La prima volta che aveva visto Gabriele e Lidia, capo e sottoposta, padrone e cane, era stato praticamente certo che i due avessero avuto una relazione, o anche che avessero semplicemente scopato qualche volta, e si fossero poi lasciati malissimo, perché altrimenti non ci sarebbe stato modo di spiegare la perenne tensione che raggelava l'aria ogni qual volta ai due capitava di essere nella stessa stanza –evento non poi così raro poiché lavoravano insieme tutti i giorni-. Avevano iniziato a lavorare uniti quasi sette mesi prima, in una fredda mattinata di gennaio, e sorvolando sul fatto che i risultati erano stati ben differenti da quelli attesi, Amos Occhipinti aveva avuto la possibilità –e il privilegio, a parere dello stesso ragazzo- di studiare e analizzare due personalità estremamente disturbate quali quelle dei due suoi "collaboratori". Aveva passato i primi cinque mesi a studiare gli atteggiamenti ostili che dimostravano l'una verso l'altro elaborando le più svariate teorie sulla nascita di quell'odio reciproco che li accumunava e legava a doppio filo con nodi troppo stretti perché l'origine fosse un semplice scontro verbale o una banale insofferenza caratteriale: doveva esser accaduto qualcosa tra Gabriele Venturi e Lidia, qualcosa che aveva frantumato in milioni di frammenti qualunque legame passato, presente e futuro. Aveva creduto nell'ipotetica relazione sentimentale andata male fino a quando, due mesi prima, non si era ritrovato ad aggrapparsi con anche le unghie al tavolo macchiato di sangue rappreso su cui lavoravano con Gabriele inginocchiato tra le sue gambe intento a succhiargli il cazzo. Nelle settimane successive, poi, l'ipotesi era andata sbiadendosi fino a frantumarsi definitivamente in un milione di pezzi quando, senza nemmeno accorgersene, aveva spogliato l'altro ragazzo e questo si era fatto fottere fino a che i rivoli di sangue vermiglio che avevano iniziato a rigargli le cosce erano arrivati al pavimento, macchiandolo e lasciando una prova tangibile di quel pomeriggio... e di tutti quelli successivi. Era accaduto una sola volta che Lidia tornasse dalle sue "faccende" un poco prima del previsto –o forse erano loro ad essersi attardati più del solito, Amos non avrebbe saputo dirlo, in verità-, e quell'unica volta il ragazzo aveva adorato vedere le emozioni che scorrevano sul volto della sottoposta e che le combattevano negli occhi. Gabriele non aveva mai saputo nulla di quell'intrusione, troppo impegnato ad aggrapparsi alle spalle del compagno più giovane gemendo oscenamente, né dell'espressione attonita della ragazza –la prima emozione che Lidia avesse mai palesato o persino provato, per quanto ne sapeva Amos-, né del ghigno sadico che le aveva ridisegnato le belle labbra quando Gabriele si era fatto scappare un urlo di dolore mal soffocato contro la spalla del sottoposto. "Fagli male", sembrava volergli dire la piega di quelle labbra, "spezzalo a metà come si fa con un ramoscello secco", gli urlava la scintilla malata negli occhi. Se ne era andata chiudendosi la porta senza far rumore e quando Amos l'aveva rivista il suo viso era stato nuovamente un'impenetrabile maschera d'acciaio, come se nulla fosse mai accaduto, come se non avesse permesso ad Amos di intravedere la massa d'odio brutale che le si annidava nell'anima come fa un tumore.
Scoprire dunque che altri si
sarebbero immischiati nel loro gruppo, un terzetto precario, mal
assortito e creato con la forza, certo, ma un terzetto che aveva
trovato un pericoloso equilibrio sull'orlo del baratro e le cui
dinamiche, delle quali lui stesso faceva parte, lo affascinavano come
poche altre cose nella sua vita avevano fatto, lo aveva irritato non
poco, sia a causa di quel brusco turbamento della normalità, sia
a causa della intrinseca indole del ragazzo che lo portava ad essere
ostile verso chiunque e che, comunque, gli impediva di fidarsi di ogni
persona oltre che di se stesso.
Le chiazze di sangue sono state ripulite, le stanze riordinate e loro
trasferiti in uno spazio più grande del precedente: di quei
sette mesi passati è rimasto ben poco, e Amos sente il viscerale
bisogno di tornare a macchiare tutto il più in fretta possibile,
poiché la visione di quell'ambiente sterilizzato gli porta alla
mente cose che preferirebbe davvero dimenticare.
È tardo pomeriggio e quella mattina avrebbe potuto riposare
–dato che quando aveva chiesto a Gabriele se ci fosse bisogno di
presentarsi in "ufficio" questo lo aveva guardato annoiato
rispondendogli di andare a farsi una vita e lasciare che "il cane",
Lidia, facesse qualcosa di utile e sistemasse ciò che serviva
nel nuovo edificio che avevano loro assegnato come laboratorio-, ma ha
passato la notte praticamente insonne, un po' come sempre. Se
però normalmente ha un modo per giustificarsi con la sua
coscienza –lo stress per gli esperimenti, gli incubi, i lavoretti
a cui si dedicava ormai da anni per infilarsi in tasca qualche soldo in
più, che di certo non gli fa male o semplicemente il caldo-, la
sera precedente non aveva davvero avuto scuse. Nonostante ciò
aveva trascorso la nottata a fissare la macchia d'umido sopra il suo
letto e a cercare calcolare quanto tempo avrebbe impiegato l'intonaco a
staccarsi perdendo però il filo dei suoi stessi calcoli in
continuazione e finendo per non concludere nulla. Verso le due del
mattino alla fine aveva deciso di mettersi al computer, giusto per
impegnare la mente e alle cinque e mezza era uscito per andare sul
tetto del palazzo dove abitava e guardare l'alba da lì: solo
dopo aver visto il sole sorgere e i raggi infilarsi tra i tetti delle
case milanesi le palpebre gli erano scivolate sugli occhi, complice la
brezza non ancora afosa che gli aveva scompigliato i capelli da ormai
anni tinti di bianco dalle punte di un rosso spento che richiamava il
suo colore naturale, fino a che non era scivolato in un sonno agitato
durato poche ore. Al suo risveglio collo e schiena gli facevano male e,
tra l'altro, era ora di darsi una sistemata e capire con chi gli
sarebbe toccato lavorare nei mesi, o anni?, successivi.
I nuovi membri entrano alla spicciolata senza guardarsi né guardarlo in faccia. Amos li osserva seduto alla propria postazione con i rapporti dei sette mesi passati aperti sulle gambe. Gabriele, pur sapendo tutto, si era ovviamente ben guardato dal dirgli qualunque cosa riguardo i nuovi membri, probabilmente per il puro gusto d'infastidirlo facendogli notare come fosse lui ad avere potere e informazioni, e non si era lasciato sfuggire nulla se non che fossero tre. Di questi, nota Amos quando la porta si chiude una terza volta, solo una è una ragazza: sta con la schiena poggiata contro il muro, le braccia strette al petto, la lunga mantella carminio che le ricade morbidamente sui fianchi avvolgendo perfettamente la vita sottile. Le gambe sono lunghe e secche come grissini, indubbiamente sproporzionate al torso più tozzo e creano un effetto stridente con la minutezza complessiva della figura, così come le braccia, avvolte fino ai gomiti da guanti di pelle nera, secche come le gambe, appaiono strane incrociate davanti ai seni più che abbondanti. Quella ragazza gli appare a primo acchito così fatta di spigoli e contraddizioni che Amos potrebbe considerare l'idea di farsela andare a genio se non fosse per l'impeccabilità di tutto il resto: il mantello senza nemmeno una piega, ricoperto di pizzo nero ad ogni orlo, senza alcuno sfilacciamento, nessun bottone d'oro mancante, il cappuccio tirato sulla testa per impedire a chiunque di scorgere un centimetro di pelle più del necessario ma non troppo così da non farle perdere un millimetro della larghezza del campo visivo, la maschera nera che le copre tutto ciò che il cappuccio lascia nudo, e gli occhi, vigili e gelidi, l'uno di un grigiastro tenue, tendente al lilla, l'altro di un castano scuro totale, più tendente al nero che ad altro, sono le uniche due cose che sfuggono alla morsa oppressiva degli abiti. La schiena perfettamente dritta, il collo, seppur coperto, in palese tensione, le spalle rigide, il mento sollevato. L'aspetto apparentemente contraddittorio che aveva inizialmente attirato lo sguardo di Amos è dunque ora duramente soppresso da una rigidezza innaturale e auto-imposta, da un controllo totale di ogni aspetto su cui si può effettivamente avere il controllo. Quella che avrebbe potuto essere un nuovo soggetto interessante si è rivelata alla fine l'ennesima macchietta grigia di regole e bugie, proprio come Lidia e Gabriele e tutti gli altri esseri viventi prima di loro. Quell'attimo meraviglioso è sparito e con questo l'interesse di Amos per ogni cosa, anche per gli altri due ragazzi che, difatti, si limita a guardare distrattamente: uno porta una giacca di pelle un po' consumata e ha una specie di fazzoletto avvolto intorno al collo, l'altro indossa un lungo giubbotto scuro a cui manca un bottone, una sciarpa nera e tiene i capelli inchiostro legati in un codino. Se da un lato per notare l'arrivo nel capannone del primo gli ci erano voluti tre secondi, merito –o colpa- del passo sicuro o del movimento un po' ciondolante di chi, di nascondersi, non aveva mai avuto o sentito il bisogno per carenza di motivi o "occasioni" o –più probabilmente data anche la situazione- per la presenza d'altre capacità che sopperivano quella mancanza-, dall'altro il secondo pare un fantasma nero ed evanescente sotto spoglie umane. Amos ammette che, se non fosse stato per la porta, non si sarebbe mai accorto della presenza del giovane: troppo silenzioso, troppo ferino, troppo a suo agio con gli spettri del mondo. Se avesse distolto lo sguardo dalla sua figura avrebbe perso completamente la consapevolezza di dove l'altro si trovasse, poiché la completa assenza d'un suono, d'un passo o d'un respiro, d'uno spostamento d'aria rendeva impossibile localizzare il ragazzo nell'ambiente, come se si fosse fuso con la parete, o, più semplicemente, non fosse affatto lì, come se la porta si fosse aperta e chiusa per un alito di vento e il corpo che aveva intravisto non fosse stato altro che un'ombra o un miraggio.
Lidia
è rimasta nel suo angolino di stanza dall'inizio alla fine della
sfilata, e anche oltre: non ha mosso un muscolo né per osservare
i nuovi arrivati -almeno non apparentemente e non nella visuale di
Amos- né per reagire all'ingresso del capo di tutti i presenti.
Gabriele Venturi, al contrario di tutti gli altri, non aveva mai avuto
bisogno, in tutta la sua vita, di essere silenzioso, e in venticinque
anni non aveva mai imparato l'arte della discrezione: non gli era mai
interessato e non ne aveva mai avuto necessità, troppo impegnato
a godersi tutti i privilegi che la vita gli aveva regalato e a
crogiolarsi nella consapevolezza d'essere migliore di tutti quegli
altri pezzenti nati poveri e soli che vivevano nel mondo -e questo Amos
lo aveva capito dopo aver trascorso con lui sì e no due ore
scarse-. Probabilmente non sarebbe mai cambiato e mai avrebbe imparato
la lezione se le cose avessero continuato ad andare come andavano
allora, ma posso assicurarvi, cari lettori, che per quanto tutto
ciò non sia altro che un resoconto questa nostra storia possiede
tutte le caratteristiche d'un buon romanzo e, dunque, non c'è
bisogno che vi anticipi nulla per farvi trarre le vostre conclusioni,
almeno su questo.
Quel giorno indossa dei jeans attillati a vita alta e una camicia che
gli aderisce perfettamente al petto e ai fianchi, come se fosse stata
fatta su misura, come probabilmente è, a pensarci bene. La
figura di Gabriele è quasi eterea sotto certi punti di vista, o
forse è solo il netto contrasto tra l'oscurità
dell'ambiente circostante e i suoi capelli biondi a conferirgli quella
patina di pretenziosa perfezione.
«Alcuni
probabilmente la definirebbero sperimentazione umana, ma a voi non deve
interessare più di tanto.» chiusosi la porta alle spalle
procede ora dritto e si ferma proprio in mezzo alla stanza, dando le
spalle al giovane dalla giacca di pelle, di certo non preoccupato che
questi possa smettere di ascoltarlo «Praticamente la
totalità di voi non è altro che un branco di esecutori,
cani da riporto che agitano la coda per avere il loro osso a fine
giornata, continuate a comportarvi così e con me non avrete
problemi, fate quello che vi dico senza fiatare, velocemente e con
precisione, e avrete i vostri croccantini, sbagliate o disobbedite e il
bastone colpirà forte.» Fa una pausa, come se aspettasse
la replica di qualcuno, ma riprende a parlare prima che chiunque abbia
effettivamente il tempo di formulare un pensiero e pronunciarlo.
«Ottimo, vedo che siete tutti dotati di acume, sono certo che
andremo d'accordo.»
«Non ho intenzione di farmi bastonare come un cane, affrosciau*, quindi abbassa la cresta.»
C'è un momento in cui un silenzio attonito gela la stanza e
ognuno nella posizione in cui si trova. Amos stesso resta colto
impreparato da quell'uscita totalmente inattesa: lavorava ormai da anni
nella Mafia e non gli ci era comunque voluta più di una
settimana per capire l'andazzo generale delle cose. La sua opinione,
come quella di tutti gli altri subordinati, non era ed è
richiesta, loro non sono lì per fare domande o contestare,
poiché la Mafia li ha salvati da un'esistenza miserabile, paga
da vivere a lui e tutti quelli come lui, trovatelli mezzi pazzi
meritevoli d'essere salvati solo perché dotati di
un'Abilità, e loro in cambio vivono in funzione di questa stessa
con la testa china. Quelli come lui non avevano nessuna mira al potere,
troppo deboli e troppo meschinamente impegnati a sopravvivere, quelli
come lui obbediscono e basta, al limite cercano di racimolare
divertimento e soddisfazioni dove e come possono. Erano quelli come
Gabriele che, forse, un giorno, avrebbero sparato in testa al capo e si
sarebbero fatti re, e non partivi dal gradino più basso se avevi
questa possibilità: chi nasce avvantaggiato e vittorioso non ha
bisogno di fare il cane per vivere, nemmeno nei primi anni della sua
vita. Quindi perché alzare così inutilmente la voce? A
che scopo? Desiderio masochistico, forse?
Gabriele
ha probabilmente fatto lo stesso ragionamento perché osserva
infastidito il corvino dalla giacca di pelle, un po' come si
osserverebbe una mosca che ti ronza attorno da un tempo troppo lungo e
che ha logorato a sufficienza la tua pazienza.
«Come, scusa? Perdonami, ma non credo di aver capito.»
E anche Amos ne è convinto, perché non può aver
capito bene, non avrebbe senso, probabilmente il ragazzo ha solo detto
uno sproposito e ora si rimangerà tutto mordendosi la lingua a
sangue e dandosi contemporaneamente dell'idiota.
«Ho detto, brutto accavurau**»
s'avvicina a Gabriele fino a che tra di loro la distanza non è
che di qualche spanna e un sorriso di scherno gli si dipinge sulla
faccia lasciando in bella mostra un dente sbeccato. «che non so
per chi tu mi abbia preso, ma non sono un animaletto da compagnia che
mangia merda, quindi ridimensiona il tuo ego e il tuo modo di parlare,
perché altrimenti ti posso giurare che alla prossima uscita di
questo tipo ti ritroverai senza qualche appendice, come per esempio il
cazzo minuscolo che ti trovi tra le gambe.»
Amos Occhipinti è più che certo che Gabriele, il capo che
ha imparato, anche se con qualche difficoltà, ad apprezzare,
stia per avere un attacco isterico e teme davvero per la sorte del
nuovo arrivato poiché conosce il biondo e, soprattutto,
perché ha visto all'opera la sua Abilità. Gabriele
Venturi, però, fissando il corvino dal basso data la sua
modestissima altezza, sebbene le mani gli tremino, strette a pugni, e
gli occhi azzurrissimi trasudino rabbia, non accenna a fare nulla, e
Amos si domanda davvero il motivo dato che, se c'era una cosa che aveva
capito riguardo Gabriele, era quanto questo odiasse con ogni fibra di
sé le persone che gli mancavano di rispetto. Trattiene il fiato
aspettando che il ragazzo dai biondi capelli pieghi un dito e tolga
all'altro l'aria dai polmoni o gli sciolga il piercing sulla lingua e
tutti i bottoni causandogli una leggerissima ustione
o gli apra un buco sotto i piedi e lo rinchiuda sotto il pavimento,
tutte cose che, pur non conoscendo per bene la sua abilità
è più che certo che Gabriele sappia fare, ma non succede
nulla di tutto ciò: il giovane stringe i denti, irrigidisce le
spalle e fissa il corvino come se volesse aprilo a metà, ma poi
molla i pugni e fa un passo indietro.
Un sussulto attonito percorre tutta la stanza mentre il sorriso sul
volto di quello che, scopriremo a breve, è Lorenzo Locci
s'allarga ancor di più.
«Sono io ad avvisarti: parlami ancora così e la tua
patetica Abilità non ti servirà a nulla, ragazzino
viziato.» Un sorriso impertinente gli nasce nuovamente sulle
labbra, ma è un sorriso falso, e nella stanza lo sanno tutti,
nessuno escluso. «Alla prossima uscita di questo tipo Lidia ti
accompagnerà gentilmente alla porta, ma non sono sicuro che al
quartier generale farebbe piacere sapere del tuo atteggiamento,
soprattutto non a papino, che
ne pensi, Lorenzo?» Lidia si raddrizza, richiamata all'appello e
non più persa tra i fili della sua mente e avanza di un passo,
ritta come un fuso, con un bagliore rosso nello sguardo e le unghie
pericolosamente ridisegnate ad artiglio.
Lorenzo, però, si limita a ridere un poco. «Sei talmente
debole da aver bisogno di nasconderti dietro uno di quelli che tu
stesso hai definito cani, tra questi, poi, proprio ad una ragazza, per
di più, e dire che dovresti essere quello con il potere e il
cervello, qui dentro.»
«Semplicemente non voglio sprecarmi con i pezzenti che credono
d'essere invulnerabili perché hanno qualche amico ai piani
alti.» ma è una risposta debole e come lo sa Amos lo sa
Gabriele e lo sa Lorenzo.
E mentre il ragazzo dai capelli bianchi e rossicci continua a chiedersi
per quale motivo Gabriele non usi la propria Abilità, Lidia fa
un altro passo avanti mentre un inquietante spasmo le fa scattare la
testa verso sinistra e l'aria intorno a lei s'addensa. Lorenzo al
sentir nominare gli "amici ai piani alti" s'è irrigidito ed ora
stringe le nocche fino ad averle bianche mentre gli occhi azzurri gli
si rigano di nero e la situazione sembra peggiorare ogni secondo che
passa perché, sebbene l'Abilità di Gabriele non la
conosca bene Amos ha invece un'idea più che perfetta di quella
di Lidia e, soprattutto, del numero di cadaveri che è capace di
lasciarsi dietro e, anche se non sa nulla di quella di Lorenzo ha la
certezza che non possa reggere il confronto con la ragazza in alcun
modo. L'unica cosa che può fare, in quell'istante, è
contare i secondi che mancano all'impatto catastrofico contro la parete
di cemento armato che gli si è palesata davanti all'improvviso.
«Ora
basta!» La voce gli giunge un poco smorzata alle orecchie, ma la
sfumatura gelida e imperiosa non gli sfugge affatto. Si volta di scatto
insieme a tutti gli altri verso la giovane incappucciata che, con gli
occhi bicolori illuminati di un disprezzo che non le importa
dissimulare, pare una sdegnosa regina d'altri tempi pronta per tagliare
la testa a tutti quegli altri pezzenti che la circondano. «Mi
hanno mandato qui spacciando tutto per questo per una promozione, e
invece mi trovo a vedere due bambini che bisticciano tra di loro per il pezzo di pane più grosso. Siete ridicoli.
E tu» si volta di scatto verso Lidia «non ho la minima idea
di cosa tu stia facendo, ma hai esattamente cinque secondi per farla
finita prima che ti spari un colpo in testa dato che non ho nessuna voglia di
vedere tu e quell'altro sciocco giocare a chi ce l'ha più
grosso.» Si blocca e, mentre la stanza resta immersa nel silenzio
e Lidia se ne torna al suo posto, la ragazza s'abbassa la maschera con
l'indice guantato rivelando due labbra morbide ed un mento a punta.
Quando riprende a parlare la voce è perfettamente calma, e
questo fa rabbrividire Amos ancora più di quanto non avesse
fatto il tono gelido. «Ed ora, signori miei, tornerei
cortesemente all'argomento principale, se siete tutti d'accordo,
ovviamente.»
*frocio, in sardo
**rincoglionito, sempre in sardo
Nota dell'autrice (che è solo vagamente in ritardo)
Lo so che non ci speravate più
(iniziavo a perdere le speranze pure io), ma invece sono tornata.
Ebbene sì, non sono morta e il Quartiere (questo il nome
informale che ho deciso di dare a questa storiella) torna con me, super
carico e pronto ai prossimi capitoli che, finalmente -direte voi-,
inizieranno ad essere un po' più densi d'avvenimenti.
Spero che qualcuno si ricordi ancora a che
punto eravamo rimasti, perché qui abbiamo trovato una situazione
completamente diversa: nella Mafia (come forse un po' c'era da
aspettarsi) la tensione si taglia con un coltello e la situazione
è decisamente precaria (e siamo solo all'inizio!).
Ebbene, che dire, fatemi sapere i vostri
pareri su tutti i personaggi di questo capitolo, sia quelli che
già conoscevamo (Lidia, Gabriele e Beatrice, che è
comparsa all'ultimo ma ha salvato la situazione), sia sui nuovi
arrivati (Lorenzo e, ovviamente, il protagonista di questo capitolo,
Amos, personaggio che a me piace da morire per una serie di motivi che
non vi rivelerò, ops.) E c'è anche un misterioso figuro
che, dopo essere comparso, è rimasto in disparte e si è
praticamente volatilizzato, su di lui c'è qualche parere? (Forse
la sua identità è intuibile, ma se l'avete capita tacete
e fingete di non sapere, così mi fate felice)
Ringrazio chiunque leggerà, anche dopo questo luuuungo periodo e anche chi aspetterà i prossimi aggiornamenti c:
Segnalazioni di eventuali errori sono le benvenute!
||Fox