che ha Andrew con uguali sintomi e ho aumentato i farmaci. Anche nel mio caso il mal di testa non sembra essere collegato a queste crisi, anche se alla neurologa lo dico sempre quando mi viene perché mi succede proprio dopo i flash luminosi. In gran parte è stress anche nel mio caso.
6. Tutto ciò che ho scritto sul Litio è vero. Mi è stato detto dalla mia psichiatra.
7. In America gli studenti chiamano i loro insegnanti anche per nome, è una cosa normale anche alle medie o al liceo.
Per quanto riguarda la ricreazione non ho trovato molto materiale, ma in tantissime scuole degli Stati Uniti non è utilizzata in quanto gli insegnanti vogliono concentrarsi sulle lezioni, i test, i voti eccetera. Tuttavia è caldamente consigliata, tanto che nel sito www.edutopia.org c’è scritto che cinque stati hanno reso la ricreazione obbligatoria per legge: Missouri, Florida, New Jersey e Rhode Island hanno venti minuti di ricreazione al giorno per i bambini delle scuole elementari, mentre L’Arizzona ha due periodi di pausa ma non ne specifica la lunghezza. Inoltre sette stati, Iowa, Nord Carolina, Sud Carolina, Louisiana, Texas, Connecticut e Virginia hanno tra venti e trenta minuti di attività fisica (credo intendano di gioco) per i bimbi delle elementari.
8. Non so come funzionino i colloqui con gli insegnanti in America, se siano i genitori a doverli prenotare o i bambini a chiederli, come accade qui in Italia. Non mi sono informata perché per la storia non mi sembrava importante.
9. Ho inventato io la poesia che Andrew ha scritto, per questo ho riportato l'intero testo.
10. Andrew e Mackenzie fanno pensieri molto ripetitivi, ma è normale visti i problemi dei quali soffrono, è una cosa voluta.
 
 
 
 
ANGOLO AUTRICE:
dunque, in questo capitolo succedono un bel po' di cose, praticamente in quasi un mese. Ottobre sta per terminare (mancano due giorni) e Andrew ha ricevuto notizie sconfortanti sulla sua situazione. Mackenzie ed Elizabeth a scuola non se la passano molto bene. Prima o poi Demi ed Andrew e i genitori della bambina (che si vedranno in seguito) si accorgeranno che le figlie sono vittime di bullismo? Oppure succederà qualcosa di grave? L'insegnante, Beth, noterà qualcosa? Ditemi quello che pensate!
Vi anticipo che, dato che i personaggi hanno già tanti problemi, il tema del bullismo sarà trattato con tatto ma non in maniera pesante, cioè non vedrete mai pestaggi o cose del genere, assolutamente no! Parlerò, però, della mia esperienza con questo bruttissimo problema, quindi spero di fare un buon lavoro. Non venivo offesa per il colore della mia pelle ovviamente, ma per la disabilità sì, e non avevo amici alle elementari, li ho avuti solo gli ultimi due anni, prima ero completamente esclusa. Alle superiori è stato ancora peggio, come sa chi ha letto la mia storia "Anni d'inferno".
So che non si è vista molto Hope, ma in seguito la vedrete di più, tranquille.
Il punto di vista di Bill vi è piaciuto?
Selena non è comparsa molto, non sapevo come allungare il pezzo e non avevo davvero idee, mi dispiace, ma non volevo lasciarla fuori da questo lungo capitolo perché in fondo lei e Demi son amiche ed è giusto che si frequentino.
Ho descritto solo un incontro con Catherine perché era il più saliente, ma il prossimo capitolo sarà dedicato solo ed esclusivamente ad una seduta tra lei e Mackenzie. È praticamente già pronto, devo solo ricontrollarlo, e sarà molto più corto di questo (non supera le sette o otto pagine) perché l'avevo scritto tempo fa e mi pare vada benissimo così.
Mackenzie riuscirà a sbloccarsi e a ricordare qualcos'altro? Ed Andrew starà meglio? Vi è piaciuto il momento leggermente hot tra lui e Demi? A proposito, come ho raccontato alle mie amiche Emmastory e _FallingToPieces_, mentre stavo scrivendo quella scena, l'altra sera, è entrato mio padre XD. Per fortuna non ha letto niente XD. Non potete capire l'imbarazzo!
Il prossimo capitolo dovrebbe arrivare la settimana prossima, salvo imprevisti.
A presto e grazie per il sostegno e i commenti. Cinquecento recensioni! Vi amo, ragazze!
crazy lion
   
 
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