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Autore: Francine    27/02/2018    5 recensioni
Si dice che noi abbiamo la febbre, mentre, in realtà, è la febbre che ha noi.
(Lucio Anneo Seneca, Lettere a Lucilio, 62/65)
Fĕbrŭāre in latino significa espiare, purificare, che è quello che fa la febbre al nostro organismo per liberarlo da virus e batteri. Questa vuole essere una raccolta di bozzetti sul grande male di stagione, nel mese dedicato all'espiazione per eccellenza. Fisica o morale che sia.
[Saint Seiya, Lost Canvas, Episode G, Episode G Assassin]
Genere: Commedia, Fluff, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Shonen-ai | Personaggi: Un po' tutti
Note: Missing Moments, Raccolta, What if? | Avvertimenti: nessuno
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★ Iniziativa: Questa storia partecipa al Flu&Fluff a cura di Fanwriter.it!
★ Numero Parole: 1137.
★ Prompt: #9 “Non mi ammalo mai!”, le ultime parole famose di A.
 






6. Il metodo più veloce



 


Prompt:Supposte/ Fandom: Saint Seiya - post Hades /Personaggi: Aquarius Camus, Scorpio Milo


 
 

Uno abituato ai rigori dell’inverno siberiano non può ammalarsi. E avrà pure scoperto di avere dentro di sé un’estate invincibile, nessun dubbio; ma, checché ne pensi lui, anche l’algido Camus dell’Acquario è fatto di carne e sangue, come il resto dell’umanità. E sì che può ammalarsi. Eccome. Specie se insiste ad andarsene in giro in maniche di camicia quando fuori ci saranno dieci gradi sotto zero. Ma è abituato, lui. Vuoi mettere queste temperature straordinarie con quelle che ci sono in Siberia da ottobre fino a maggio inoltrato?
Certo che no.
Allora perché il Principe dei Ghiacci è svenuto – è stramazzato – stamattina nel bel mezzo del campo d’addestramento centrale?
E perché proprio tu te lo sei dovuto trascinare di peso fino all’Undicesima Casa?
Perché Camus – perché Étienne ha la febbre. Solo che è troppo orgoglioso e testardo per ammetterlo, preferendo negare l’evidenza e ignorare quegli occhi arrossati, quell’aria sbattuta e la voce più nasale del solito, come se si fosse infilato una patata nel naso per evitare di soffiarselo in continuazione.
«Allora? Quant’è?», chiedi, le gambe a dondolare sul bracciolo della sua adorata poltrona rosso bordeaux.
«Trentanove. E mezzo», vaticina Phi col termometro in mano.
«Quel coso è rotto», ribatte lui. Tirando su col naso.
Forse la patata non è una soluzione così efficace, pensi.
«Non. Ho. La. Febbre», insiste. Poi ti lancia uno sguardo assassino – uno sguardo che vorrebbe essere assassino, ma che le palpebre a mezz’asta fanno assomigliare a quello di un miope che ha perso i suoi occhiali – e sibila: «Giù le gambe. Mi rovini la poltrona.».
«Stai andando a fuoco», gli fa notare Phi.
«Sciocchezze», fa lui, alzandosi e barcollando verso di te per sradicare le gambe dal suo amato bracciolo. Se non cade disteso è perché lo sorreggete. In due. Sembra magro, Camus dell’Acquario, ma pesa un accidenti. «Giù i piedi dalla poltrona!»
«Étienne, adesso basta», lo rimprovera Phi, mentre lo stendete sul letto.
«È solo un’infreddatura», concede. «Una sudata e passerà.»
«No, che non passa così», ma Phi non ha ancora finito di parlare ché suo fratello è già scivolato nel regno di Morfeo. «Oh, putain
«Almeno dormirà», dici. E non sverrà da qualche parte, pensi.
Perché chi mai sarebbe uscito a cercarlo? Phi, ovvio. O meglio: lei si sarebbe preoccupata non vedendolo passare per l’Ottava Casa, sarebbe andata avanti e indré per una decina di minuti e poi avrebbe fatto la sua mossa.
«Adesso basta! Io esco a cercarlo», avrebbe detto, prendendo cappotto e cappello e sciarpa; e chi si sarebbe trovato nella scomodissima posizione di dover dire «Vengo con te, tesoro», e mandare a gambe all’aria una serata cuore a cuore?
Tu. Non certo lui, che il diavolo se lo porti.
Gli sfilate le scarpe, lo coprite per bene sotto un altro paio di strati e Phi gli posa una mano sulla fonte.
  «Scotta», dice – sbuffa.
«Vedrai. Una bella sudata e passa tutto», le dici, cingendole le spalle con un braccio. Se Camus dorme, non può rompervi le uova nel paniere. E se non può rompervi le uova nel paniere, stasera la passerete cuore a cuore a…
«…paracetamolo.»
«Eh?», dici. Non l’hai sentita, perso com’eri a programmare la vostra serata romantica.
«Il paracetamolo», risponde lei sbuffando. «Non ha preso la medicina. Deve sfebbrare. Come facciamo?»
«Glielo faremo prendere appena si sveglia», rispondi, ché a te, di ridestare il Bell’Addormentato, non ti va proprio. Già di suo, Camus ha l’umore di un orso appena uscito dal letargo e guai a dirgli mezza parola prima che il suo cervello abbia iniziato a carburare; svegliarlo a forza significa andare a ficcare la testa nelle fauci del suddetto orso. Che non ci penserà due volte ad azzannarti fino a renderti un ammasso di carne macinata.
Grazie, ma no, grazie.
«Non sono tranquilla», sospira Phi, le braccia incrociate e l’aria preoccupata. E tu sai che quei segnali e quella postura significano che si alzerà ogni due per tre per andare a controllare il malato e sincerarsi che la febbre non gli abbia cotto il cervello. E Shura è al Santuario. E, preciso com’è, sarebbe capace di accompagnarla a visitare il moribondo. Perché dopo l'avventura ad Asgard sono diventati molto amici, quei due, tanto. Troppo, per i tuoi gusti. «Prima prende le medicine, e meglio è.»
«D’accordo», le dici, alzando bandiera bianca. «Facciamogli prendere ‘ste benedette compresse e poi…», pensiamo a noi due, ma Phi apre un cassetto e ti porge una confezione. Di supposte.
La guardi come se le fosse spuntata una seconda testa.
«È il metodo più veloce», ti spiega. «Il calore stesso scioglierà la supposta e la medicina entrerà in circolo all’istante.»
«Sì, ma…» io che c’entro?
«I guanti in lattice sono in bagno.»
«COSA?!», gridi, e al diavolo se il Bell’Addormentato si sveglia di colpo. «Non scherzare! Sono un uomo…»
«Sono sua sorella. Non vorrai che lo faccia io…», dice Phi, sfarfallando le ciglia. «Ti aspetto all’Ottava Casa, mon p’tit chou», sussurra ed esce dalla stanza, lasciandoti da solo a solo con un malato febbricitante, svenuto e testardo e la confezione tra le mani.
«E adesso?», mormori.
«Tu provaci, e io ti faccio ingoiare tutti i denti», sibila la voce di Camus alle tue spalle.
Ma non eri svenuto?, pensi. E poi glielo chiedi: «Ma non eri svenuto?».
«Mi sono ripreso. Giusto in tempo», dice, ansimando per la febbre. «Non azzardarti a farlo. O ti ammazzo.»
Dovresti prima provarci, pensi. «Fossi matto», gli dici, lanciandogli la confezione di supposte. «Sono tutte tue!»
Lui guarda la scatola, stringe le palpebre, poi mormora: «Sono scadute».
«Merda…»
«Ho delle compresse in bagno», ti dice, e riprendi a respirare, ché scendere fino all’infermeria a cercare le medicine per quella testa dura – e tornare indietro – proprio non ti va.
Recuperi le pillole e un bicchiere d’acqua e glieli porgi.
Camus ingoia il paracetamolo, beve l’acqua come se fosse un cammello appena uscito dal Sahara e si lascia cadere esausto sulle lenzuola.
«Ehi…», ti dice, fermandoti sulla soglia della sua camera da letto.
«Checcè
«Grazie. Sei un amico», mugugna, prima di svenire e di lasciar fare alle medicine.
«Prego», rispondi, sapendo che Étienne è di nuovo tra le braccia di Morfeo.
E sapendo che, con quel Sei un amico, ha creato una piccola breccia nel muro che s’è innalzato tra di voi – che lui ha innalzato tra di noi, rettifichi – dacché siete tornati dall’Ade. Piccola, ma sufficiente per far passare uno spiraglio di luce bastevole a farti sperare che anche quel testardo, prima o poi, si arrenda all’evidenza.
Gli rimbocchi le coperte, lo imbacucchi per bene, e spegni la luce. Per Natale gli regalo un piumino d’oca e ce lo cemento dentro. Vivo, pensi, le mani nelle tasche, mentre ti lasci l’Undicesima Casa alle spalle, la Casa del Capricorno che svetta nella sera fredda e limpida. Shura è sempre al Santuario. Meglio affrettare i tuoi passi.


 
   
 
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