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Autore: crazy lion    13/02/2018    3 recensioni
Attenzione! Spoiler per la presenza nella storia di fatti raccontati nel libro di Dianna De La Garza "Falling With Wings: A Mother's Story", non ancora tradotto in italiano.
Mancano diversi mesi alla pubblicazione dell’album “Confident” e Demi dovrebbe concentrarsi per dare il meglio di sé, ma sono altri i pensieri che le riempiono la mente: vuole avere un bambino. Scopre, però, di non poter avere figli. Disperata, sgomenta, prende tempo per accettare la sua infertilità e decidere cosa fare. Mesi dopo, l'amica Selena Gomez le ricorda che ci sono altri modi per avere un figlio. Demi intraprenderà così la difficile e lunga strada dell'adozione, supportata dalla famiglia e in particolare da Andrew, amico d'infanzia. Dopo molto tempo, le cose per lei sembrano andare per il verso giusto. Riuscirà a fare la mamma? Che succederà quando le cose si complicheranno e la vita sarà crudele con lei e con coloro che ama? Demi lotterà o si arrenderà?
Disclaimer: con questo mio scritto, pubblicato senza alcuno scopo di lucro, non intendo dare rappresentazione veritiera del carattere di questa persona, né offenderla in alcun modo. Saranno presenti familiari e amici di Demi. Anche per loro vale questo avviso.
Genere: Drammatico, Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altri, Demi Lovato, Joe Jonas, Nuovo personaggio, Selena Gomez
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Spoiler!, Tematiche delicate
Capitoli:
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Sono tornata!
Visto che in questi giorni ho tempo di scrivere (la mia relatrice deve ancora contattarmi per darmi le istruzioni per l'ultimo capitolo della tesi, quindi sono libera) sto lavorando come una pazza a questa fanfiction, come si può vedere dalla frequenza degli ultimi aggiornamenti. Questo capitolo è un'incorporazione di due, perché mi sono resa conto che parlavano quasi del tutto di Mackenzie e non c'era alcun bisogno di dividerli come avevo fatto tempo fa quando li avevo scritti. Ho però aggiunto un flashback di Demi. L'ho fatto in un secondo momento, avendo scoperto delle cose che ho poi riportato nelle note finali, che come sempre vi esorto a leggere.
Mancano poco più di venti capitoli alla fine di questo libro (non so dirvi il numero preciso anche se ho una scaletta sul PC, ma credo ventisei, non di più) e solo al pensiero il mio cuore si riempie di sensazioni contrastanti. Okay, manca ancora un po' alla fine, ma è anche vero che molti capitoli sono già scritti, è necessario però ricontrollarli e revisionarli. Sono orgogliosa di essere arrivata fino a qui, dell'impegno che ci sto mettendo, felice che la storia piaccia così tanto e delle recensioni che non fanno che salire. D'altro canto, se penso che tra un po' di mesi arriverò alla fine mi sento male, credo che piangerò. Per ora, però, non pensiamoci. :) Ah, non so quanto riuscirò a scrivere nelle prossime settimane, presa come sarò dalla laurea, ma farò quel che potrò.
Ringrazio _FallingToPieces_, alla quale dedico il capitolo, per avermi dato molto tempo fa un'opinione su alcune pagine riguardanti Mackenzie.
 
 
 
 
 
 
91. DOLORI, RICORDI E ALLUCINAZIONI
 
Era arrivato, anche quella settimana, il giorno nel quale Mackenzie avrebbe dovuto andare da Catherine. Era mattina e la piccola si stava dirigendo a scuola con la mamma, per cui non avrebbe dovuto pensare a quanto sarebbe accaduto il pomeriggio, non ancora almeno. Eppure, purtroppo, non ci riusciva. Cercò di distrarsi guardando fuori dal finestrino, contando le macchine che vedeva passare e ascoltando la radio che la madre teneva accesa, ma alla fine si rese conto che la sua mente andava sempre da tutt'altra parte. Le faceva bene parlare con Catherine, ma il fatto che non stesse migliorando da parecchio tempo la buttava sempre più giù, anche se cercava di non darlo a vedere. Non ne aveva ancora parlato con Elizabeth ma da un po', la sera, nella sua stanza, piangeva perché si sentiva un fallimento. Avrebbe solo dovuto sforzarsi di più per rammentare delle cose, non ci voleva molto… Beh, in realtà c'era bisogno di tanta forza di volontà, più di quella che lei credeva di possedere in quel momento.
"Tutto okay?"
La voce dolce della mamma la distrasse.
Sì, sto benone! esclamò, sorridendo con un po' troppa enfasi.
"Sicura che non ci sia qualcosa che non va?"
Demi era preoccupata. Sua figlia non aveva scritto praticamente nulla da quando si era alzata. Che la situazione con i compagni stesse peggiorando?
La mamma aveva dei dubbi e non andava affatto bene. Mac sentì il suo cuore iniziare a battere così forte da farle male. Doveva trovare qualcosa da dire per sistemare le cose ed era necessario che lo facesse subito.
Sono solo triste perché non sto ricordando nulla.
"Ah, è per questo che stai così, allora!"
Le credeva.
"Grazie al cielo!" esclamò la piccola fra sé.
Sì, esatto. È bruttissimo non avere nessun ricordo oltre a quelli che ho già. Mi sento come se mi manca un pezzo di me.
Si ricordò subito dopo che si diceva "mancasse". Pazienza. Era vero, comunque. Provava quell'orribile sensazione da quando i suoi genitori erano morti e non rammentava più quanto accaduto quella notte.
Erano arrivate a scuola, ormai, ma Demi non sbloccò subito le portiere - le teneva sempre chiuse a chiave quando c'erano lei e Hope, per sicurezza. Fermò l'auto e si voltò verso la sua bambina.
"Piccina, guardami." Mackenzie le rivolse un sorriso triste. "La memoria tornerà. Non so quando ma lo farà, ne sono sicura!"
Come fai?
Era una domanda più che lecita, alla quale Demetria però non avrebbe saputo rispondere. Che cosa doveva dirle? Che ne era certa perché Mackenzie era una bambina coraggiosa? Lei avrebbe potuto ribattere che, probabilmente, c'erano persone che non recuperavano mai la memoria nonostante lottassero ogni giorno per riuscirci.
"Ho fede" disse infine. "Dio aiuterà te e tutti quanti noi, lo fa sempre. Chiedigli di ricordare e di':
"Sia fatta la tua volontà",
oppure rivolgiti a Gesù e digli:
"Gesù, pensaci tu."
Succederà qualcosa, prima o poi."
Okay.
Le sorrise per farle credere che ne era convinta, ma non lo era affatto. Pregava da mesi, ormai, e non era cambiato nulla.
Dopo averle dato un bacio, Demi lasciò andare la figlia la quale, quando vide Elizabeth, le corse incontro per abbracciarla.
Le prime tre ore di lezione passarono piuttosto in fretta, ma Mac trovò qualcosa sul suo banco quando suonò la campanella della ricreazione. All'inizio non capì cosa fosse, poi si rese conto che erano dei minuscoli pezzettini di gomma da cancellare. Non l'aveva usata in tutto quel tempo e nemmeno Elizabeth, quindi sicuramente era stato uno dei suoi compagni. Per un momento pensò di andare dalla maestra e dirglielo. Un bambino glieli aveva tirati lì, probabilmente, desiderando magari colpire lei e non il tavolo. Non avrebbe voluto pensare subito male, ma visto come si stavano mettendo le cose tutto era possibile.
Lizzie, guarda scrisse.
"Oh" rispose solo, dispiaciuta.
Decisero di non dire nulla. In fondo, era solo uno stupido scherzo.
Che stupidi commentò Mac.
"Già."
Una loro compagna, Brianna, tirò fuori patatine e pasticcini perché compiva gli anni. I bimbi le cantarono gli auguri e poi applaudirono, e Mackenzie ci rimase male perché fare la prima di quelle due cose le era impossibile. Non volendo lasciarsi abbattere, andò da lei dopo averle scritto un bigliettino di auguri. La bambina lo lesse e lo strappò davanti ai suoi occhi, mentre tanti altri compagni ridevano.
Perché l'hai fatto? Mi sembrava una cosa carina! esclamò Mackenzie, quasi in lacrime.
"I tuoi auguri per me non valgono molto, visto che non puoi dirmeli a voce. Dato che non parli, a volte è come se non ci fossi" sussurrò, in modo che nessun altro sentisse.
Aveva strappato il biglietto tenendo le mani sotto il banco, per cui solo Mac si era accorta di quanto aveva fatto.
Sul serio?
"Certo, brutta stupida."
Brianna aveva i capelli rossi e un sorriso che - la bimba lo capì solo in quel momento -, era strafottente.
"Bri, non ringrazi Mackenzie per il biglietto? Che c'era scritto?" le chiese Katie.
"Oh sì, grazie cara, era dolcissimo! Mi aveva fatto gli auguri e detto che spera che passerò una bellissima giornata."
Mackenzie non rispose e tornò al suo posto, mentre la maestra Beth si complimentava con lei per il bel gesto.
"Non ne vuoi?"
Era Elizabeth che le portava un piattino pieno di biscotti al cioccolato.
Mackenzie iniziò a mangiare, anche se non ne aveva più molta voglia. Lo stomaco le si era chiuso. Si sentiva male, come se fosse stata colpa sua se non aveva più quella stramaledetta voce. Lizzie le chiese cos'era successo e lei fece un segno che significava:
"Non qui e non adesso."
L'altra ammutolì, sperando che presto l'amica le avrebbe spiegato quel che era accaduto. La vedeva strana, triste forse.
Intanto Mackenzie non faceva che pensare. Brianna e praticamente tutti gli altri compagni, la consideravano dunque inferiore, diversa? Sarebbe sempre stata etichettata in quel modo e presa in giro perché non parlava?
A pranzo, dopo essersi servite, le due bambine si sedettero al solito tavolo da sole, come sempre. Anche se prima non aveva avuto fame, a quell'ora Mac ne aveva eccome. Visto che spesso la mamma le faceva mangiare verdura, che non le piaceva un granché, quel giorno aveva deciso di esagerare: cordon bleu e patatine fritte. Aveva bisogno di risollevarsi un po' il morale, se possibile, e in quel momento mangiare le sembrava l'unica soluzione.
"Ora mi vuoi spiegare cosa ti prende, oggi?"
Elizabeth non faceva che fissarla non toccando quasi il suo cibo.
Non mi va; e poi qualcuno potrebbe accorgersene.
Le promise che le avrebbe raccontato tutto in un secondo momento. Per adesso preferiva di gran lunga chiudersi nel proprio dolore, pur essendo conscia del fatto che, così, sarebbe stata solo peggio.
"D'accordo. Dimmi solo se è una cosa brutta."
Elizabeth immaginava di cosa si trattasse, ma non lo disse.
Non molto, ma ci sono rimasta male rispose l'altra.
"Capisco."
Ci aveva proprio azzeccato, allora.
Finita la scuola Mackenzie corse fuori senza nemmeno salutare l'amichetta. Non era un comportamento corretto e sperò vivamente di non averla ferita, ma desiderava più di ogni altra cosa allontanarsi in fretta e furia da quel posto. Salì in macchina e, quando la mamma le chiese com'era andata, sorrise e scrisse:
Tutto a meraviglia! Una mia compagna ha fatto una festa di compleanno bellissima!
"Come sono brava a mentire" si disse con un sorriso amaro.
Se non parlava più un granché con Catherine era per un motivo molto semplice: aveva paura di ricordare. Sapeva che sarebbe stato difficilissimo e non voleva sentirsi ancora così male. Di notte gli incubi continuavano, anche se erano meno frequenti, ma non aveva più quelle crisi di pochi mesi prima e la spaventava il fatto che, se avesse iniziato a pensare a quanto successo, sarebbe stata di nuovo da schifo. Non lo diceva a nessuno, né alla mamma né a Catherine, ma entrambe, essendo adulte, lo capivano.
Mackenzie guardò l'orologio del salotto che, con il suo lento tic tac, andava avanti. Erano le 16:30. Mezzora dopo avrebbe dovuto andare con la mamma all'appuntamento. Ci aveva messo poco a fare i compiti di inglese e di geografia, non era stato nulla di impegnativo. Demi in quel momento era in cucina, al telefono per una chiamata di lavoro e teneva la porta chiusa. Con la bambina c'era anche la sorellina che giocava tranquilla, seduta sul tappeto. Mackenzie si sedette accanto a lei e le accarezzò la testina. Dio solo sapeva quanto avrebbe voluto parlarle e dirle anche un semplice:
"Ciao!"
oppure domandarle:
"Con che cosa stai giocando?"
Si limitò a guardarla e Hope, per alcuni secondi, fece lo stesso, poi esclamò:
"Mac Mac!"
La bambina le fece il solletico al pancino e lei rise un sacco. Si alzò in piedi e la sorella, con occhio vigile e attento, continuò ad osservarla cercando di capire cosa volesse fare. La piccola rimaneva immobile davanti a lei, così Mackenzie si alzò e le prese le manine per aiutarla a sostenersi meglio, anche se ormai non ce n'era più bisogno. Mosse qualche passo indietro, aumentando così lo spazio fra loro. La sorellina camminò verso di lei e appoggiò i piedini sopra quelli di Mac la quale, lasciandola in quella posizione, continuò a camminare fino ad arrivare alla porta della cucina. La aprì ed entrò.
"Mamma!" gridò Hope quando vide Demi.
La ragazza era seduta al tavolo e aveva appena finito di telefonare.
"Ecco i miei tesori!" esclamò alzandosi e andando ad abbracciarle e a dare loro tanti baci. "Vi siete divertite?"
"Sì" disse ancora Hope, saltellando felice.
"Brave; grazie Mackenzie, sei stata gentile ad occuparti di tua sorella per qualche minuto."
Lei sorrise, come a dire che non c'era stato nessun problema, ma Demi vedeva che era tesa. Lo era ogni settimana, prima di andare da Catherine. Sapere che non riusciva a ricordare doveva era devastante, per lei.
Come al solito, Demi portò Hope dalla nonna. Quel lunedì, però, accadde qualcosa di diverso. Dianna era strana. Non sorrideva, non era allegra come di consueto.
"Mamma, che succede?" le chiese la ragazza, visibilmente preoccupata.
"È così da stamattina" le sussurrò Dallas all'orecchio.
C'era anche Madison lì. Fece un cenno a Demetria perché capisse che anche lei era in ansia a causa di quella situazione.
"Puoi tornare qui, tesoro? Appena hai portato Mackenzie da Catherine, intendo" sussurrò la madre.
"Va bene, ma è successo qualcosa? Stai male? Oppure ci sono problemi con Eddie?"
"Nulla di tutto questo. Devo solo parlare con te e le tue sorelle di una cosa che… non riesco più a tenermi dentro e non voglio che le bambine sentano, per questo bisbiglio."
"D'accordo, faccio più presto che posso."
Mamma, cosa sta dicendo la nonna? chiese Mackenzie.
"Niente di importante, amore. Mi ha solo chiesto di tornare qui perché deve…" rifletté un momento su cosa dire "darmi dei vasetti di marmellata che ha fatto per te e Hope, vero?"
"Sì sì, certo!"
A Dianna piaceva molto cucinare per la propria famiglia, e a volte faceva dei vasi di marmellata di fragole o di ciliegie, che alle figlie e alle nipotine piacevano parecchio.
Che bello! Potremo mangiarla a colazione con il pane e il burro.
La bimba sorrideva felice e Demi cercò di fare altrettanto.
"Esatto. Ora andiamo."
Mac aveva deciso di non portare più i suoi giocattoli per capire se, in quel modo, sarebbe riuscita a ricordare qualcosa.
All'inizio della seduta raccontò a Catherine dei suoi ultimi giorni di scuola evitando, come sempre, di dirle che i compagni isolavano sempre di più lei ed Elizabeth, sia in classe che durante la ricreazione o il pranzo in mensa.
Vorrei invitare Elizabeth a casa mia aggiunse poi. Credo di essere pronta. Le voglio bene e mi fido di lei.
"È una cosa molto bella, tesoro. Il rapporto che avete è fantastico. Sto imparando a conoscere Lizzie attraverso le tue parole e sembra una bambina meravigliosa."
Lo è.
Cambiò subito argomento e iniziò a parlare dei momenti che aveva passato con Hope poco prima, scrivendo che le piaceva molto occuparsi di lei. Le veniva naturale, l'aveva sempre fatto fin da quando i loro genitori non c'erano più.
"Pensi di doverla, come dire, proteggere?"
No, non dalla mamma almeno, e nemmeno dal papà e da tutta la mia famiglia. Una volta sì, però, provavo quanto hai detto.
Avendo compreso che, quel giorno, la bambina stava riuscendo ad aprirsi, la psicologa decise di continuare su quella strada. Non le avrebbe chiesto di disegnare, per il momento. Voleva che si sfogasse, che dicesse tutto ciò che le veniva in mente. Forse si stava sbloccando ed era un ottimo segno.
"Una volta?" la incitò.
Sapeva perfettamente a cosa si riferiva, ma voleva che fosse lei a raccontarlo.
No, niente, non importa.
"Sì, invece."
La bimba sospirò.
Okay, la mia prima mamma affidataria mi diceva delle cose brutte, per esempio che ero stupida se non riuscivo a parlare e a volte mi dava delle botte.
Stavano iniziando ad affrontare anche quel trauma. Bene, si disse Catherine.
"Quindi ti picchiava?"
Prendevo solo degli schiaffi minimizzò.
"Tesoro, se si comportava così con l'intento di farti male, allora ti picchiava."
Non voleva spaventarla o traumatizzarla ancora di più, ma solo farle capire come stavano le cose. Mackenzie aveva vissuto quell'esperienza sulla propria pelle, e meritava di conoscere la differenza tra dare qualche schiaffo per insegnare ai bambini a non fare più qualcosa che non dovevano, quindi per il loro bene, e picchiare per provocare loro dolore.
Allora sì, mi picchiava scrisse, tremando. Non sapeva se ce l'avrebbe fatta a proseguire, ma voleva almeno provarci. Non era mai andata a fondo della questione con nessuno, nemmeno con la mamma, ma Catherine era la sua psicologa e lei era sicura che avrebbe potuto aiutarla a sentirsi meglio, quindi prese un respiro profondo e, mentre la penna rischiava di caderle di mano, iniziò a scrivere. Non ricordo quante volte l'ha fatto, ma non molte. Di solito accadeva di sera, prima che andavo a letto. Hope dormiva già, quindi per fortuna non vedeva nulla. Lei mi faceva sdraiare sul pavimento e iniziava a colpirmi sulle gambe e sulla schiena, dicendomi di non gridare altrimenti l'avrebbe fatto ancora più forte. Sapeva che comunque potevo fare dei suoni, cioè di urlare per esempio, per questo me lo diceva. La prima volta in cui mi aveva picchiata l'avevo fatto, e il colpo che avevo ricevuto dopo, in testa, mi aveva fatta cadere a terra perché quel giorno non ero sdraiata. Da quello successivo mi ha fatta distendere.
Catherine era scossa. Aveva già lavorato con bambini che avevano subito violenza, sia fisica, che sessuale, che psicologica, episodi anche peggiori di quelli di Mac, ma ogni volta che sentiva storie del genere veniva toccata nel profondo e non riusciva a staccarsi completamente dalle situazioni descritte. Si schiarì la voce per cercare di non piangere. Non poteva permetterselo.
"Per il resto del tempo come si comportava?" le domandò.
All'inizio andava tutto bene. Insomma, i primi due giorni era normale, gentile. Mi aveva preso qualche giocattolo; ma ben presto quella donna ha iniziato a chiedermi se era vero che non riuscivo a parlare o se facevo apposta, e poi è cominciato tutto.
"Con "tutto" intendi le botte?"
Non solo. Ha iniziato a prestare attenzione a Hope, io ero da sola. Non giocava mai con me, non mi abbracciava. Mi diceva che se non parlavo, lei si comportava sempre così. Se mi avesse accarezzata io sarei fuggita. Avevo paura di lei e quando mi costringeva a mettermi a terra per picchiarmi… ero spaventatissima. Se non ci fosse stata Hope non so come avrei fatto. Siamo state da lei pochissimo tempo visto che poi io sono scappata. Avrei voluto portare Hope con me, ma dormiva con lei e non potevo entrare in camera sua. L'avrei svegliata e non so cosa mi faceva. Poi beh, lo sai, no?
Aveva fatto un po’ di errori sia perché era una bambina e a volte si confondeva tra indicativo e congiuntivo, com’è normale a quest’età, sia perché l’agitazione le impediva di concentrarsi bene per formulare le frasi in modo corretto.
"Sì, lo so."
La faceva sdraiare a terra, pensò Catherine, picchiandola come se avesse fatto chissà cosa. Doveva essere gravemente disturbata e anche bravissima a nasconderlo se nessuno si è accorto di nulla. Che bestia! Come si può arrivare a fare una cosa tanto schifosa e orribile?
Avrebbe tanto voluto tirare un pugno al tavolo, ma si trattenne per non terrorizzare la piccola. Lo era già abbastanza. Vide che si mordeva le labbra e serrava le palpebre cercando di non piangere.
"Sfogati, piccola" mormorò. "Non devi aver paura di farlo, lo sai."
La psicologa si stupì del fatto che no fosse ancora scoppiata.
Mackenzie non sapeva come mai, forse perché ne aveva appena parlato, ma le veniva naturale fare così. Spiegò che si comportava sempre in quel modo quando veniva picchiata: si mordeva le labbra fino a farsi male e non versava una lacrima fino a quando non era sola.
Hope era trattata bene, come ti ho già detto. La coccolava molto, ma io avevo paura che prima o poi avrebbe fatto qualcosa anche a lei. La notte dormivo pochissimo. Mi batteva forte il cuore. Credevo che mi sentivo male, prima o poi. Rimanevo sveglia per ascoltare, per controllare che non la stava… stesse toccando.
Camminava in punta di piedi fino alla stanza della sua mamma affidataria per ascoltare meglio, e solo quando non sentiva niente tornava nel proprio letto.
Tremò e le uscì un grido strozzato.
"Cosa ti senti?" le chiese Catherine.
Lei si prese la testa fra le mani.
"Ti fa male?"
Annuì e scrisse che il dolore era piuttosto intenso.
"Hai fatto un grande sforzo, sei stata anche troppo brava. Non ti devi spaventare, passa subito. Vuoi un po' d'acqua?"
La donna stava per uscire e dirigersi nel bagno a prendere da bere, ma la mano della bimba, piccola e fredda, le strinse forte la sua. Non era una stretta normale, quella. Pareva più un gesto dettato dall'ansia e dalla paura. Catherine la guardò negli occhi e vi lesse una muta richiesta.
"Non lasciarmi sola",
sembravano volerle dire.
Capendo che forse avrebbe avuto una delle sue crisi restando lì senza di lei, la ragazza decise di agire in un altro modo.
"D'accordo Mac, non me ne vado. Tranquilla, resto qui, capito?" Aprì la borsa e ne tirò fuori una bottiglietta mai aperta. Se l'era portata nel caso avesse avuto sete, e se n'era ricordata solo in quel momento. "Ecco, tieni."
Mentre la piccola sorseggiava quella bevanda che la stava facendo sentire meglio, Catherine iniziò a pensare.
 
 
 
Il racconto di Mackenzie l'aveva colpita sempre più. Prima o poi avrebbero dovuto cominciare ad affrontare anche quell'ulteriore, dolorosa parte della sua vita e sarebbe stato necessario parlarne ancora in futuro. Per fortuna ora la bambina si era aperta, e da tempo non aveva più paura. Aveva una mamma e un papà meravigliosi che la amavano con tutto il cuore e lei ricambiava quel sentimento. Aveva anche un'amichetta straordinaria. Era importantissimo che avesse imparato a fidarsi di loro in fretta, perché di solito i bambini vittime di abusi faticano a riuscirci e pensano che tutti faranno loro del male. In genere hanno due reazioni differenti quando vengono maltrattati: o reagiscono, o sono paralizzati dalla paura. Mackenzie aveva avuto il coraggio di reagire, di andarsene per raccontare la verità, di rischiare di non essere creduta dato che sul suo corpo non c'erano segni visibili; e l'aveva fatto per salvare se stessa e anche la sorellina, benché grazie a Dio a lei non fosse stato torto un capello. Purtroppo non era riuscita a dire ogni cosa alla polizia o alle assistenti sociali, ma l'aveva fatto con Demi e alla fine tutto era venuto a galla. Un'altra cosa positiva era che quegli abusi erano durati pochi giorni, mentre c'erano bambini che li subivano per anni, e spesso non si trattava solo di botte. Certo alla piccola Mackenzie restavano i ricordi, e con essi il dolore che, per quanto diminuito, non se ne sarebbe mai andato, ma pareva aver superato, almeno in parte, quel trauma ed era una cosa bellissima, che dimostrava quanto fosse coraggiosa.
 
 
 
Nel frattempo, Demi stava tornando a casa dei suoi in fretta e furia. Non aveva fatto altro che pensare alle parole della madre.
"Dai, porca miseria!" imprecò, visto che una macchina davanti a lei stava andando ai venti orari.
Le mani le tremavano così tanto che temette più volte di perdere il controllo dell'auto, ma cercò di fare dei respiri profondi e di calmarsi quel tanto  che bastava a concentrarsi sulla strada.
Quando arrivò trasse un sospiro di sollievo. Fu Dallas ad aprirle.
"Come sta?" le chiese prima che rientrassero.
"È sul divano, sembra abbattuta. È tutta la mattina che le chiediamo cosa succede, ma non vuole parlare. C'è anche Eddie, ora."
Erano tutti lì, immobili, a fissare punti indefiniti della stanza.
"Hope sta dormendo, l'ho portata nel mio letto e ho messo dei cuscini in modo che non cada" disse Madison a Demi.
"Grazie."
"Ora che ci siete tutte, Dianna può parlare" iniziò Eddie, con la sua voce calda e profonda. "Si tratta di una cosa che già sapete, ma vostra madre ci teneva a dirvi anche altro."
"Per favore, smettetela di tenerci sulle spine!" li pregò Demi.
"Infatti, ci state mettendo ansia" aggiunse Madison.
"Avete ragione. Innanzitutto, scusatemi se vi ho fatte preoccupare così tanto. Non era mia intenzione, ma a volte le emozioni non si possono controllare. Voi sapete che non ne parlo praticamente mai, perché è un argomento che mi fa star male, ma sono stata anoressica in passato, e quando Patrick se n'è andato la cosa è continuata. In seguito mi sono curata, è vero, ma…"
"Mamma, perché rivanghi così il passato?" le domandò Dallas.
Aveva visto sua madre soffrire tanto, mangiare pochissimo e poi vomitare sostenendo che doveva essere magra e perfetta, che si vedeva sempre troppo grassa, che la relazione con Patrick la faceva stare male perché lui continuava a bere e a drogarsi, che non sopportava più tutto ciò; e poi c'era Demi, più piccola della sorella, che soffriva nel vedere quel che succedeva  a casa e non capiva. Fu in quel momento che le due ricordarono un episodio accaduto tanto tempo prima.
 
 
Era tarda sera, ormai, e dato che Patrick non era ancora tornato, Dianna aveva preparato da mangiare per le sue figlie. Non era giusto che rimanessero affamate perché lui era andato fuori a bere e Dio solo sapeva quando sarebbe rientrato.
"Tu non mangi?" le aveva chiesto Dallas.
Quella bambina aveva soltanto sette anni e mezzo eppure ne aveva viste, di cose! Litigate tra i genitori, lui che urlava e lei che faceva lo stesso, o che piangeva; e non solo, perché a volte Patrick non usava la voce grossa, ma passava ai fatti.
"Aspetto vostro padre. Si arrabbierà se non…"
In quel momento la chiave girò nella toppa e la porta si aprì e si chiuse subito dopo con un tonfo. Patrick entrò in cucina barcollando. Era pallido e puzzava di alcol e di qualcos'altro che né Demi, né Dallas riuscirono a definire.
"Ti sei anche drogato stasera?" gli chiese Dianna, schietta.
Doveva tenergli testa per non farsi intimidire, per non lasciare che lui la schiacciasse.
"E anche se fosse? Che cazzo te ne fotte?"
"Beh, in realtà mi interessa. Sei sposato e hai una famiglia. Non mi hai mai voluto spiegare perché fai tutto ciò, da non ricordo quanto tempo a questa parte" rispose lei, decisa. "Non pensi che hai due figlie piccole alle quali dovresti badare anche tu?"
"Io ci sono per loro, le amo."
Rischiò di cadere a terra ma si tenne al tavolo.
"Sì, è vero." Dianna doveva riconoscerlo: nonostante tutto, Patrick adorava Demi e Dallas. Giocava molto con loro e aiutava la più grande a fare i compiti, fino a quando non si riduceva in quelle condizioni. "Dopo, però, vai a bere e a drogarti. Non puoi farne a meno e non ti vuoi neanche curare."
"Smettila, cazzo!" Con una forza inaudita sollevò il tavolo e lo rovesciò, rompendo piatti, bicchieri e facendo cadere il cibo a terra. Dianna e le bimbe fecero appena in tempo a spostarsi. L'uomo prese in mano un paio di forchette e le lanciò verso la moglie, che fortunatamente le schivò con uno scatto e si protesse la faccia temendo di essere colpita in un occhio. "Non ti permettere mai più di parlarmi in questo modo, Dianna" sibilò, minaccioso.
Demi intanto si era messa a piangere, ma la madre non ebbe la forza di abbracciarla e calmarla. Quegli scatti di rabbia del marito la terrorizzavano ogni volta e le facevano perdere tutto il coraggio che aveva posseduto fino a poco prima.
"Shhh, sta' tranquilla" le disse Dallas, combattendo con se stessa per non far uscire le lacrime. Era spaventatissima anche lei, temeva che il papà avrebbe potuto farle del male, ma doveva essere forte per la sorellina. "Andrà t-tutto…"
Bene? Come poteva dirle una cosa del genere? I litigi del genere tra i genitori erano sempre più frequenti e ogni volta finivano in quel medesimo modo.
Fu quando Patrick provò a lanciare un oggetto contro le bambine, cosa che prima non aveva mai fatto, che Dianna fece loro da scudo e capì che la cosa doveva finire.
"Porta tua sorella in camera e rimanete lì" le disse la mamma, in tono forse troppo duro.
Suonava come un ordine perentorio, così la bambina non ci pensò due volte.
"Vieni, Demi" mormorò prendendola per mano.
Cercò di non tremare, ma le fu impossibile.
"No, m-mamma" balbettò la bambina, piantando i piedi per terra, tanto che l'altra dovette praticamente trascinarla su per le scale.
"Non possiamo restare qui, stanno litigando" le spiegò.
"M-ma le farà del male?"
Demi non aveva mai visto il padre così arrabbiato. Lo sentì battere un pugno contro qualcosa, il tavolo forse, e si spaventò talmente che fece un passo all'indietro rischiando di cadere dalle scale, ma Dallas le strinse la manina e la sostenne. Quando chiuse a chiave la porta della sua camera, si sedette sul letto con la piccola sulle gambe e parlò:
"No. Ha già lanciato oggetti e urlato ma non le ha mai fatto niente, vedrai che non succederà nemmeno stavolta."
In realtà qualcosa le aveva fatto, lo sapevano entrambe. Aveva mostrato una sicurezza che non aveva, ne era consapevole. Avrebbe voluto gettarsi a peso morto sul letto e piangere tutte le sue lacrime, ma non lo fece.
"Dopo, quando sarò sola" si disse.
I genitori, intanto, continuavano a litigare urlando così forte che le due bambine potevano sentirli chiaramente. Dianna diceva a Patrick che era assente e che si stava rovinando la vita e di conseguenza stava distruggendo la loro famiglia, e lui le rispondeva che era esagerata, come al solito.
"Basta, non ne posso veramente più di te!" strillò la donna. "Sono stanca, siamo stanche. Tu ci fai vivere nel terrore."
"Che vuoi dire con "siamo stanche"?"
"Che io e le bambine non ne possiamo più, Patrick. Loro sono terrorizzate e anch'io. Continui a farci paura quando ti ubriachi e ti droghi, ma sei troppo sbronzo e fatto per rendertene conto. So che ami le nostre figlie, in un modo a mio parere sbagliato e che io non capisco, ma lo fai comunque. Siamo stati felici per molto tempo, lo sai, poi tutto è cambiato. Quindi se se vuoi che loro siano felici, vattene. Lasciaci stare. Prendi le tue cose, sparisci da qui e non fare più ritorno. Parlerò con un avvocato per farti avere i documenti per il divorzio, e ci metteremo d'accordo su quando potrai vedere le bambine, anche se penso che prima dovrai provare a disintossicarti e curarti. Nessun giudice te le affiderà finché starai così, nemmeno per un weekend ed io non te le lascerò finché sei in questo stato; e comunque, te le farò vedere, ma resteranno con me. Te lo ripeto perché ti entri in testa: rimarranno con me! Chiaro?"
La voce di Dianna risuonò forte e sicura come mai prima.
"Mi stai lasciando?" le domandò lui, abbassando un po' il tono.
La donna scoppiò in singhiozzi e Dallas e Demi avrebbero voluto correre di sotto e abbracciarla, ma quando la più piccola si avvicinò alla porta l'altra la fermò.
"Aspetta, è meglio di no; e poi ho chiuso a chiave per sicurezza. Restiamo qui ancora un po', okay?"
"Ma…"
"Demi, torna qui ti prego."
Dallas non alzava mai la voce con lei, era sempre gentile e Demi la adorava per questo. Non era come il papà.
Ubbidì e le si sedette in grembo.
"Sì" rispose Dianna.
Passarono lunghi, interminabili momenti di silenzio. Tutto era sospeso, in attesa di una qualunque reazione da parte di Patrick. La mamma era stata coraggiosa a dirglielo, pensò Dallas, ma ora che cosa le avrebbe fatto? L'avrebbe massacrata di botte? Le avrebbe buttato addosso un oggetto colpendola e mandandola in ospedale? Non era mai successo, ma visto come si comportava, la bambina riteneva che prima o poi sarebbe potuto accadere. Le piccole non lo sentirono, ma l'uomo trasse un profondo respiro, e poi disse tre parole che udirono chiaramente:
"Hai ragione tu."
Salì le scale con passi lenti e pesanti e le bimbe smisero quasi di respirare, temendo che avrebbe potuto buttare giù la porta e portarle via con sé. Non volevano andare con lui, ma restare con la mamma e vederlo solo quando si sarebbe sentito meglio… forse. Si strinsero l'una all'altra per farsi coraggio. Lo udirono entrare in camera, aprire l'armadio e poi ci furono dei tonfi, infine i suoi passi si unirono al rumore di un trolley. Se ne stava andando. La porta si aprì e si richiuse, stavolta più piano. Dianna entrò probabilmente in bagno, e dopo un po' si sentirono alcuni conati di vomito.
"Perché la mamma mangia poco e poi vomita?" chiese Demi.
Dallas non ricordava da quanto lo facesse, perché non rammentava più nemmeno quando il padre avesse cominciato a bere e a drogarsi.
"Sta male" le rispose.
"Allora sta male molto spesso" osservò l'altra.
Si comportava così quasi ogni giorno tanto che Demi, nonostante la sua tenerissima età, aveva cominciato a guardarsi la pancia e a domandarsi se anche lei era grassa, come la mamma diceva sempre di essere.
"Sì" rispose la più grande, anche se non avrebbe saputo dare un nome a quel problema.
Si sentì l'acqua del rubinetto scorrere, poi più niente.
Passarono pochi minuti e qualcuno bussò alla porta della cameretta. Le bimbe non fiatarono e non mossero un muscolo. Che il padre fosse ritornato a prenderle?
"Sono la mamma" disse una voce.
Dopo qualche momento di esitazione Dallas aprì. Dianna era sconvolta e pallidissima, ma ciò che colpì di più le bambine fu l'espressione dei suoi occhi, arrossati dal pianto e pieni di puro terrore.
"È finita, piccole mie! È tutto passato!" esclamò abbracciandole. "Se n'è andato e vi prometto che non farà più quelle cose, non le vedrete più."
Tutte e tre iniziarono a piangere.
 
 
"Ragazze, tutto bene?" chiese Eddie.
Loro non risposero. Quel lungo flashback le aveva turbate. Non ci pensavano da anni. Dio, quanto faceva male ricordare!
"Stavate pensando all'ultima volta, vero? A quando alla fine l'ho lasciato" disse Dianna.
"Sì, mamma" confermò Demi con voce rotta.
" Come sapete avrei voluto andarmene quando Demi aveva più o meno otto mesi, ma lui non me l'ha permesso e mi ha ridicolizzata per la mia decisione. Faceva sempre così. I vostri pensieri sono anche i miei. Quella sera è stata terribile. Credevo mi avrebbe picchiata. Se avesse toccato voi, io non so cos'avrei fatto. Probabilmente non sarei stata responsabile delle mie azioni" sibilò, piena di rabbia, una rabbia che credeva di avere ormai represso.
"Non importa mamma, ormai è passato" la rassicurò Dallas.
"Io ho complicato le cose: ero anoressica prima, e dopo che lui se n'è andato questo problema è continuato, anche se io tentavo di nascondere tutto e di non farlo notare. Negavo addirittura a me stessa di avere una malattia."
"Sì, ma poi ne sei uscita, è questo l'importante" cercò di incoraggiarla Demi.
"Appunto, ero anoressica e continuavo a ripetere che tutte e tre dovevamo essere magre e perfette. Demi, Dallas, mi dispiace! Anch'io vi ho rovinato l'infanzia, e Demetria, è stata colpa mia se tu hai avuto tutti quei disturbi alimentari, non solo di Patrick, non solo dei bulli! E dato che negavo di avere un disturbo, non mi sono accorta dei tuoi problemi." Pianse disperatamente, perché per una madre un dolore del genere è impossibile da sopportare. Non era stata in grado di dare alle proprie bambine un'infanzia e un'adolescenza felici e si sentiva un fallimento. Non l'aveva mai detto a nessuno perché non voleva che le figlie soffrissero ancora a causa sua. "Ne ho parlato solo con Eddie e con gli psicologi che mi hanno aiutata" concluse.
"Oh santo cielo!" esclamarono insieme le sorelle.
La loro mamma aveva sofferto per anni per questo e non si erano mai accorte di niente. Era assurdo. L'abbraccio che seguì unì in principio solo loro tre. Il marito e Madison rimasero in disparte, capendo che avevano bisogno di un attimo di tempo da passare così, da sole.
"Non sentirti più in colpa, mamma" la rassicurò Demi. "Sì, ci dicevi queste cose è vero, e forse avrai anche sbagliato, ma tutti i genitori commettono degli sbagli, piccoli o grandi che siano. È capitato anche a me e immagino che succederà ancora un sacco di volte, ma non per questo mi reputo una cattiva madre. In certi momenti l'ho pensato, sì, ma poi ho compreso che non lo sono affatto. Papà era molto malato, mamma, e anche tu ed io lo siamo state. Forse i disturbi che abbiamo avuto noi due sono ereditari, non lo so, ma comunque non mi sento di colpevolizzare completamente nessuno, nemmeno papà. E poi noi abbiamo vissuto molti momenti felici, davvero!"
"Esatto" confermò Dallas.
Demetria ricordava benissimo che, quando sua mamma si era sposata con Eddie, Patrick aveva commentato:
"Lui sarà in grado di fare per voi ciò che io non ho fatto"
e lei era stata felice di questo, perché significava che aveva riconosciuto i suoi errori.
"Siete sicure che n-non siete arrabbiate con me? Potete dirmelo tranquillamente, e se è così spero che possiate perdonarmi."
Le due ragazze le presero ognuna una mano e dissero insieme:
"Mamma, noi non dobbiamo perdonarti di niente. Va tutto bene."
Lei se le strinse al cuore, le baciò e le abbracciò a lungo e loro si sentirono protette e al sicuro.
"Sei stata molto coraggiosa a parlarne, mamma" disse poi Madison.
Lei sapeva già ciò che Dianna aveva passato, così come ne era a conoscenza Andrew, ma per tanti anni la donna non aveva più voluto nemmeno menzionare il fatto che aveva avuto dei problemi. Demi era stata onesta con i fan, aveva raccontato tutto, lei invece si era vergognata troppo perfino a parlare alle figlie dei sentimenti che provava; ma quel giorno aveva deciso di buttare tutto fuori e di togliersi quel peso dal cuore. Sorrise. Ora si sentiva molto meglio.
"Vi amo, piccole mie! Voi tre siete tutto il mio mondo."
Era una bellissima dichiarazione d'amore, pensarono le ragazze.
"Che ne dite se ci beviamo un tè?" propose Eddie.
Tutte si ritrovarono d'accordo.
 
 
 
"Per il resto come stai?"
Mackenzie si era calmata grazie all'acqua e, soprattutto, a qualche altra parola dolce di Catherine. Aveva poi parlato ancora di Elizabeth e del rapporto che aveva con Hope per cercare di distrarsi. Mancava mezzora alla fine della seduta e Catherine voleva provare a farle dire qualcos'altro. La piccola stava per scrivere che andava tutto bene, ma in quel momento accadde qualcosa che, sulle prime, le parve molto strano. Vide una forte luce, ma capì subito che non era né naturale, né artificiale. Era accecante e le fece molto male agli occhi. Li socchiuse, fino a farli diventare due piccole fessure e fu allora che tutto cambiò.
 
 
Non si trovava più in quello studio, con Catherine seduta lì davanti. Era di nuovo nella sua vecchia casa, come nei sogni che faceva spesso, solo che stavolta era tutto molto più nitido. Era sera, una di febbraio per la precisione, e una lieve ma fitta pioggerellina batteva contro i vetri. Lei, Hope e i genitori vivevano in una casa a due piani, vecchia e malmessa. Anche se la sorellina era nata da poco dormiva già con Mac perché la camera dei genitori era troppo piccola per farci stare la culla, e i due non se l'erano sentita di mettere la bambina in mezzo a loro pensando che fosse pericoloso. Le piccole riposavano. Mackenzie dormiva in un lettino singolo, così stretto che ci stava appena e con le doghe in legno che continuavano a scricchiolare. Presto o tardi quel sostegno sarebbe crollato, ma non poteva permettersi nulla di meglio. A un tratto sentì un colpo alla porta, poi tutto si fece nero.
 
 
Quando quel tuffo nel passato terminò, sbatté le palpebre più volte per riuscire a comprendere dove si trovava. Quando fu conscia di essere nello studio della psicologa e non in quella casa degli orrori, cercò di scrivere per spiegare ciò che aveva appena ricordato.
Non è un granché, lo so concluse.
"Non importa. Hai fatto comunque dei passi avanti, tesoro. Le altre volte non te la sentivi nemmeno di parlare di questo, ora invece sì. È importante ciò che hai appena fatto! Hai ricordato dei dettagli su quella sera, e va bene così."
Lei scosse la testa. Non ne era affatto convinta.
"Perché dici di no?"
Non ho ricordato nulla sull'omicidio, su quello che è successo prima e dopo, mancano dei pezzi.
Sospirò. Si sentiva come se si trovasse sempre allo stesso punto e non riuscisse a schiodarsi da lì. Non ce la faceva nemmeno a guardare Catherine in faccia. Era troppo triste e abbattuta. Aveva perso tempo a parlare del presente, quando avrebbe dovuto concentrarsi sul passato e soprattutto su quella notte; ed ora che ci era riuscita non aveva fatto abbastanza.
Catherine stava per dire qualcosa, ma la bambina iniziò a fissare il vuoto. Forse stava ricordando altro, quindi decise di aspettare.
 
 
Mackenzie udì i due spari, poi delle urla, soprattutto quelle di sua madre, grida di dolore che squarciarono ancora di più il silenzio che, fino a poco prima, aveva avvolto la casa.
 
 
Sangue, scrisse, c'è tanto sangue per terra!
Catherine lesse quella frase, scritta con una calligrafia incertae un po' sbavata. La bambina tremava da capo a piedi, come se si fosse trovata sola in un luogo disperso, dimenticato dal mondo e pieno di neve e ghiaccio.
"Mackenzie, guardami" le disse, ma lei non lo fece.
Non sentiva più Catherine che la chiamava, che le chiedeva di raccontarle ciò che vedeva. Era troppo orribile.
Quanto sangue! Ce n'è dappertutto. La mia mamma piange, urla scriveva, mentre continuava a vedere e rivedere quelle immagini, quasi fossero state un film che, anche se si è già guardato, fa sempre paura.
La cosa che la terrorizzava, però, era che quello non era un film, ma la realtà, una parte del suo passato che le aveva fatto male e le provocava, ancora adesso, un dolore inimmaginabile.
Catherine rilesse ciò che la piccola aveva scritto e tutto le fu chiaro. Stava rivivendo quel momento e cercava di descriverlo, ma era difficile.
"Mackenzie, cerca di parlarmi di più di cosa vedi. Ascolta, va tutto bene, okay? Qui non c'è sangue, nessuno vuole farti del male" le disse, parlando con dolcezza.
Sapeva che a volte può capitare che i bambini rivivano le esperienze traumatiche in maniera talmente reale che pare loro di trovarsi di nuovo in quella situazione e questo, ovviamente, non fa che alimentare in loro il dolore, che poi si trasforma in paura.
Ricordo, continuò, di essermi avvicinata a mia madre, ma so che è successo qualcos'altro prima.
L'aveva già detto in precedenza, ma non le importava.  La psicologa non se la prese.
"Cosa?" le chiese dolcemente lei sollevata del fatto che la bambina, ora, avesse ricominciato a guardarla.
Non me lo ricordo.
Tremò violentemente, ma la donna, temendo che stesse di nuovo male come poco prima, le fece un'altra domanda:
"Poi cos'è successo?"
Tenevo in braccio Hope quando mi sono avvicinata ai miei genitori. Mi sono accovacciata e ho toccato la mano di mia madre. Era tiepida, ma poco a poco diventò fresca e poi fredda, sempre più fredda!
Mackenzie ebbe un singulto. Dovette mettersi la mano davanti alla bocca per non urlare o non scoppiare a piangere. Sentiva un dolore fortissimo alla gola e le lacrime pizzicarle gli occhi.
"È stato allora che hai dato alla mamma il cuscino?"
Sì, ma la sua mano era ancora calda.
"Continua" la incalzò.
Avevo paura. Tremavo come adesso, anzi, di più. Sapevo che lui era vicino, ma non dove fosse.
"Con lui intendi l'uomo che ha ucciso i tuoi genitori?"
Lei annuì.
"Sai come si chiama?"
No.
"L'hai visto mentre li uccideva? Voglio dire, l'hai visto in faccia?"
Mackenzie si concentrò più che poté. Non ricordava ora, ma doveva fare uno sforzo. Era semplice: l'aveva visto, sì o no?
Non rispose alla domanda di Catherine. Scrisse un'altra cosa:
C'era tanto, tantissimo sangue, vicino ai miei genitori e sopra di loro. Sentivo il suo odore.
Sì, ricordava perfettamente quell'odore metallico e nauseabondo.
Hope li ha visti. Piangeva tanto! continuò.
Sudava e agitava le manine e i piedini. Non so se ora ricordi quello che è successo, ma non credo perché era piccolissima.
"Cos'è successo dopo che sei andata vicino ai tuoi genitori?" le chiese Catherine. "Lui è venuto subito a scottarti con la sigaretta?"
C'erano quasi. Mackenzie stava ricordando molto più di quanto la psicologa si sarebbe aspettata. Era bravissima, stava facendo uno sforzo mentale non indifferente. Catherine non riusciva nemmeno ad immaginare quanto doveva essere difficile, per lei, ma ce la stava facendo. Se solo avesse ricordato ancora un po', se avesse detto ciò che provava e si fosse finalmente sfogata davvero, le cose poi sarebbero migliorate e la terapia sarebbe stata breve.
Mackenzie, però, non era ancora abbastanza forte. Non riuscì più a parlare. Rimase immobile, con in testa quell'unica parola che la terrorizzava tanto ed evocava nella sua mente immagini che non avrebbe mai potuto cancellare: "sangue".
Il ricordo di tutto quello che aveva visto la notte della morte dei suoi la fece esplodere. Aprì la bocca e cominciò ad urlare, a  battere pugni e calci sulla sedia, sulla scrivania, dove diavolo capitava.
Catherine uscì subito ed andò a chiamare Demi, che intanto era tornata lasciando Hope dai genitori. Le spiegò in velocità quello che stava succedendo.
"L'ho sforzata troppo, forse; è colpa mia" disse infine, mentre rientravano.
La piccola non si era mossa e continuava a gridare e a fare ciò che stava facendo, mentre gli altri bambini e ragazzini che aspettavano fuori con i loro genitori si guardavano spaventati senza sapere che dire.
"Tranquilli, non è successo niente" cercò di calmarli Catherine chiudendo poi la porta.
Non aveva tempo di dare ulteriori spiegazioni.
"Tesoro, sono la mamma! Calmati, tranquilla, shhh, shhh" ripeteva Demi alla figlia.
Era accucciata vicino a lei. Avrebbe voluto prenderle le mani, ma ogni volta che ci provava, la bambina si ritraeva e rifuggiva qualsiasi tipo di contatto.
No, non toccarmi! Non parlarmi! Tu vuoi farmi del male! scrisse, gettando il foglio a terra e ricominciando ad urlare.
Non era lì. Era come se fosse uscita dalla realtà e se si trovasse in un mondo fatto solo di morte e sangue.
"Sono la mamma, Mac, sono Demi."
La ragazza cercava di tenere i nervi saldi, ma si rese conto di aver pronunciato quella frase in tono disperato. Stava andando in panico anche lei, e non andava bene.
Le sue parole, però, fecero ritornare improvvisamente la piccola alla realtà, ma era anche quello un mondo distorto, diverso da come lei se lo ricordava. Vedeva la stanza in cui era, ma si sentiva sommergere, pian piano, da qualcosa di denso, dal colore rosso e che, lentamente ma inesorabilmente, l'avrebbe annegata. Sapeva di cosa si trattava.
Con mano tremante riuscì a prendere la penna e scrivere:
C'è sangue anche qui. Moriremo tutte!
La psicologa fece un cenno all'altra donna come per dirle:
"Temevo che sarebbe successo."
Mackenzie aveva così tanta paura del sangue che parlarne, quel giorno, aveva fatto sì che lei trasportasse mentalmente nel luogo in cui era ora quelle immagini orribili.
Infatti, vedeva il sangue salire. Le aveva già sporcato le gambe e il bacino. Stava arrivando al petto. Eccolo, sì, saliva, saliva sempre piano, per farle più male. La bambina respirava affannosamente. Sentiva che tra poco tempo avrebbe vomitato. Aveva dei conati, ma non riusciva a buttar fuori nulla. Ecco, ora il sangue le aveva circondato il collo, adesso era sul suo viso, sopra la sua bocca. No, no, lei non voleva morire, non poteva! Aveva una sorellina che amava, una mamma e un papà meravigliosi e le zie e i nonni! Non voleva che soffrissero. Si scosse avanti e indietro, come per scacciare via quel sangue maledetto, ma questi sembrava quasi ritornare con più violenza contro di lei come le onde del mare durante una tempesta. Era arrivato sopra la sua testa, impregnandola definitivamente del suo odore schifoso, appiccicandosi al suo corpo, facendole diventare anche i capelli rossi. Sembravano serpenti pronti a succhiare via anche il suo, di sangue, per poi abbandonarla al suo destino. Erano terrificanti! Ne era convinta: sarebbe morta a breve. Perché, allora, riusciva ancora a respirare? Se il sangue la stava soffocando, non avrebbe dovuto impedirglielo? Forse stava solo immaginando di respirare e in realtà non era così. Ora si sarebbe accorta che l'aria le mancava.
"Mackenzie!" La voce della madre, disperata ma allo stesso tempo ferma, le arrivò da lontano. La bambina la guardò, ma aveva la vista annebbiata. "Mackenzie!" ripeté la stessa voce, poi si sentì scuotere.
Improvvisamente tutto il sangue sparì.
Mackenzie si toccò il corpo: non era sporca, né bagnata.
"Tesoro, è tutto finito" le disse la psicologa.
Ho visto che c'era tantissimo sangue scrisse. Mi stava soffocando, era orribile!
"No, amore, non c'è mai stato, hai capito? Era solo la tua immaginazione" le spiegò Demi. "Oggi hai ricordato molte cose e queste ti hanno fatto avere una specie di allucinazione."
"La mamma ha ragione, Mackenzie. Non devi avere paura. Non è successo niente. Hai avuto una forte crisi, ma ora è passata. La cosa importante è che oggi hai ricordatoe hai parlato anche di altre cose che ti fanno male ed è un ottimo segno."
Sia Demi che Catherine erano state molto dolci con lei. Le avevano fatto capire ciò che le era successo in modo semplice.
Mac tirò un sospiro di sollievo, ringraziando il Signore che fosse stata tutta una finzione.
"Per oggi abbiamo finito" le disse poi Catherine. "Ci vediamo la settimana prossima."
Demi prese Mackenzie in braccio, poi salutò la donna ringraziandola per tutto e uscì con la
bambina.
Una volta fuori, la piccola si accoccolò ancor più a lei e cominciò a piangere. Demi lasciò che si sfogasse e continuò ad accarezzarla e a cantarle delle canzoncine finché, dopo pochi minuti, si tranquillizzò.
"Posso solo immaginare quanto sia stata dura per te oggi" le disse, "ma sono fiera di te. Sei sempre molto brava, Mackenzie, ma oggi hai superato te stessa. Ora non pensare più a quelle cose brutte, o almeno provaci. Adesso andremo a prendere Hope e poi a casa e, quando ti sarai riposata un po', mangeremo con papà e faremo tanti giochi, va bene?"
La bambina sorrise a annuì. I ricordi dolorosi e tutto quel sangue erano state visioni che Mackenzie, lo sapeva, non avrebbe mai dimenticato ma ora, tra le braccia della sua mamma, si sentiva un po' meglio. Sapeva che Demi l'avrebbe sempre difesa e aiutata e che tutto, adesso, era a posto.
 
 
 
NOTE:
1. per quanto riguarda la descrizione delle reazioni dei bambini che subiscono violenza, mi sto informando molto a riguardo leggendo un manuale di psicologia in inglese e alcuni articoli che trovo su siti che trattano l'argomento in modo abbastanza approfondito. Catherine sa benissimo che, anche se Mackenzie è stata picchiata per pochi giorni, ha comunque subito un trauma e non vuole assolutamente dire che il suo caso non è grave, ma semplicemente sottolineare il fatto che ci sono bambini che hanno vissuto situazioni peggiori. Questa tematica molto delicata verrà ripresa anche in futuro, e spero di trattarla con tatto e sensibilità, com'è giusto.
2. In "Simply Complicated" vien e detto che Patrick lanciava oggetti e urlava, era molto aggressivo e aveva scatti di rabbia improvvisi e faceva uso di alcol e anche di droghe. A quanto so, Dianna l'ha lasciato per questo ma non ho idea di quanti anni avesse Demi quando è successo. Era piccola, comunque; ho letto articoli diversi che dicono cose differenti a riguardo, per cui ho preferito inventarmi che avesse circa tre anni.
Aggiornamento: dopo aver letto il libro di Dianna "Falling With Wings: A Mother's Story", ho scoperto che ne aveva uno e mezzo o due, l'ho supposto da alcune date che la donna ha riportato ma non è mai specificato. Ad ogni modo nella mia fanfiction ho preferito lasciare l'età he avevo scritto in precedenza. La scena del flashback è parzialmente vera: è vero che Patrick ha tentato di lanciare un oggetto contro le figlie e che la mamma si è messa in mezzo, poi ha capito che non poteva più vivere così. Vero è anche il fatto che aveva cercato di andare via quando Demetria aveva otto mesi ma il marito l'ha fermata ridicolizzandola. In realtà non è stata lei a mandarlo via ma se n'è andata e si è nascosta in una casa al lago per alcune settimane ricevendo mille chiamate dal marito, poi si è trovata un appartamento e un lavoro. Sempre nel libro Dianna ha scritto che non avrebbe fatto vedere a Patrick le figlie finché fosse stato così male.
Ovviamente non è mia intenzione offenderlo. La scena di lui che rovescia il tavolo è stata sempre inventata, ma sono sicura che Demi abbia visto il padre ubriaco e arrabbiato perché marissa Callahan, un'amica della cantante, della quale non ho parlato perché non la conosco proprio come persona famosa, ha detto sempre nel documentario che la ragazza è stata testimone di quegli episodi. Demi ha anche fatto sapere che non vuole colpevolizzare totalmente suo padre per ciò che ha fatto, che erano i suoi disturbi a controllargli, almeno in parte, la mente. Quando, nella fanfiction, durante il flashback le bambine pensano che vorranno rivedere il papà solo quando starà meglio, ovviamente questi sono più i pensieri di Dallas che di Demi, che è ancora piccola e non capisce bene la situazione, anche se ha paura.
3. Anche il fatto che Dianna fosse anoressica è vero. L'ho letto sempre nel libro. In un articolo di "The American Way" nel quale la cantante asseriva che i suoi problemi derivano probabilmente da questo e che si guardava la pancia già quando aveva due o tre anni per vedere se era grassa, cosa che poi ha detto anche in un video che ho visto su YouTube. In "Simply Complicated" Dianna ha fatto capire che si sente in colpa perché ha sempre detto alle figlie che bisogna essere magre e ha anche pianto mentre lo raccontava, per cui ho voluto aggiungere tutto questo nel capitolo. Sono tutte cose che ho scoperto da poco, per tale motivo non ne ho mai parlato prima. Dianna ha iniziato a curarsi per l'anoressia e altri disturbi di cui parlerò in seguito nel 2011, ma ora è guarita, sta bene.
 
 
 
ANGOLO AUTRICE:
scusatemi per le note lunghe, ma ci tengo a spiegare cos'è farina del mio sacco e cosa no.
Mackenzie è ancora una volta vittima dei bulli, ma non parla con Elizabeth e si chiude in sé. Cos'avete provato leggendo quelle scene? Ha ricordato qualcosa in più, anche se sono solo piccoli dettagli. Ha anche parlato della sua prima madre affidataria, cosa che non faceva da tantissimo tempo. Scrivendo quella parte mi si è spezzato il cuore. Una volta ho letto un libro di Danielle Steel, "La lunga strada verso casa", nel quale una donna si comportava davvero così con la figlia, e anzi la picchiava anche peggio. Non era affidataria, ma biologica, e le descrizioni delle botte che la piccola prendeva erano parecchio dettagliate. Non è stato un libro facile da leggere, ma mi ha fatto capire che certa gente è proprio fuori di testa. L'ho letto con mia mamma e ricordo che ci saliva una rabbia a leggere quelle scene, che spesso dovevamo chiudere e riprendere in seguito. Ripeto, cerco di parlare di tutto ciò con il massimo tatto. Non è mia intenzione offendere nessuno o trattare un argomento tanto delicato e complicato in maniera scontata o insensibile, per cui se avete suggerimenti o osservazioni da fare, o consigli da darmi, li accetto tutti molto volentieri.
Riprenderò questo tema in futuro anche se non so quanto lo approfondirò, forse comunque farò delle riflessioni almeno altre due volte. Non potevo certo parlarne nel capitolo 36 e poi lasciarlo là senza un seguito, non sarebbe stato corretto, né realistico.
Come avrete notato, Mac continua a preferire la parola rispetto al disegno o al gioco, perché le riesce meglio comunicare i suoi sentimenti scrivendo. Spetta al terapista decidere se fare una terapia che si concentra sul gioco, sul disegno o sulla comunicazione verbale, o anche su tutti e tre a seconda della situazione o del contesto, perché ogni bambino è differente. Come ha sempre fatto la mia psicologa (ci vado da quando avevo tre anni, anche se poi dai dodici ai diciassette avevo smesso), Catherine lascia libera Mackenzie di parlare di ciò che vuole, ma a volte le pone delle domande per aiutarla o capire meglio.
   
 
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