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Autore: Il Professor What    20/02/2018    2 recensioni
Il Dottore, come sappiamo, viaggia nel tempo e nello spazio, a bordo della sua macchina e con i suoi compagni. La serie e gli altri media ci hanno fatto vedere che, occasionalmente, il nostro Signore del Tempo preferito ha visitato anche il nostro paese. Ma se ci fossero state altre avventure, che la serie non ci ha mostrato?
Questa è la prima di tredici storie dove il Dottore interagisce con la storia del nostro paese. Nell'abbazia di San Gaudenzio, 1302, Dante Alighieri e i Guelfi Bianchi si sono riuniti per cercare di tornare a Firenze. Un misterioso Monaco promette loro una sicura vittoria, con l'aiuto di qualche arma strana. Dante si oppone strenuamente, ed è appoggiato dal Primo Dottore e dal suo compagno, Steven Taylor, che quel Monaco lo conoscono bene...
Genere: Avventura, Science-fiction, Storico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Doctor - 1
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Doctor Who: The Italian Adventures'
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Ben ritrovati, miei pochi ma fedeli lettori. Ecco il primo capitolo della prima avventura italiana del Dottore. Da oggi in poi, i capitoli verranno pubblicati a due settimane di distanza su base regolare (ma se ci riesco, non escludo di farlo anche prima), senza giorno fisso. Buona lettura!

""PER SEGUIR VIRTUTE E CONOSCENZA" 
Parte 1

“Messer Dante, sono pronti.”
“Arrivo subito, Lapo” rispose il poeta, sospirando di frustrazione. Era stato su quei versi tutta la mattina, e lo venivano a chiamare proprio quando aveva trovato le parole giuste: in un’altra occasione, li avrebbe volentieri mandati al diavolo. Buttò quindi giù in fretta gli ultimi due versi, ripromettendosi di rivederli finita la riunione, prima di dirigersi celermente verso il refettorio dell’abbazia.
“Ben arrivato” lo salutò Scarpetta Ordelaffi, quando lo vide entrare. Il signore di Forlì, nonché capo dei Guelfi Bianchi, sedeva al tavolo di sinistra del refettorio, in mezzo agli altri capi del suo schieramento, esiliati da Firenze un anno prima. Al tavolo opposto, sedevano i rappresentanti degli Ubaldini, signori del Mugello, guidati dal loro capo Manfredi.
“Bastiera?” chiese sottovoce Dante, notando la mancanza di uno dei più noti membri del loro partito.
“Ha mandato a dire che iniziassimo senza di lui” gli rispose Ordelaffi. “Pare che dovesse parlare urgentemente con uno dei monaci.”
“Spero che Nostro Signore gli faccia scoprire un’improvvisa vocazione religiosa” sbuffò il poeta, facendo sorridere il suo interlocutore. Bastiera dei Tosinghi, che di professione faceva il capitano di ventura, era un attaccabrighe e un rissoso, e fin dal primo giorno dell’esilio aveva sostenuto la necessità di rientrare a Firenze con la forza – posizione che a Dante non piaceva per nulla, ma che aveva i suoi seguaci nel loro schieramento.
“Messer Alighieri” disse Manfredi degli Ubaldini. “È un onore avere qui fra noi uno dei più grandi poeti e letterati d’Italia.”
“La ringrazio, messere, per questo elogio fin troppo generoso” rispose il poeta. “Spero allora che darà ascolto a me e ai miei compatrioti, in questo nostro momento di difficoltà.”
“Farò il possibile, anche se ammetto di avere dei dubbi su come potrei esservi d’aiuto.”
“Qui si sbaglia” intervenne Scarpetta. “La vostra famiglia ha ottimi rapporti con alcune delle casate di spicco fra i Neri. Lei ha la possibilità di parlare con loro e intercedere per il nostro ritorno.”
“Oh, voi presupponete troppo. È vero, ho dei contatti, ma non credo che…”
“Ovviamente” aggiunse subito Scarpetta “noi vi saremmo molto grati, e al nostro rientro saremo ben lieti di fare in modo che la signoria della vostra famiglia sul Mugello non venga minacciata dalle intemperanze della nostra repubblica.”
Colto di sorpresa dalla schiettezza di Ordelaffi, Manfredi cercò di nascondere l’imbarazzo dietro un sorriso di cortesia. “Non sono a conoscenza di particolari progetti della repubblica per…”
“Non ce ne sono” continuò Dante. “Tuttavia, lei sa quanto noi che la politica di Firenze è molto volubile, specie adesso che i Neri possono contare sull’aiuto del Papa. Tutto dipende da quanto si ritiene sicuro dei suoi confini.”
Manfredi non rispose subito a questa nuova insinuazione. Dante, Scarpetta e gli altri lo videro annuire lentamente, e poi, con un sorriso che non prometteva niente di buono, chinarsi indietro per appoggiarsi allo schienale della sua sedia.
“E perché” chiese alla fine, pesando ogni parola “dovrei fare un accordo con voi? Come messer Ordelaffi ha sottolineato, i nostri rapporti con alcune delle casate più in vista fra i Neri sono ottime. Se intercedessi per voi, le metterei a rischio.”
Dante e Scarpetta si scambiarono uno sguardo. La discussione ora era iniziata davvero.
 
***

Il sole del tramonto illuminava di un colore rossastro le colline, quando Dante uscì dalla sala per prendere una fin troppo necessaria boccata d’aria. Due ore di discussione, ed erano ancora al punto di partenza. Era in momenti come questi che rimpiangeva di essersi dato alla politica: avrebbe dovuto fare come Guido, e occuparsi soltanto di poesia e filosofia. Il pensiero lo rese malinconico, cosa che, purtroppo, di frequente gli avveniva spesso.
Estraniandosi da tutto, lasciò vagare lo sguardo sul dolce paesaggio della campagna toscana, dove già iniziavano a spuntare le lucciole. Un giorno di cavallo, soltanto uno, lo separava da tutto ciò che aveva di più caro al mondo. Se si concentrava, poteva persino scorgere, giù all’orizzonte, quantomeno una minuscola parte delle mura che aveva attraversato tante volte e che ora gli erano chiuse, forse per sempre. Il pensiero gli era intollerabile, e al dolore si unì la rabbia. Non avevano il diritto di farlo. Aveva dato tutta la sua vita per Firenze, per renderla libera, grande, forte, per mantenerle gli antichi costumi di onestà e onore che ne avevano fatto la grandezza, non potevano…
No, si disse, un attimo prima che l’ira traboccasse. Non si sarebbe lasciato trascinare dal fumo della rabbia a pensieri disonesti. Era capitato a tanti altri uomini onesti prima di lui, di sperimentare l’ingratitudine da chi avrebbe dovuto esser loro riconoscente. Pier delle Vigne e Romeo di Villanova erano stati trattati anche peggio dai signori che avevano servito con fin troppa fedeltà. Lui stesso aveva esiliato Guido senza che l’amico avesse commesso alcuna colpa, solo per assicurare la pace dopo gli ultimi scontri fra le due fazioni. Ricordava ancora con quanta dignità egli avesse accettato il suo destino, dicendogli che non lo riteneva personalmente responsabile. Bene, lui non sarebbe stato da meno: come sempre, Guido Cavalcanti gli avrebbe mostrato la via della vera nobiltà.
Il suono di un corno lo risvegliò dalle sue meditazioni. Qualcuno stava arrivando, e ci teneva a farlo sapere. Sperò solo si trattasse di buone notizie, avevano già troppo da fare per…
“Ovviamente no” commentò con amara ironia, quando riconobbe le insegne di Bastiera dei Tosinghi. “Sarà meglio che rientri” disse fra sé, preparandosi a quello che prevedeva sarebbe stata una svolta ben poco felice del loro dialogo.
 
***

“Alla buon’ora, Bastiera” commentò Scarpetta quando il condottiero fu entrato nella stanza. “Spero almeno ti sia guadagnato un posto in Paradiso, visto quanto hai tenuto in lungo questa tua confessione.”
“Ho fatto molto di più” sogghignò Bastiera. Nella tenue luce della stanza al tramonto, il gioco delle ombre sul suo viso lo faceva sembrare un teschio. “Ho assicurato a tutti noi un ritorno a Firenze, e a messer Ubaldini il possesso perpetuo del Mugello, se vorrà aiutarci.”
“Ma davvero?” chiese Dante, senza nascondere il sarcasmo. “E come avverrebbe questo miracolo?”
“Grazie a questo buon padre che vedete” disse subito Bastiera, indicando una figura più piccola e tozza dietro di lui. “Lui è la persona che dovete ringraziare.”
“Siete troppo buono, messer Bastiera” disse il Monaco, facendosi avanti. “Ho solo modestamente proposto che voi e i vostri amici facciate uso di ciò che la mia conoscenza può offrirvi.”
“Conoscenza?” continuò Dante, reso ancora più sospettoso. “Di cosa parlate, padre?”
“Messer Bastiera mi ha riferito tutto dei vostri guai, e di come i vostri tentativi per rientrare in patria siano stati vani fino a questo momento. Non avete forze sufficienti per tentare un assalto militare, e gli sforzi diplomatici vanno per le lunghe, perché il Papa non è intenzionato a permettere il ritorno a Firenze dei suoi più fieri oppositori, come lei, messer Dante. Tra l’altro, mi lasci dire che per me è un onore conoscerla: le poesie della Vita nova sono senza dubbio le migliori della vostra scuola.”
“Non tergiversi, padre” rispose Dante, in tono ancora più duro. Non gli piaceva il tono con cui il Monaco gli aveva fatto quel complimento, suonava più come un’adulazione ben calcolata che come vera ammirazione. “Ha detto che può rimediare ai nostri problemi. Come?”
“Con queste” disse Bastiera, interrompendo il Monaco prima che potesse parlare, e scaraventando sul tavolo davanti ai Guelfi Bianchi quello che sembrava un lungo tubo di metallo, sorretto a un’estremità da una specie di cavalletto scuro. “Sono armi micidiali, amici miei, che possono colpire un nemico a distanza, molto più facili da maneggiare di un arco o una balestra. Ne ho fatto la prova tutto il giorno andando a caccia, e il padre me ne ha illustrato il funzionamento.”
“Qualcosa di molto semplice, in verità” spiegò il Monaco, prendendo in mano l’arma. “Basta puntarlo davanti a voi” e lo fece, “e premere questa piccola leva qui” continuò, indicandola col dito. “E una piccola punta di metallo” aggiunse infine, mostrandone una che teneva nella mano “viene lanciata nell’aria dritta contro il vostro avversario: piccola, ma sufficiente a stenderlo.”
Alla destra di Dante, Scarpetta scoppiò in una fragorosa risata, presto imitato da tutti gli altri Guelfi Bianchi a quel tavolo. Il poeta fu l’unico che rimase in silenzio, non perché non capisse la risata degli altri (anche lui, in altre circostanze, avrebbe riso di una storia così assurda), ma perché, per tutto la durata del discorso del Monaco, non aveva mai tolto gli occhi di dosso a quest’enigmatico religioso. La voce non gli era mai tremata, gli occhi erano rimasti fissi, e ogni parola aveva risuonato con tale confidenza che adesso Dante non aveva più dubbi. Quell’uomo era o un truffatore molto abile, oppure diceva la verità. Non era neanche da chiedere quale opzione personalmente il poeta avrebbe preferito credere.
“Davvero molto divertente, Bastiera” commentò Scarpetta, alla fine. “Non credevo avessi questo senso dell’umorismo.”
“Visto? Gliel’avevo detto” disse quest’ultimo al monaco, che in tutto questo era rimasto calmo.
“Non si preoccupi, amico mio” fu la risposta del religioso. “Non è in previsione di questo che abbiamo deciso di fornirgliene una prova domattina? Così potranno essere testimoni di persona dell’efficacia di quanto dico.”
“Ah, sì?” rise Scarpetta. “E perché non stanotte?”
“Perché per usare queste mie armi c’è bisogno della luce del giorno. Non chiedereste a un arciere di lanciare una freccia nel buio per dimostrare la sua abilità, vero? Ecco, con queste funziona un po’ alla stessa maniera, come vi ho detto.”
“Io credo che faremmo bene a rimandare questo monaco da dove è venuto” intervenne Dante. “Non abbiamo bisogno del suo aiuto.”
“Oh, andiamo, messer Dante!” esclamò Scarpetta, mollandogli giovialmente una mano sulla spalla. “Che fine ha fatto la vostra curiosità? Lasciate che il monaco provi a deliziarci con i suoi trucchetti!”
***

Quando il Monaco colpì il terzo fantoccio, che i Bianchi avevano sistemato nel cortile dell’abbazia, ormai non c’era più nessuno che ridesse fra il pubblico. Soltanto Bastiera continuava a sorridere, mentre il religioso procedeva nella dimostrazione, a ogni nuovo colpo sentendo crescere l’ammirazione e la curiosità degli astanti. Le armi funzionavano. Potevano usarle per rientrare a Firenze.
“Allora, messer Scarpetta,” disse Bastiera quando il Monaco ebbe centrato anche l’ultimo bersaglio, “ha ancora dei dubbi sulla bontà del mio acquisto? E questo è solo l’inizio. Il padre mi ha promesso di rifornire un intero squadrone con armi del genere. Nel giro di un anno…”
“I servigi del padre non saranno necessari” disse Dante, facendosi avanti, scuro in volto. “Se ne può tornare dovunque abbia imparato a usare questa diavoleria.”
“Oh, non è diavoleria, messer Dante” iniziò a spiegare il monaco. “Soltanto…”
“Non mi interessa saperlo” tagliò corto il poeta. “Noi non torneremo a Firenze con questi mezzi.”
“E allora come proponi di farlo, poeta?” si inserì Bastiera, in tono altrettanto duro. “Intenerirai i Neri con una delle tue canzonette sentimentali?”
“Io non tornerò a Firenze immerso nel sangue dei miei concittadini!” disse Dante a voce tanto alta da rasentare l’urlo. “Non ho alcuna intenzione di passare alla storia come l’uomo che ha distrutto la propria città, condannato all’ignominia nel ricordo dei posteri! Avete dimenticato cos’è successo a Farinata degli Uberti?”
“Certo, è rientrato e ha governato da signore con i suoi!”
“Solo perché i suoi discendenti venissero scacciati da Firenze, e per sempre, poco dopo la sua morte, e perché la sua memoria venisse infangata per sempre! E adesso tu, Bastiera, con queste armi vorresti scatenare un massacro peggiore di Montaperti! Be’, io non ti seguirò in questa follia, e nessun uomo d’onore lo farà, se si ritiene davvero tale!”
Irato, Bastiera fece un passo avanti con la mano alzata, e solo un gesto del Monaco lo trattenne dal colpire il poeta. Attorno a loro, intanto, i Bianchi rumoreggiavano, discutendo fra loro sottovoce su quale posizione fosse la migliore, forse già dividendosi in una fazione interna. Non Scarpetta Ordelaffi, però, che si fece avanti e si mise accanto a Dante, seguito dalle sue guardie più fedeli: la sua posizione era chiara. Quanto a Manfredi degli Ubaldini, se ne stava in disparte, osservando con interesse la situazione, e non perdendo mai di vista quelle armi miracolose.
“Messeri” disse Scarpetta, richiamando l’attenzione su di sé. “Direi che non abbiamo bisogno di ulteriori dimostrazioni. Ritengo che, alla luce di quanto abbiamo visto, la nostra politica per rientrare a Firenze debba essere ridiscussa” (numerose voci di assenso si alzarono a questa notizia). “Pertanto, vado a chiedere ai frati il permesso di restare più a lungo qui nell’abbazia, così che ci sia possibile discuterne. Vi do appuntamento a oggi pomeriggio dopo la campana di sesta. Riflettete bene.”
Annuendo, i capi dei Bianchi si dispersero, diretti ognuno ai propri alloggi, lasciando al centro del cortile il Monaco e Bastiera. Dante fu tra i primi ad andarsene, seguito dal suo servitore Lapo, non prima di aver scambiato con Scarpetta uno sguardo d’intesa, che lo assicurò che i due si trovassero sulla stessa linea. Nella dispersione, nessuno notò l’uomo solitario che, da solo, uscì dal cortile del convento diretto verso la boscaglia. Di certo non lo notò il Monaco, il cui sguardo, per tutto il tempo, rimase fisso nella direzione del poeta, l’uomo che stava intralciando i suoi piani, e che in qualche modo doveva essere tolto di mezzo.

NOTE STORICHE

- Come si intuisce, la storia è ambientata dopo la condanna di Dante all'esilio, avvenuta nel 1300. Mentre il poeta era a Roma, ambasciatore presso Papa Bonifacio VIII, quest'ultimo mandò un suo legato, Carlo di Valois, ufficialmente a riportare la pace a Firenze; in realtà, quest'ultimo favorì l'ascesa al potere dei Neri, che esiliarono i loro avversari politici, fra cui lo stesso Dante. Ecco perché nel capitolo è suggerito che i Neri abbiano l'appoggio del Papa.
- L'incontro all'abbazia di San Gaudenzio, avvenuto l'8 giugno 1302, è veramente accaduto: in quell'occasione, i Guelfi Bianchi (all'epoca guidati da Scarpetta, signore di Forlì e primo a ospitare Dante dopo l'esilio), incontrarono i rappresentanti degli Ubaldini. Ho inventato il personaggio di Manfredi perché non sono riuscito a sapere chi c'era per davvero all'abbazia.
- Bastiera dei Tosinghi avrebbe poi guidato parte delle truppe dei Bianchi nella battaglia della Lastra, due anni dopo, ultimo tentativo (fallito) dei Bianchi di rientrare a Firenze con le armi. Dante si era già staccato dallo schieramento in questa data, e condannerà duramente l'impresa nella Commedia.
- Guido Cavalcanti (1258 ca - 1300) è stato amico e maestro di Dante, assieme a lui iniziatore della scuola stilnovista. Fu esiliato da Dante stesso nel 1300 a seguito degli scontri fra Bianchi e Neri, e morì nello stesso anno, dopo aver ricevuto il permesso di tornare nella sua città in extremis.
- Pier delle Vigne e Farinata degli Uberti sono noti personaggi del poema, protagonisti dei canti XIII e X dell'Inferno: il primo, ex consigliere di Federico II di Svevia e leader della scuola poetica siciliana, fu da questi imprigionato per tradimento, e si dice sia morto suicida (Dante lo trova fra i suicidi); il secondo, leader ghibellino di Firenze, esiliato, tornò in città vincendo i suoi avversari alla battaglia di Montaperti. Per questo, quando dopo la sua morte i guelfi ricacciarono i ghibellini, la sua memoria fu esecrata, e i suoi discendenti condannati all'esilio perpetuo.
- Romeo di Villanova è citato nel canto VI del Paradiso: segretario del conte di Provenza, per l'invidia dei nobili fu rimosso dal suo incarico e morì in povertà, nonostante i grandi benefici che aveva fatto per il suo signore. Dante lo cita fra i beati come, in un certo senso, 'risposta' a Pier delle Vigne e al suo gesto suicida.

Spero vi sia piaciuto, e alla prossima!

 
  
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