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Autore: Alicat_Barbix    24/02/2018    1 recensioni
Nel 2130 il mondo non è più contaminato dalle diversità. Diversità che hanno portato a lotte e guerre sanguinose nel corso dei tempi. La nuova società si impegna ad eliminare tutti gli Incompleti. Il diverso deve essere schiacciato. Ma come in ogni organizzazione, anche in questa c'è una falla.
Sherlock Holmes e John Watson si incontreranno quando meno se l'aspettano, ma saranno dalla stessa parte? Ma se così non fosse, cosa comporterebbe la nascita di qualcosa di forte, qualcosa di pericoloso?
Genere: Drammatico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: John Watson, Quasi tutti, Sherlock Holmes
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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CUORE SUL GRILLETTO
Capitolo 19

 
 
John scosse sconsolato il capo per l’ennesima volta, quella notte. Scotland Yard pullulava di vita. Troppa vita. Vita insulsa. Greg gli aveva fatto il centesimo nome per la centesima volta e lui per la centesima volta negò di averlo mai sentito pronunciare.
“Bene, allora… abbiamo finito.” sospirò Lestrade strizzandosi le palpebre chiuse con pollice e indice. “Grazie per la tua disponibilità nonostante… beh, tutto.”
John, che da quando aveva messo piede in quell’ufficio era stato desideroso di fuoriuscirne come da un tunnel buio e senz’aria, rimase incollato alla sedia. Fissò gli occhi dell’ispettore cerchiati da due profonde occhiaie, il quale si drizzò leggermente sulla poltrona, aspettandosi probabilmente la fatidica domanda.
“Come?”
Greg lasciò fuoriuscire un sospiro grave. “Sono stato contattato da Molly Hooper. Ha fatto da intermediario tra noi e Sherlock che ci passava ogni singolo pezzo del suo piano. Era sorvegliato ventiquattr’ore su ventiquattro, per questo non poteva comunicarci alcunché senza rischiare di venire scoperto. Anche noi eravamo sotto controllo: ogni suo contatto con noi veniva intercettato. Ma lui ha trovato il modo di raggirare questa sorveglianza, contattando l’ultima persona che chiunque si sarebbe mai aspettata di trovare: Molly. Grazie a lei e anche a Clara abbiamo macchinato diverse strategie per tirarvi fuori dall’ultima prova che Sherlock sapeva sarebbe stata decisiva. Ad ogni piano abbiamo affibbiato un nome, così è bastato un unico messaggio per far partire il tutto.”
Tacque. Parole effimere. Parole vuote. Parole senza senso, ormai. Non sapeva perché l’aveva voluto sapere, solo… l’aveva voluto sapere. Si alzò mezzo barcollando e strinse la mano dell’amico cercando di simulare un sorriso abbozzato che però non gli riuscì come sperava.
“Passerà dei guai?”
Greg, anche stavolta, capì. “Non troppi. Cercherò di mettere una buona parola in modo da rendere il giudice più comprensivo.”
John annuì seccamente, prima di voltarsi e uscire dall’ufficio di Greg.
 
***
 
Non appena lo vide uscire, Clara scattò in piedi. Quando i loro sguardi si incrociarono, fu costretta a mordersi un labbro per non lasciar fuoriuscire qualche lacrima. L’amico lasciò correre lo sguardo su tutto il suo corpo, mani e polsi compresi.
“John…”
Il medico non le permise di continuare, riducendola al silenzio con una stretta sfiatante. Lei cercò di ricambiare l’abbraccio, ma le mani erano ostacolate da quei maledetti pezzi di ferro che le ferivano la carne. Sentì l’amico battere ripetutamente la fronte contro la sua spalla, come a colpevolizzarsi, come a mortificarsi.
“Ti voglio bene.”
Lei sorrise e annuì, infine si staccò e lo guardò in viso. “Vai a Baker Street ora?”
“Pensavo di rimanere qui per aspettarti…”
“Non ce n’è bisogno. Non so neanche se e quando potrò uscire… torna a casa.”
“Quella non è più la mia casa.” rispose prontamente lui, stringendo rabbiosamente i pugni.
Clara prese un respiro tanto profondo quanto tremolante. “Io… io credo che ti farebbe bene andare lì, sai?”
“E perché? Non mi è rimasto più nulla.”
Lei accarezzò il suo volto quanto gli anelli di metallo le consentivano. “Sai che non è vero.”
John sbuffò e strinse gli occhi in un patetico tentativo di sopprimere quelle immagini che minacciavano di impossessarsi della sua mente al solo sentir menzionare quella strada del centro.
“Ci andrai?”
“Sì, sì, ci andrò.”
“Promesso?”
“Promesso.”
Greg si affacciò sulla porta, un’espressione avvilita in volto. “Clara… è proprio ora che entri. E tu, John, va’ a casa: hai bisogno di riposare.”
Clara si avvicinò all’ispettore obbedientemente, il capo colpevolmente chino, infine si voltò, sorridendo per l’ultima volta a John. “Stava giusto per tornarsene a casa sua. Loro.”
 
***
 
“John…”
“Ciao.”
Si guardarono in silenzio, la tensione che si accorpava tra loro in una sottospecie di belva dalle dimensioni mastodontiche dotata di fauci pronte a calare sulle loro teste. John si morse il labbro inferiore, spostando inconsapevolmente il peso sulla gamba debole ma sempre sorretta dal bastone.
“Vuoi… vuoi salire?” domandò Sherlock timidamente, pallido in volto e visibilmente stravolto dall’interrogatorio di Anderson – aveva insistito egli stesso affinché ad interrogare John fosse Greg e non qualche idiota, così a lui erano toccate quelle vipere di Anderson e Donovan che se non altro avevano fatto presto –.
“Io… giusto cinque minuti…”
Il consulente investigativo lo lasciò passare e lo guardò con occhi dolcemente angustiati salire le scale come si scala la vetta di un monte. Così debole e così piccolo, il suo medico… Suo? Lo era davvero? Lo era ancora? Che schifo di situazione… John vacillò appena, proiettato inesorabilmente verso l’indietro, ma lui scattò in avanti, le mani dolcemente strette ai suoi fianchi per stabilizzarlo. Non appena quelle dita da violinista entrarono in contatto con il suo corpo, il medico si scansò di getto, rischiando quasi di sbilanciarsi una seconda volta, di cadere in avanti.
“Scusa, io… non volevo.” bisbigliò Sherlock, ritraendo all’istante le mani e allacciandosele dietro la schiena, poiché non aveva la più pallida idea di che cosa farci di quelle mani tanto sapienti col violino, tanto impacciate con le strette, ma anche tanto inutili senza quelle di John nelle sue.
“No, figurati… anzi, grazie…”
Entrarono nel salotto avvolti da un silenzio imbarazzante, greve come un macigno. Era proprio come se lo ricordava John, il salotto: le due poltrone, l’una volta verso l’altra, lo smile giallo sulla tappezzeria, il teschio sul caminetto, la finestra rivolta ad un cielo freddo e senza stelle. L’istinto lo chiamò verso quella soffice poltrona rossa, ma qualcosa lo frenò, conducendolo, invece, sul divano: non voleva che Sherlock potesse… fraintendere la sua presenza lì.
“Vuoi qualcosa? Non so, un the o un caffe…”
“Alle quattro della mattina, Sherlock?”
“No, direi di no…”
“Direi anch’io.”
Sherlock sospirò appena, prima di lasciarsi sprofondare nella vecchia poltrona del coinquilino. John spalancò appena gli occhi e fu costretto a distogliere lo sguardo. “Dannato bastardo” pensò mentre stringeva il pugno della mano sinistra che non sembrava voler smettere di tremare. Era l’ennesima sfida che gli stava lasciando: lo stava mettendo alle strette, sedersi nella sua poltrona era decisamente un colpo basso.
“Non ti aspettavo.” esordì infine l’ex inquisitore, schiarendosi appena la gola.
“E io non mi aspettavo di venire. Anzi, se non fosse stato per Clara probabilmente non sarei venuto.”
Sherlock abbassò appena gli occhi al sentirla nominare. “Come sta?”
Un sorriso ironico affiorò sulle labbra dell’altro. “Una meraviglia! Aveva le lacrime agli occhi per quanto rideva!” Tacque per qualche istante, pentendosi della meschinità impressa nella sua voce. In fondo, Sherlock non aveva colpa… almeno non del tutto. “Sta male.” confessò infine. “Ma credo che sia comprensibile, visto che ha ucciso un uomo.”
“Mi ha salvato la vita… se non fosse stato per lei a quest’ora…”
“Di fronte alla legge non cambia. Clara non fa parte della polizia e l’omicidio di Victor avrà gravi conseguenze per lei. Ma in fondo, questo lo sai meglio di me.”
Il consulente investigativo si massaggiò le tempie, i riccioli voluminosi che ricadevano un po’ troppo lunghi sulla fronte candida e liscia. “Non verrà condannata a morte visto che ha salvato una vita, ma l’ergastolo non glielo leverà nessuno.”
La frase cadde senza alcuna risposta: John era troppo impegnato a contare i granelli di polvere sulle punte dei suoi mocassini per accorgersi dell’occhiata intensa che l’altro gli stava rivolgendo. Eppure, in un modo o nell’altro, se ne accorse ugualmente. Nonostante i pulviscoli sulle sue scarpe, nonostante gli occhi completamente incapaci di guardarlo, nonostante non sapesse se quello Sherlock Holmes fosse il vero, se ne accorse. Avrebbe potuto avvertire le sue iridi su di sé ovunque.
“John, so che sei arrabbiato e… spaesato, ma ti prego, lasciami…”
“Spiegare? Se è il tuo brillante piano che mi vuoi illustrare, puoi anche risparmiartelo: Greg mi ha detto tutto. Credo che tuttavia abbia saltato la questione Victor.”
“L’ho fatto per far credere a lui e ai suoi capi che il loro piano filasse liscio.”
“Bene, è quand’è che avevi intenzione di rendermi partecipe di questo brillante piano?”
Sherlock si alzò dalla poltrona e prese a camminare verso di lui, avvilimento e abbattimento che imperversavano sul suo viso smunto. Si fermò al centro della stanza, avvolto nella sua vestaglia preferita, con i capelli lunghi in disordine, con gli occhi chiari colmi di pentimento, con le mani impotentemente inerti. “Non potevo dirti nulla o avrei messo a repentaglio l’intero piano. Speravo di arrivare ai piani alti di questo complotto, di capirci finalmente qualcosa, ma… non ci sono riuscito.”
“Hai una vaga idea di come mi sia sentito?” sputò John con voce tremante e incrinata. “Io pensavo… che sarebbe finita un giorno, sì, ma con la nostra esecuzione su quel dannato Justice Podium! Non per… le cose stupide per cui la gente comune si lascia.”
“Lo so, lo so…” farfugliò sconnessamente l’altro lasciandosi cadere in ginocchio di fronte al medico che si era incurvato, il mento che toccava il petto e gli occhi che minacciavano lacrime chiusi. “Ma io… dovevo proteggerti. Credevo che in questo modo ti avrebbero lasciato stare, credevo che avrei potuto salvarti.”
“Io non voglio essere protetto, Sherlock!” sbottò John spalancando nuovamente gli occhi blu incrinati da venature rosse. “Io non voglio essere il tuo tesoro, Sherlock. Voglio essere quello che è al tuo fianco a custodirlo, quel forziere. Non ci sono io dentro il tuo baule, ma…” Si morse il labbro inferiore, cercando istintivamente le mani dell’altro che si aggrapparono alle sue con disperazione. “… il nostro amore. Ricordi quando ti dicesti che… che questo mondo non potrà mai avere il nostro difetto chimico? Beh, io dicevo sul serio. Ma ora…”
“Non è cambiato niente, John.” lo bloccò Sherlock circondandogli il viso con le dita lunghe. “Tu sei sempre tu, io sono sempre io e noi… noi siamo sempre noi. Senti!” Afferrò la mano sinistra di John e se la portò al petto, dove il suo cuore rimbombava impazzito, nella speranza di attirare la loro attenzione, nella speranza di chiamare il cuore dell’altro.
Il medico, però, ritrasse il palmo, scuotendo tristemente la testa. “Oh, Sherlock, tu non puoi capire. Non vuoi capire. Ci sono state troppe bugie fra noi, troppe difficoltà che io non so se posso continuare a fingere che vada tutto bene, che la nostra vita non sia un perfetto casino…”
“Insieme, John. Possiamo affrontare tutto questo se siamo insieme.”
“No, Sherlock!” tuonò infine John alzandosi di scatto e spingendo all’indietro il corpo di Sherlock che ricadde rovinosamente a terra. “Non saremo mai insieme! Non so neanche se lo siamo mai stati! Quante cazzate mi hai raccontato, eh? Credevo di aver superato la storia dell’Inquisizione, ma… ma dopo questa ragnatela di menzogne che ci sta intrappolando… ho capito che non so più fidarmi di te.”
“John, ti prego…”
“Sherlock, io sto male.” I loro occhi si incontrarono nuovamente. John piangeva, quasi, ma il suo rigore di soldato non glielo avrebbe mai permesso. Non di fronte a Sherlock Holmes. Sherlock, invece, sembrava un bambino terrorizzato e completamente abbandonato a se stesso. “Sto male perché ti guardo, Sherlock… e non so chi sei.”
Il cuore di Sherlock venne percorso da una fitta trama di crepe invisibili. Un nero più nero del nero lo avvolse interamente.
Guardò John, lo guardò bene. Come se fosse stata l’ultima volta.
Per primo, la notte seguente alla quarta prova del dinamitardo, aveva scansato quel piccolo medico, quel soggetto insignificante raffigurato nella tela di un qualche pittore scadente abbracciato dalla cornice dalla piccola finestrella di una fattoria del Sussex. La loro storia era stata intrecciata dalle mani esperte e spietate di una qualche tessitrice che si era dilettata col porre di fronte a loro prima piccoli sassolini, poco più che pietruzze, fino ad arrivare a sterminate catene montuose che abbracciavano col loro assolutismo qualunque altra cosa di fronte a loro.
Guardò John, lo guardò bene. Come fosse stata la prima volta.
Il loro destino era davvero quello di sgretolarsi contro la roccia aspra dei monti? John era sconsolatamente rivolto verso la porta. Quel 221B era stato così spesso teatro di amore, di dolore, di incomprensioni… c’era così tanto in quelle quattro mura che sembrava come se ogni singolo momento racchiuso nei loro ricordi rimbalzasse da una parete all’altra, da poltrona a poltrona, dal frigo alla televisione.
“Non voglio perderti.” provò come ultima carta il consulente investigativo, rialzandosi mentre si sfregava prepotentemente gli occhi sperduti. “Se è davvero tutto finito, io lo accetto. Ma ti prego, non sparire dalla mia vita.”
John gli rivolse un sorriso traboccante di tenerezza e malinconia, poi volse lo sguardo verso l’uscito del salotto, parole di piombo che pesavano sulla trachea.
“Ti scongiuro.” lo implorò Sherlock che mai aveva implorato in vita sua. Perché quell’uomo doveva avere la capacità di renderlo così pateticamente debole? Due anni prima si sarebbe steso sul divano, appallottolato nella sua vestaglia e avrebbe chiuso fuori il resto del mondo col suo cinismo, ma ora… ora aveva conosciuto tanto per essere disposto a perdere troppo. “Permettimi di continuare a vederti, di tanto in tanto.”
“Non credo ti farebbe bene. E lo stesso vale per me.”
L’ex inquisitore arricciò convulsamente le labbra in un tic nervoso mirato a contenere la piena di sofferenza che di lì a poco avrebbe abbattuto ogni argine. “Come vuoi, allora. Se… se dovessi avere bisogno di qualcosa, di qualunque cosa, io… beh, io ci sarò sempre.”
“Grazie, Sherlock.”
“Mi dispiace.”
“Già, anche a me.”
 
***
 
Nella sua mente era tutto confuso. Luci blu e rosse, parlottii di sottofondo, Greg che si raccomandava di restare fuori da quell’edificio e di lasciare che si occupassero di tutto loro. Poi l’istinto irresistibile di trasgredire agli ordini, il sesto senso che qualcosa sarebbe potuto andare storto. Poi buio, e la luce chiara della piscina. Spari, confusione, la pistola che le bruciava tra le mani, lo sciabordio dell’acqua. Poi la figura di Sherlock che si parava di fronte a quella di John, la sagoma di un uomo ritta di spalle di fronte a lei. L’indice che correva alla rimozione della sicura, la canna della pistola così diabolicamente bella e latrice di salvezza, i suoi amici così disperati e in pericolo. Poi il grilletto che veniva premuto, anch’esso effimero, freddo, distante, indifferente al suo ruolo. Il tonfo di un corpo che cade a terra, la pistola che le cadde dalle mani tremanti e imbrattate di un sangue invisibile che però c’era, Sherlock che le correva incontro, John che si appoggiava alla parete, la voce di Lestrade che imprecava, quella di qualcun altro che le ordinava di alzare le mani, e poi confusione e confusione, buio, luci abbaglianti, voci sussurrate, frastuoni, ossimori, occhi indaco e occhi indefinibili, mani amiche e mani che la spingevano in una qualche macchina diretta verso qualche prigione in cui sbatterla. Scotland Yard, l’attesa, Sherlock che entrava Sherlock che usciva, John che entrava, John che usciva, lei che provava per l’ultima volta a farli emergere dal loro oceano insondabile a causa di quanti problemi vi galleggiavano. E poi, ancora Lestrade e Anderson e Donovan, appollaiati di fronte a lei, Greg con occhi comprensivi, Philip e Sally con sguardi accusatori. La sua confessione, se così poteva definirsi, il sospiro di Greg, qualche borbottio su un certo processo, un certo giudice, una certa accusa, un certo sconto della pena. E poi freddo. E buio. E umidità.
Clara era rannicchiata su se stessa e tremava. Per la paura. Per il gelo. Per le lacrime che le deturpavano le gote. Era diventata un’assassina. Gli occhi vitrei di quell’uomo le offuscavano ancora la vista, costringendola a tenere le palpebre serrate per cercare di sopprimere quella visione. La testa, debolmente sorretta dalle mani, a tratti veniva scossa da una parte all’altra, quasi a voler scacciare ogni ricordo, ogni azione, ogni conseguenza. Pluriomicida. E la sua prima vittima… la sua prima vittima era stata proprio Harriet che aveva dato la sua vita per salvare la sua. Non era forse anche quello un omicidio? L’odore del sangue rappreso la prendeva alla gola, le mani le sembravano presentare tracce di una qualche incrostatura derivata da quel maledetto liquido vermiglio che pareva sommergere la cella intera.
La porta cigolò malamente e l’avrebbe anche assordata se la detonazione del suo sparo non le avesse spaccato già il timpano destro. Non osò alzare la testa. Non sapeva chi fosse – se un poliziotto, se l’addetto alla consegna dei pasti, se Greg, se il suo avvocato –, ma non le importava.
“Hai una visita.” sentenziò la voce dell’agente che l’aveva scortata dalla stazione di polizia alle prigioni dell’Inquisizione dove ormai venivano rinchiusi tutti i criminali o i nemici dello Stato.
Il tremore che le percorreva le membra infreddolite si attenuò. Sherlock? John? Harry? Ah, no, Harry era morta. L’aveva uccisa lei. Avrebbe ucciso anche Sherlock e John, molto probabilmente. E’ quello che fanno gli assassini. Sì, sì, sì, è proprio una cosa da killers ammazzare. Si sentiva strana… meno padrona di se stessa, come sospesa in una dimensione completamente diversa. No, no, no, di dimensione diversa esisteva solo l’aldilà, lei non poteva andare nell’aldilà, eh no, lei era un’omicida, già, già… Brava, Clara, brava! Aveva la febbre. Molto probabilmente aveva la febbre. Ma com’era avere la febbre? Faceva male? Sicuramente meno male che avere una pallottola piantata nel cervello come quel poveretto… No, no, no! No, Clara: non era poveretto, no, no. Lui era dalla parte dei cattivi… ma lei da che parte era? Dalla parte dei buoni! Ma allora perché si trovava in prigione? Che strana la vita… lei che era buona veniva sbattuta al fresco, che ridere! Anzi, no, non faceva ridere per niente. Aveva solo voglia di piangere.
E pianse, Clara, mentre il suo misterioso visitatore si richiudeva la porta della cella alle spalla. Che cosa le stava succedendo? Cosa… cosa le prendeva tutto all’improvviso?
“Ma guardati… povera disgraziata.” esordì la voce del nuovo arrivato. Una voce che non conosceva. Una mano le accarezzò la nuca, portandola a rannicchiarsi ancora di più su se stessa. “Sssh… non voglio farti del male. Ho bisogno del tuo aiuto.”
“Che cosa vuoi da me?” farfugliò lei restando con il capo premuto contro le sue cosce.
“Si tratta di Sherlock Holmes e John Watson. Sono amici tuoi, vero?”
“Sì… loro sono… miei amici. E’ per loro che sono qui… E’ per loro che sto male. Voglio uscire…” Clara si alzò improvvisamente, gli occhi sgranati, i pugni rivolti alla parete squallida della buia prigione. “Voglio uscire! Fatemi uscire!” urlò scaraventando pugni dolorosi contro il muro. Un paio di mani forti le ghermirono i polsi, allontanandola dalla sua pratica di autolesionismo sfrenato. “Lasciami! Lasciami! Fuori! Voglio andare fuori! Oppure ammazzami!”
“Calmai! Calmati adesso! Ti farò stare meglio se mi aiuterai…”
Il corpo della donna si afflosciò di colpo, precipitando inesorabilmente verso terra. Un briciolo di lucidità la rianimò. “No… loro sono miei amici. Non posso dirti niente…”
“Oh, ma anche io sono loro amico. Voglio solo aiutarli, ma per farlo ho bisogno di te. Aiutami e ti prometto che ti farò stare meglio.”
“Non posso… sono miei amici.”
“E’ per il loro bene, Clara.”
“Mi prometti che… non farai nulla per far loro del male?”
“Lo prometto.”
“E prometti di farmi stare meglio? E’ tutto così confuso e… strano…” Una voce prese a sussurrarle qualcosa. “Cosa?”
“Cosa?” le fece eco lo sconosciuto.
“Hai detto qualcosa?”
“Io no…”
Clara tornò in ascolto di quella voce… anzi, no, di quelle voci, prima bisbigli… poi grida strazianti, grida di dolore. “Assassina!” urlavano. “Mi hai ucciso!” singhiozzavano. “Meriti di marcire in quella cella!”
“Basta!” gridò lei, le mani saldamente premute contro le orecchie. “Basta! Basta! Basta!”
Lo sconosciuto si chinò su di lei, avvolgendo tentennante il corpo della donna che si dimenava come indemoniata. “Calma. Calma. Va tutto bene… Guardie!”
Dopo pochi secondi giunsero due poliziotti, i volti allarmati e gli occhi sbarrati alla visione di Clara che si dibatteva nelle braccia salde del visitatore. “Che sta succedendo…”
“Clorpromazina!”
“Cosa?”
“Subito! Chiamate un’ambulanza e raccomandatevi che portino della clorpromazina!”
Uno dei due estrasse con prontezza il telefono e digitò frettolosamente il 911. Con parole concise ma trafelate seguì le istruzioni dello sconosciuto il quale stava ancora cercando di calmare la detenuta, completamente delirante.
“Signore, perché fa così?” chiese il secondo agente rivolto al visitatore.
Questo sospirò e ammorbidì lo sguardo infinitamente gelido. “Non sono un dottore, idiota.”
“Sì, signore, ma ci ha fornito istruzioni ben precise su cosa far portare all’ambulanza, quindi deve avere un’idea più o meno chiara della situazione.”
L’uomo strinse ancora di più la stretta attorno a Clara che aveva preso a graffiarlo e a strepitare frasi sconnesse nelle quali comparivano regolarmente i nomi Harriet, John, Sherlock, in una continua tiritera ricolma di follia e delirio. “Assomiglia molto a mia madre… credo che… che si tratti di schizofrenia.”
 
***
 
Erano le due abbondanti del pomeriggio quando Sherlock venne svegliato dal trillo del campanello e dalla conseguente vocetta petulante della signora Hudson. I suoi sensi erano incredibilmente più acuiti quando la casa era vuota così come il suo cuore. Per un attimo si chiese se stesse ancora battendo, là dentro. Domanda stupida. Ovvio che batteva. Ma che razza di idiota era diventato?
La voce che rispose con un fredda cordialità alla padrona di casa gli diede i brividi. No. Lui no. Si rannicchiò ancora di più sulla poltrona rossa, diventata ormai il suo rifugio, il suo piccolo sacrario in cui potersi concedere un briciolo di umanità. Tre tocchi a terra. Tre. In poco tempo, la porta del salotto venne aperta, ma lui non ci badò. Non aveva voglia di discutere, quel giorno. La sensazione bruciante del rifiuto di John gli infiammava ancora il corpo intero.
“Ti trovo bene.”
Sherlock si concesse di alzare appena lo sguardo fiacco sulla figura del visitatore. “Anche io. Hai preso sette kili dall’ultima volta che ti ho visto.”
“In realtà quattro.”
“No, sette.”
Mycroft fece roteare gli occhi e lanciò un’occhiata alla poltrona di pelle dove il fratello soleva sedersi, lo sguardo dubbioso. “Dov’è John?”
“John?”
“Non fare il finto tonto con me.”
“Ah, quel John. Non lo so e non mi interessa. Non sono la sua balia.”
Bravo, Sherlock. Davvero bravo. Perlomeno, sapeva ancora fingere.
“Certo…” fece il maggiore non completamente convinto mentre si accomodava sulla poltrona nera.
“A cosa devo questa spiacevole visita?”
Mycroft si mangiucchiò appena la gengiva – mal di denti, dedusse Sherlock –, poi allungò una busta di carta gialla chiusa al minore che la prese con un sopracciglio alzato. Era dal funerale di suo padre che non vedeva suo fratello e di certo non gli era mancato, ma quella visita inaspettata lo turbava più di quello che mostrava. Se il Governo in persona si era recato nel suo appartamentino di Baker Street, senza alcun inquisitore al seguito, con una macchietta di caffè sulla manica destra, allora doveva di certo trattarsi di qualcosa di segretissimo e… di pericoloso. Quando aprì la busta, però, i suoi occhi si fecero grandi di confusione. Estrasse i fogli plastificati con cura e devozione, studiandoli non con perizia quanto con stupore.
“Che significa?”
“Quello che vedi.”
Sherlock si rigirò i documenti in mano, soffermandosi sul secondo su cui troneggiava una fotografia di John. Sotto, nome e cognome falsi: Martin Freeman. Secondo il suo, invece, si chiamava Benedict Cumberbatch, trentadue anni, impiegato nei laboratori dell’Inquisizione.
“Perché mi stai dando dei documenti falsi?”
Mycroft sospirò e sprofondò nella poltrona di pelle, abbandonando la sua posizione regale e distinta. “Ho scoperto di essere migliore di quello che la gente crede. Di quello che tu credi.”
“Mi fa piacere, ma non mi hai ancora risposto.”
“Sei sempre così pieno di risentimento.” sospirò l’inquisitore giocherellando con il manico del suo ombrello. “Mi sto solo preoccupando per te.” Un ghigno da parte dell’altro lo spinse a continuare, fomentandosi appena. “Per l’amor del cielo. Devi andartene da questo Paese, ora, e devi portare con te anche lui.”
“John? E perché mai?”
“Non sono stupido, Sherlock. So di voi due.”
Quelle parole raggelarono il consulente investigativo. Mycroft sapeva? Da quando? Come? Chi altro sapeva? Prima il dinamitardo, poi Victor, adesso suo fratello… in che diavolo di imbroglio erano intrappolati, lui e John?
“Lo so da un po’.” lo anticipò il maggiore. “Ed è per questo che dovete andarvene. Adesso.”
“Perché ora?” chiese allora Sherlock. “Perché ora e non… due mesi fa?”
Mycroft si sporse verso di lui, assottigliando gli occhi gelidi come quelli del minore. “Perché adesso ci sono… loro.”
“Loro? Loro chi?”
“Non posso dirti altro, Sherlock. Io ho le mani legate, non posso fare niente per proteggerti. Ti ho tenuto al sicuro fino a che ho potuto, ma alla morte di nostro padre è cambiato tutto.”
“Perché vuoi proteggermi? Hai fatto ammazzare nostra sorella di fronte a tutti. Perché io no.”
Le labbra dell’inquisitore si aprirono in un sorriso triste. “Io… io ci tengo a te, Sherlock, ma credo che tu debba sapere che… che Eurus non era davvero nostra sorella. E’ il frutto del tradimento di nostro padre con un’altra donna. Eurus era intelligente, astuta, carismatica… avrebbe potuto aizzare il popolo contro il Governo, so che ci sarebbe riuscita. Ma allora ero ancora sicuro della nostra persecuzione, delle nostre leggi. Ora invece… non so più che cosa pensare.”
Sherlock sgranò gli occhi. Eurus… era una figlia illegittima? Era per questo che, la notte, spesso udiva provenire degli strazianti singhiozzi dalla camera dei suoi genitori quando suo padre non rincasava? Era per questo che erano cominciati gli attacchi schizofrenici di sua madre? Perché suo padre l’aveva tradita? E da quel tradimento era nata sua sorella? Era solo una menzogna? O era la verità?
“E tu ti aspetti davvero che ti creda? Chi mi dice che non mi stai tendendo una trappola e che la storia su Eurus non sia soltanto una scusa?”
Mycroft si alzò in piedi, l’incedere sicuro, e avanzò verso la finestra. I suoi occhi si persero ad osservare quelle stupide marionette dello Stato mentre cominciavano ad animarsi, riscosse da un lento scroscio di pioggia. “Io non voglio la tua morte. Io voglio che tu sia felice. Loro hanno un piano ben collaudato… e se non vi sbrigate rimarrete bloccati qui per sempre.”
“Qual è loro piano?”
“Non posso dirtelo. Vorrei… vorrei tanto, ma non posso. Solo… ti prego, ti scongiuro, vattene. Salvati. Vivi.”
Le parole di suo fratello trasudavano una tale sincerità che Sherlock se ne trovò spiazzato. Possibile che suo fratello avesse deciso di deporre veramente l’ascia di guerra?
Loro… una setta? Un’organizzazione? Cosa? Ma se erano loro a tessere i fili di quella congiura contro di lui, dovevano davvero andarsene. Però John…
“Io… ci penserò.”
“Tre giorni. Massimo tre giorni: non riuscirò a tenerli occupati per più di allora. Avete tutto il necessario: documenti, permessi di espatrio, autorizzazioni, tutto. Devo però avvertirvi che vi sarà impossibile viaggiare assieme. Non appena scopriranno che avete lasciato il Paese, si metteranno sulle vostre tracce e nonostante i nomi falsi non sarà difficile trovarvi. Se invece vi dividerete, prendendo due percorsi diversi, allora sarà più difficile rintracciarvi.” Mentre parlava, aveva preso gentilmente dalle mani del minore una delle due cartine geografiche contenute nella busta e con l’elegante penna nera che teneva nella tasca della giacca, aveva tracciato due percorsi. Uno che da Londra arrivava a Cuba attraverso l’America e un altro che da Londra arrivava a Cuba attraverso l’Africa. “C’è una piccola locanda, in Messico, che è protettorato cubano. Potrete riunirvi lì. E’ tutto calcolato.”
Sherlock restò qualche secondo a ponderare la situazione: era perfetto. Documenti nuovi, identità nuove, permessi di espatrio autentici e non falsi… era tutto così perfetto! Perché era dovuto succedere quello che era successo proprio ora!? Ripensò alla mattina prima della prova sul tetto del Barts. Ripensò a John che timidamente gli chiedeva se avesse ancora intenzione di partire. Diavolo, John. Eccome se ce l’aveva. Ma ora, lui era lontano e Sherlock… Sherlock era solo.
Il flash che seguì fu anticipato da un breve campanellino nella sua testa. “Come hai fatto a stabilire questi percorsi?” John gliene aveva parlato. Anche la sua comunità, diretta verso Cuba, aveva preso le due vie consigliate da Mycroft. Come faceva, suo fratello, a conoscere quei due tragitti?
“Mi sono fatto aiutare dalla signorina Clara.” confessò l’inquisitore, rabbuiandosi improvvisamente. “L’ho incontrata stamane, in carcere.”
Il viso di Sherlock si accese di luce propria. “Come sta?” Ma qualcosa nell’espressione del fratello fu più eloquente di ogni parola. “Mycroft? Che cos’ha? Devi dirmelo.”
“Lei… credo si tratti di schizofrenia.”
“Schizofrenia?” fece eco il consulente investigativo.
“Ha avuto un attacco stanotte. Io credo… credo che abbia a che fare con tutto quello che è successo. L’ho fatta traferire nel nuovo manicomio. Ho ragione di credere che i farmaci sperimentali possano rivelarsi utili e, chissà, magari anche definitivi.”
Sherlock si passò una mano sul volto, la fronte corrugata nello sforzo di capire perché. Perché le era toccata anche quella? Perché proprio a lei? Perché ad una persona buona e dolce come Clara? Perché a lei, che aveva già perso tanto, se non tutto?
 “A questo proposito…” continuò Mycroft dopo una manciata di secondi, mentre la sua mano tirava fuori dalla tasca una pezzo di carta alquanto stropicciato e imbrattato di inchiostro. “Questa è da parte sua. Per te e per il dottor Watson.”
Il minore prese il foglio e se lo portò al viso, intercettando una debole scia del suo profumo. “Devo vederla.”
“Non essere sciocco, Sher…”
“Ho detto che devo vederla!” scoppiò, scattando in piedi e facendo per infilarsi il cappotto scuro sopra il pigiama e la vestaglia, ma Mycroft lo raggiunse con un balzo felino, ghermendogli il polso e costringendolo a guardarlo negli occhi.
“Lei non vorrebbe che la vedessi in quello stato!” A quelle parole, Sherlock si immobilizzò. Il maggiore prese un lungo respiro e addolcì la voce e lo sguardo. “Se tu ti trovassi nelle sue stesse condizioni… credi davvero che vorresti che lei ti vedesse in quel modo? Mi ha pregato di tenervi lontani da lei, anche a costo di piantonare due inquisitori all’entrata della struttura. Tipino deciso, quella donna…”
Sherlock sorrise. Già… Era proprio vero. Era così che se la doveva ricordare: come la donna che l’aveva risollevato, come una sorta di sorella maggiore, come colei che aveva combattuto per lui e per John e che per loro era andata in carcere. Sì, era questo che Clara avrebbe desiderato.
“La terrai al sicuro, non è vero?”
“Lo giuro.” Il minore annuì appena, imitato dal maggiore, segno che la conversazione poteva ritenersi conclusa. “Beh, penso che questa sia l’ultima volta che ci vediamo.”
“Già, penso anch’io.”
Mycroft allungò con una specie di pudore la mano, fino ad arrivare alla spalla del fratello che sussultò sotto quel contatto così inusuale per loro. “Abbi cura di te, fratello mio.”
“Anche tu, Mycroft.”
E quelle poche parole, unite a quel contatto così innocente ma ricco di significati, furono il loro reciproco addio.
 
***
 
La pioggia scrosciava come se dovesse sommergere l’intera città. Si era infilato nel primo taxi disponibile, rischiando quasi di venire investito, ed era sprofondato fradicio e col fiatone nel sedile posteriore, accompagnato da una serie di occhiatacce da parte dell’autista. Aveva quasi urlato quando quello gli aveva chiesto: “Destinazione?” Il cuore era in procinto di esplodere, lo sapeva. Si era preparato un bel discorso – discorso che poi avrebbe deliberatamente ignorato – e si era agghindato per l’occasione. Si sentiva un perfetto idiota. Non aveva la più pallida idea di che cosa fare una volta arrivato, di che cosa dire – perché il discorso tanto se lo sarebbe proprio scordato –, di che cosa provare. Due giorni. Due giorni e aveva ceduto. Non sapeva se vergognarsene o se invece rallegrarsene. Quando il taxi si fermò in mezzo alla via desiderata, balzò giù, pagando frettolosamente e col cuore in gola. Là, sotto all’ira di Dio, si arrestò e alzò lo sguardo. Dalla finestra al piano di sopra proveniva una luce calda e soffusa, quasi rosata. E, dietro quei vetri, avvolto da quella luce, c’era lui. Lui che non impiegò molto per accorgersi di quel povero cretino che se ne stava immobile, preda di un acquazzone. La figura alla finestra sparì e anche quella in strada si rianimò, correndo verso la porta. Ci vollero cinque secondi al massimo perché questa si spalancasse, rivelando un viso stupito e speranzoso al tempo stesso.
Lui si bloccò di nuovo, la pioggia che gli perforava il cranio, l’acqua che gli percorreva ogni centimetro di pelle. Si bloccò e attese. Che cosa, poi, non lo sapeva nemmeno lui – se il coraggio di entrare, la forza di parlare, il buon senso di andarsene –. Attese, fino a quando con un ampio passo non fu dentro, il suo bacino avvolto da un braccio forte che lo tirava all’interno dell’edificio.
John lasciò che Sherlock lo premesse con trepidazione contro il muro dell’ingresso del 221B. Lasciò che le loro labbra trovassero la via l’una verso l’altra, che il loro abbraccio si facesse ancora più stretto e soffocante, rendendo ancora più difficile respirare. Sorrise mentre rispondeva ai baci stupidamente felici di Sherlock che aveva cominciato a ridacchiare e a mormorare qualche debole che conteneva il mondo intero. Aveva voglia di fare l’amore con quel bastardo. Col suo bastardo. Si sottrasse alla bocca dell’altro solo per guardarlo un attimo in faccia e invitarlo mutamente, con un cenno del capo, verso le scale. Sul viso di Sherlock esplose un sorriso raggiante che da solo avrebbe potuto perforava la cappa plumbea che regnava quella notte su Londra e riprese a baciarlo con foga.
Un rumore fece sobbalzare entrambi. “Sherlock Holmes! Che cos’è questo scherzo? Aprimi!”
John osservò allucinato la porta che dava sulla cucina della signora Hudson mentre veniva tempestata di pugni irritati, accompagnati dalle solite minacce innocenti tipiche della loro padrona di casa. “Hai chiuso la signora Hudson in casa sua?” sussurrò spostando l’attenzione sul volto infurbito dell’altro.
“Certo che l’ho chiusa in casa sua. Non volevo che piombasse in casa com’è solita fare.”
“Non credi che dovremmo… liberarla?” Sherlock gli depositò un bacio fugace sulla mascella, un altro sul collo, un altro ancora sulla giugulare. John sospirò, rassegnato e alzò gli occhi al cielo. “Ho capito… lasciamola là dentro.”
Le sue dita si intrecciarono gentilmente con quelle dell’ex inquisitore che sembrava aver subito una paralisi facciale, tanto luminoso era il sorriso stampato sulle labbra leggermente arrosate. Poi, qualcosa sembrò ridestarlo dal suo stato euforico e sognante, mentre il medico lo guidava con passo sicuro verso casa loro. “John… il bastone.”
“Ah, già, quello. Credo di essermelo dimenticato nella fretta di venire qua.” Arrivati nel salotto, John, con un sorriso, spinse dolcemente il corpo di Sherlock sul divano e si sedette sulle sue gambe. “Avevo… altro a cui pensare.”
“Ne sono felice.” rispose l’altro prima di chiudere dolcemente gli occhi e buttarsi all’indietro, stringendo tra le braccia il piccolo e zuppo John Watson, che si abbandonò contro il suo petto per qualche istante. Rimasero abbracciati per molto… molto tempo. Così tanto tempo che la voce inviperita della signora Hudson finalmente si placò, probabilmente memore della presenza di vicini che avrebbero potuto indispettirsi a loro volta per quella confusione.
John sorrideva. Sorrideva e ne era fottutamente consapevole. Aveva passato due lunghi giorni a struggersi per la lontananza da quella casa, da quella strada, da quella padrona di casa, da quello Sherlock Holmes. E ora che aveva ritrovato tutto questo… aveva voglia di ridere e piangere al tempo stesso. Di ridere perché gli sembrava così assurdo essere fradicio, tra le braccia dell’uomo che amava, con il fiatone che scuoteva entrambi, e di piangere perché… perché si sentiva un cretino per aver allontanato Sherlock. C’erano voluti due giorni di riflessioni per arrivare alla conclusione che Sherlock non meritava tutto quello. Era vero, gli aveva mentito e parzialmente lo aveva pure tradito, però era stato tutto per il suo bene, per il loro bene. Sherlock ci aveva pensato a loro. Non aveva pensato solo a lui o solo a se stesso. “Mi dispiace.” mugolò alla fine, strusciando il volto contro il petto dell’altro.
“Di che cosa?”
“Di averti fatto soffrire.”
“A te? A te dispiace?”
“Non lo meritavi. Hai fatto solo quello che ritenevi più giusto.”
“E tu hai intenzione di biasimare te stesso per esserti comportato come un umano? Non eri tu quello a sfiatarsi nel ripetermi che dovevo cercare di comportarmi più come un essere umano? Devo ricordarti che tu non sei da meno?”
John sospirò profondamente e tacque, rapito dal battito cardiaco di Sherlock. Quel cuore che ascoltava, quel cuore che pulsava, quel cuore che gioiva era suo. Quel cuore non era posseduto da altri che lui. Sherlock Holmes glielo aveva donato innumerevoli volte e… glielo stava donando anche quella notte. “Non dubiterò più… Mai più. Lo giuro.”
“E io non ti nasconderò più nulla. Lo giuro.”
John si alzò come meglio poteva a causa della posizione in cui era bloccato e porse il mignolo al consulente investigativo che gli rispose con l’inarcamento di un sopracciglio. “Sul serio, John? Siamo alle elementari?”
“Se non stai zitto il tuo destino è quello di dormire fuori dalla porta, sotto la pioggia.”
“Declino l’invito.”
Sherlock strofinò il suo naso con quello dell’altro e intrecciò il proprio mignolo col suo, sugellando quella promessa così sincera e spontanea che si erano appena scambiati. Il medico richiuse gli occhi e si abbandonò nuovamente tra le braccia del detective che respirò con nostalgia il suo odore su quei capelli dorati zuppi di pioggia. Rimase immobile per un po’, fino a quando non avvertì che anche la sua maglia cominciava a mostrare qualche segno evidente del contatto con il bagnato. “Cristo, John.”
“Cosa?”
“Sei completamente mollo.”
John si alzò e scoppiò a ridere. “Effettivamente, comincio ad avere freddo. Credo sia il caso di farmi un bella doccia calda.”
Sherlock annuì mentre lo guardava saltellare allegramente verso il bagno. Improvvisamente, gli tornarono in mente il viso di suo fratello, il suo piano, le sue informazioni e… Clara. Non aveva ancora avuto il coraggio di aprirla, quella dannata lettera. Aveva la sensazione che lei avrebbe voluto che venisse letta da entrambi, insieme. “Vuoi unirti a me? Possiamo stringerci, se vuoi.”
Il detective si alzò a sua volta dal divano e camminò rapidamente verso il medico. Gli lasciò un breve bacio sulle labbra e una carezza sulla guancia. “Ti aspetto a letto. Sbrigati, che dobbiamo parlare.”
Il viso di John, prima rilassato, si oscurò, rivelando la sua agitazione. “E’ successo qualcosa di grave?”
“Tu sbrigati. Io ti aspetto.”
 
***
 
Sentendo la porta aprirsi, Sherlock alzò lo sguardo dalla busta che era rimasto a contemplare per tutta la durata della doccia dell’altro. I suoi occhi si fecero grandi di meraviglia e un lieve rossore gli scaldò le guance. John era in piedi, rilassatamente intento a frugare nei suoi vecchi cassetti, avvolto da solo il suo accappatoio e un asciugamano sulla testa intirizzita. Il consulente investigativo distolse istintivamente lo sguardo, quasi non più capace a guardare il medico in quei panni. John dovette accorgersene, perché gli rifilò uno sguardo curioso misto a un sorrisetto ironico. “Che hai?”
“Niente, è che… non sono più abituato a vederti girare per casa… così.”
“Wow, Sherlock Holmes imbarazzato! Quale onore.”
“Oh, chiudi il becco.”
John ridacchiò e scagliò l’asciugamano dritto in faccia all’altro. “Vado a rivestirmi, così non ti sentirai più esposto.”
“E-esposto? Io non mi sento esposto!”
Ma il medico era già sparito una seconda volta in bagno. Dopo una manciata di minuti, John riemerse nella camera, avvolto nel suo pigiama di lino, e si sedette al fianco di Sherlock. “Allora, cos’hai di tanto importante da dirmi?”
L’ex inquisitore scivolò ad un’altezza tale che gli permettesse di appoggiarsi alla spalla del medico, suscitando il lui un dolce sorrisetto intenerito, poi gli porse la busta con tutto il materiale fornitogli da Mycroft. Non appena estrasse i documenti, il viso di John si accese prima di incredulità, poi di puro sbigottimento.
“E questi come diavolo te li sei procurati?”
“Mycroft.”
“Tuo fratello? Tuo fratello, il nuovo capo dell’Inquisizione, ti ha fornito dei permessi di espatrio falsi?”
Sherlock fece scivolare la sua mano in quella dell’altro, assaporando la sensazione di estrema completezza che provava solo con quel piccolo gesto. “Dice che dobbiamo andarcene, che c’è qualcosa di grosso dietro tutto… Che quelli che stanno giocando con noi hanno smesso di giocare.”
“E’ sicuramente una trappola.”
“Non lo è.”
“Perché?”
“Perché io riconosco chi mente.”
“Con Victor non mi pare sia successo.”
Il fitto e repentino scambio di battute si chiuse con una manciata di secondi di silenzio. Il consulente investigativo prese a mangiucchiarsi freneticamente il labbro inferiore, rafforzando la presa sulle dita del medico intrecciate alle sue, poiché temeva che quelle parole potessero generare un nuovo allontanamento tra loro.
“Era diverso.”
“Sì, infatti, non credo che tu abbia mai baciato tuo fratello.”
“John…”
John si zittì, poi, a sua volta, strinse più fortemente la mano dell’altro. “Scusa, è che… ancora se ci penso, fa male.”
Sherlock si levò a sedere e gli accarezzò amorevolmente le labbra, passando e ripassando il loro contorno quasi a volerle ridisegnare da principio. Il medico chiuse gli occhi mentre con un sospiro riceveva il contatto lieve della bocca del detective sulla sua.
“Cuba…” mormorò poi aprendosi in un sorriso sognante. “Riesci ad immaginarti la nostra vita in un posto diverso da questo – libero da catene di paura e di pregiudizi?”
Il consulente investigativo affondò il volto contro la maglietta di lino dell’altro, nascondendo la sua espressione raggiante e speranzosa. “Sai che non sono solito pensare a qualcosa di così distante nel tempo…”
“Io invece posso tranquillamente vederci in un posto del genere. Per prima cosa, ti chiederei di uscire per un appuntamento vero e proprio, che sia in un lussuoso ristorante o in un parco. Anzi, preferisco decisamente il parco: un bel pic-nic sul prato con io che ti imbocco.”
“Per l’amor di Dio, John! Sei serio? E una cosa così sdolcinata che potrei ingrassare come mio fratello solo a sentirla.”
John ridacchiò e depositò un bacio casto tra quei ricci sempre più lunghi e ribelli. “Lo so, ma non è quello che le persone normali fanno? Schifosamente sdolcinato, ma bellissimo. E poi, sono certo che ti piacerebbe.”
“Io non credo proprio.”
Il medico roteò gli occhi e decise di ignorarlo deliberatamente. “Poi, dopo l’appuntamento, vorrei passeggiare con te, mano nella mano, nel cuore della notte e fermarmi a prendere un gelato per strada. Vorrei baciarti dopo una tua geniale deduzione, vorrei vivere in una casa che non sia solo il nostro rifugio, ma anche il nostro inizio. Vorrei… amarti. E vorrei essere amato.” La sua confessione si dissolse priva di risposta. John attendeva che Sherlock controbattesse acidamente o che lo schernisse per le sue stupide fantasie, ma quello, invece, taceva. “Troppo diabetico?”
“Sì.” assentì finalmente il detective, ma dopo un secondo, si portò le loro mani allacciate insieme alle labbra. “Ma non c’è niente al mondo che desidererei di più.”
“E dopo questa posso ritenere la diagnosi di diabete certa.”
Sherlock si sfilò da sotto la nuca il cuscino e per ripicca glielo sbatté in faccia, senza però evitare di ridere. Fuori, persino le stelle avevano ripreso a baluginare debolmente, come riaccese dalla speranza di vedere due innamorati con in mano la felicità tanto attesa e sperata e meritata. L’oscurità tenebrosa della notte abbracciava col suo manto astrale quel piccolo appartamento dentro a cui si stava consumando un amore che con ogni probabilità era scritto negli annali del tempo e dell’universo.
“Dovremo partire presto. Domani al massimo.”
“Come pensi di organizzare il viaggio?” Sherlock sfilò dalla pila di fogli e documenti la cartina su cui erano tracciati i loro percorsi e gliela mostrò. “Ma questi… Come faceva tuo fratello a conoscere gli itinerari programmati da me e Clara?”
Ecco. Era arrivato, dunque. Il momento che avrebbe preferito rimandare ad un altro tempo, ad un altro luogo, anzi, che avrebbe voluto non tirare fuori dal Palazzo Mentale mai più. La lettera non era tra quelle scartoffie, no. Non era tra il loro futuro. Se ne stava solitaria sul comodino, accanto alla lampada, paladina del loro passato. Sherlock la prese con cura e amore, carezzandola quasi, e la fece scivolare sulle gambe di John.
“Che cos’è?” chiese retoricamente quello nello stesso tempo in cui girava la piccola busta di carta, rivelando i destinatari ma non il mittente.
“E’ di Clara.”
“Di… di Clara?”
Sherlock chiuse gli occhi e inspirò profondamente, ricercando nel suo debole animo il coraggio e la forza per rivelare, aprire la busta, leggere la lettera, spezzarsi più di quanto non fosse spezzato e spezzare John più di quanto non fosse già spezzato. Non seppe se li trovò, quel coraggio, quella forza, ma con occhi cupi e profondi riuscì a pronunciare poche parole necessarie: “Sta male, John.”
Il medico sbatté ripetutamente le palpebre, come a domandarsi se avesse sentito bene o se invece fosse d’obbligo chiedere all’altro di ripetere. Ma ogni volta che è così, è ovvio che la verità sia solo una. Perciò non fece domande, non sprecò neanche fiato nel formulare frasi inutili e magari anche sconnesse per lo shock, ma si limitò ad aprire la busta e ad estrarre il foglio su cui erano impresse mediante l’inchiostro le parole che Clara non era riuscita a dire loro. Si scambiò un rapido sguardo con Sherlock, poi cominciò a leggere ad alta voce.
 
Miei cari John e Sherlock,
non so neanche cosa potervi scrivere, o cosa si debba scrivere in tali circostanze, ma cercherò di essere breve e chiara: andatevene. Mi fido di Mycroft, forse sbaglio, ma ho come questa istintiva certezza che lui è la chiave per la vostra salvezza. Se state leggendo questa lettera, allora… è un addio. Partite, amatevi, lasciatevi dietro ogni cosa, me compresa. So che siete due teste dure e che probabilmente non capirete la mai volontà, ma vi chiedo di non cercarmi. Perché non potrei sopportare di rivedervi con gli occhi di questa Clara che non ha più niente di quella che voi conoscete. Ora sto bene, ma quanto potrà durare? Perciò, per amor mio, vi prego: dimenticatemi. O se volete, portate con voi un pezzo di me – di quella vera – e uno di Harriet: rivedo così tanto di noi in voi. Spero che siate felici e che finalmente troviate un luogo in cui amarvi.
Addio per sempre.
      Vostra Clara
 
John tacque, lo sguardo basso e sconfitto. Non voleva sapere che cosa le era successo, perché sapeva che sarebbe stato come venire percossi da un centinaio di dolorose sferzate alla schiena. Clara… la donna che sua sorella aveva amato, per cui aveva dato la vita… stava male. Non sapeva di che male si trattasse, sapeva solo che quando la mattina dopo l’interrogatorio si era recato a Scotland Yard per vederla, Greg era rimasto sul vago, sostenendo che non fosse possibile, ora come ora, farle visita. E lui se n’era andato. Come un coglione. Come un vigliacco. Sarebbe dovuto restare e buttare giù Scotland Yard pur di vederla. Non era giusto… non era giusto, non era giusto, non era giusto!
“John…”
La voce di Sherlock gli arrivava soffusa, le mani che lo stringevano gli sembravano inconsistenti. Aveva perso sua sorella, stava per perdere Clara, e Dio solo sapeva se avrebbe potuto perdere anche Sherlock…
“John… John, guardami.”
E lui lo fece. Spostò il suo sguardo perso in quello fermo di Sherlock, che gli prese il viso tra le mani. “Non la lasceremo sola, John. Mai. Ti giuro che troverò un modo, ma la porteremo con noi, a Cuba.”
“E come? E’ nella prigione di maggiore sicurezza del Paese, come credi di riuscire a portarla fuori?”
“Non è in prigione, è in una struttura per… persone come lei.”
“Che ha?” riuscì finalmente a chiedere il medico, liberandosi il petto di un macigno incommensurabilmente pesante.
“Schizofrenia, pare.”
John rovesciò la testa all’indietro, gli occhi puntati sulle piccole macchioline di muffa sul soffitto. Componevano uno strano gioco di figure: due se ne stavano attaccate, quasi in simbiosi, mentre un'altra era lontana, solitaria, triste. Rivide la loro intera storia in quelle chiazze di muffa: loro due, a Cuba, realizzati, e lei in quella gabbia di stronzi, da sola e eternamente infelice. No, non sarebbe andata così.
“Contatterò Mycroft e insieme elaboreremo un piano. Partiremo domani stesso, dopo averla liberata.”
Il medico annuì un paio di volte, inglobando e interiorizzando quelle parole. “I biglietti?”
“Anche a quello ha pensato Mycroft. Io passerò per l’Africa, tu per l’America. E Clara… per Clara vedremo.”
Le loro dita trovarono strada le une verso le altre e s’intrecciarono amorevolmente. “Ho paura a lasciarti andare, Sherlock.” confessò John rannicchiandosi contro di lui.
“Anche io. Ma dopo quest’ultimo ostacolo… sarà tutto finito. Finalmente.”
Chiusero entrambi gli occhi, sorridenti. E credettero a quella labile promessa.

SPAZIO AUTRICI
Aaaaallora. Buonsalve, bentrovati e viva Mycrfot! Dai, non diteci che credevate davvero che avremmo potuto ridurre questo FANTASTICO personaggio ad un mero supercattivo!? Per quello tanto c'è Moria... LALALA! NON C'E' NESSUNO, NONO! *fischiettano sperando di averla scampata* Comunque! La nostra cattiveria è terribile. Ci eravamo affezionate così tanto a Clara... MA I NOSTRI PIANI NON POSSONO ESSERE SCOMBUSSOLATI DAL MERO AFFETTO PER UN PERSONAGGIO! O sbagliamo? Comunque, nel prossimo capitolo capiremo (non solo capirete) che cosa accidenti succederà e penso che ne vedremo delle belle. Grazie come sempre a chiunque abbia recensito o anche sopportato in silenzio questo supplizio, e ci vediamo prossimamente, CIAO! 

 
   
 
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