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Autore: Francine    09/03/2018    7 recensioni
Si dice che noi abbiamo la febbre, mentre, in realtà, è la febbre che ha noi.
(Lucio Anneo Seneca, Lettere a Lucilio, 62/65)
Fĕbrŭāre in latino significa espiare, purificare, che è quello che fa la febbre al nostro organismo per liberarlo da virus e batteri. Questa vuole essere una raccolta di bozzetti sul grande male di stagione, nel mese dedicato all'espiazione per eccellenza. Fisica o morale che sia.
[Saint Seiya, Lost Canvas, Episode G, Episode G Assassin]
Genere: Commedia, Fluff, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Shonen-ai | Personaggi: Un po' tutti
Note: Missing Moments, Raccolta, What if? | Avvertimenti: nessuno
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★ Iniziativa: Questa storia partecipa al Flu&Fluff a cura di Fanwriter.it!
★ Numero Parole: 2204.
★ Prompt: #4 A è bravo in cucina e prepara qualcosa di sostanzioso e appetibile per B, inchiodato al letto dal malanno.
 






8. Triage



 


Prompt:Triage/ Fandom: Saint Seiya - post Hades /Personaggi: Aries Mu, Cancer Death Mask


 
Ti svegli con dolcezza, piano piano, attirato tra i vivi da un profumino invitante che ti solletica narici, palato e stomaco, ridestando un appetito lupigno che mai avresti creduto di esperire. Patate arrosto, qualche spezia mediterranea – Aglio? Rosmarino? Entrambi? – e un sentore familiare che non riesci a mettere a fuoco.
Che è successo?, ti chiedi. L’ultima cosa di cui hai contezza è la voce di Death Mask che buca l’aria paziente della mattina con quella risata da smargiasso, tanto per fare una cosa nuova, e questo ricordo ti lascia in bocca un gusto viscido ed un senso di malessere che non ha nulla a che fare con la spossatezza con cui ti sei svegliato stamattina. Affatto.
Perplesso, sbatti le palpebre e ti metti a sedere. Sì, c’è stato qualcuno in cucina, ma chi sarà?
Non Kiki, pensi – speri – che il tuo allievo è tanto volenteroso, affettuoso e premuroso, ma è meglio se se ne resta lontano da coltelli, pentole e fornelli. Per tutti.
Si sarà trattato della stessa persona che ti ha messo a letto.
Aldebaran?, supponi. È l’unico nome plausibile; peccato solo che Adriano sia partito ieri per una missione dall’altra parte del globo. Ma allora chi diamine è stato?
Ti abbandoni all’indietro, la federa è fresca contro il viso accaldato.
Facciamo mente locale.
Stamane ti sei alzato con la voglia di ignorare la sveglia e girarti dall’altra parte, ma no, non si può, ché avevi del lavoro da fare. E le armature saranno pure preziose, saranno pure cose vive, saranno pure doni di Athena eccetera eccetera, ma da quando sei rientrato al Santuario non passa giorno che qualcuno non si presenti alla Prima Casa con dei rottami sottobraccio chiedendoti di dargli una sistematina.
«È solo un graffiettino, qui, un’ammaccaturina là. Roba da nulla», ti dicono con una faccia da bronzo da primato olimpionico, e tu accetti – e tu sei costretto ad accettare, ché mica i Santi di Athena possono andare in battaglia in jeans e maglietta, no? – col risultato che ogni giorno avresti bisogno di più ore delle canoniche ventiquattro a tua disposizione. Settantadue, ad esempio.
E si lamentano pure quando chiedo loro qualche goccia di sangue, pensi, aggrottando le sopracciglia e sbuffando.
Quanto avrai riposato?
Un’ora, due?
Fuori c’è una luce calda; se sei fortunato, saranno le sei.
Posso ancora combinare qualcosa, ti dici, scostando il lenzuolo e mettendo i piedi a terra. Ti gira un po’ la testa, ma le armature non possono aspettare. Non per quei gaglioffi dei loro portatori, nossignore. Per loro, poverette. Ti piange il cuore a vederle ammaccate, graffiate, opache. Così, afferri un plaid, te lo drappeggi sulle spalle, e un piede leva e l’altro metti, raggiungi in silenzio la soglia della cucina.
Silenzio assoluto, nemmeno fossi diventato sordo.
Meglio così, non hai voglia di parlare. La gola assomiglia ad una spianata di carta vetrata. Ci vorrebbe qualcosa di caldo. Una tisana al miele, ad esempio, pensi, affacciandoti nella stanza, una mano sul battente della porta.
Niente tisana, ma, in compenso, c’è una pentola sul fornello spento e il profumino che giunge dal forno è quello inequivocabile delle patate arrosto.
Di Kiki, non c’è traccia.
Ti guardi attorno, aspettandoti che sbuchi da un momento all'altro; poi ti ricordi la ragione di tutta quella quiete: Kiki è a Goro Ho, per allenarsi con Shiryu. Ma il mistero si infittisce, pensi, ché non hai mai creduto alla favoletta della Fata Madrina. Chi è stato qui?
Ciabatti fino al tavolo apparecchiato – la scodella rovesciata cosicché non vi entri della polvere – ti appoggi e sollevi il coperchio della pentola. Un aroma caldo e invitante prende possesso delle tue narici e delle papille gustative senza che tu te ne renda conto. C’è un cucchiaio, lì accanto. Lo afferri, mormori un roco «Grazie per il pasto», e, restando all’impiedi con i lembi del plaid stretti in una mano, ne assaggi una prima cucchiaiata. Squisito. Delizioso. Ancora, pensi, sentendo la gola ammorbidirsi sotto quell’abbraccio caldo e avvolgente.
C’è un retrogusto affumicato che riempie e rende rotondo il sapore della minestra che inizi a mangiare con gusto, voracemente, nemmeno non mangiassi da un mese.
Afferri la pentola, la posi sulla tovaglia, scosti la sedia, rovesci la scodella e vi versi la zuppa dentro, facendo onore alla tavola un paio di volte prima di allontanare i piatti e abbandonarti sullo schienale, la pancia piena e il cuore soddisfatto. Ed è in quel momento che ti accorgi che, sotto al piatto piano, c’è un foglietto ripiegato. Sbatti le palpebre, lo prendi, lo spieghi e lo leggi.
 
Qualcuno ha preso una brutta influenza.
Tu.
Mi sei svenuto davanti, come una mela che cade dall’albero.
PAFF, hai presente? Ecco.
Mi sono permesso di metterti a nanna e di prepararti del brodo. Una cosetta leggera, ma sostanziosa, così ti rimetterai in fretta. Ora, spero che tu abbia letto queste due righe dopo aver mangiato, ché a casa mia c’è un detto: “
La minchia e la panza non vonno pinseri.” Tradotto: quando si mangia, si mangia e basta. Non si legge, non si parla, non ci si affatica. Altrimenti non si gusta quello che si mangia. E il cuoco potrebbe offendersi, non trovi?
 
Quella grafia nervosa – mancina, come sono i granchi – può appartenere ad una persona sola. Death Mask. Sollevi lo sguardo e lo porti dalla scodella vuota – che hai quasi leccato, per quant’era buono quel brodo – alla pentola e ai fornelli. E provi a visualizzare – con una certa difficoltà, siamo onesti – il Santo del Cancro intento a spignattare, un canovaccio allacciato alla bell’e meglio sui fianchi – magari proprio quello ripiegato con cura sulla sedia di fronte a te – e un cucchiaio di legno tra le mani.
Death Mask. Nella cucina della Prima Casa.
«E tu che ci facevi qui?», chiedi, come se quel foglio o il silenzio potessero risponderti, mentre le spalle si abbassano e il plaid si affloscia in uno sboff. Allora non l’ho sognato. L’ho sentito ridacchiare per davvero.


Ti ho preparato la zuppa d’accia, scrive ancora nel suo biglietto, come a rassicurarti.  È la ricetta di mia nonna, che rimetteva in sesto pure gli zombie.

«Accia

Qui lo chiamate sedano. Sedano, caciocavallo, cipolle di Tropea, uova, pecorino, salsiccia e soppressata. Ma, non avendo trovato in dispensa uno straccio di carne nemmeno a pagare, ho realizzato una versione vegetariana. È tutta roba vegetale, stai tranquillo. Con voi fricchettoni non si sa mai, aggiunge.

«Fricchettoni?», chiedi, guardando accigliato la porta della dispensa. Che sì, è vuota. E da qualche giorno pure. Sbuffi. E chi ce l’ha avuto il tempo di fare provviste?, pensi.

Siccome il tuo allievo è uccel di bosco, dai retta a un cretino: fatti una sana dormita, mangia (la zuppa è accettabile e dovrebbe bastarti per un paio di pasti), manda giù un paio di aspirine e dormi di nuovo. Alle armature penserai dopo, quando ti sarai ripreso.

«Accettabile? Ma è buonissima!», protesti, come se lui fosse lì, davanti a te, e non alla Quarta Casa.

Se posso essere onesto – e di me tutto si può dire, tranne che io non sia onesto - , non ti fa bene ammazzarti di lavoro così. Sei caduto a terra come una pera matura. Se non fossi passato dalla Prima Casa, saresti rimasto lì, svenuto sul pavimento per chissà quanto tempo.
Non va bene.
Le armature possono aspettare. Lo so che sei oberato di lavoro, ma se istituissi un
triage le cose andrebbero meglio, non credi?

«Un… cosa?», chiedi all’aria, mentre il sole si avvicina all’orizzonte. Sai che ti stai per ficcare dentro ad un maelstrom vorticoso, malmostoso e parecchio incasinato, e lo stai facendo di testa per giunta, e che prima di proseguire la lettura sarebbe saggio mandare giù le due compresse di aspirina di cui parla Death Mask; ma magari, pensi – speri – che ti spiegherà tutto, possibilmente per filo e per segno, nelle righe successive.
 
Aspetta. Non so quanto tempo è che manchi dalla civiltà. Comunque. Il triage è un’invenzione di quegli spocchiosi dei francesi, i quali, per una volta, ne hanno fatta una giusta. Praticamente si tratta di assegnare un colore in base alla gravità del paziente. Rosso, per i casi più gravi. Giallo, per quelli di media urgenza. Verde, per quelli che possono attendere senza spazientirsi. Bianco per quelli da rimandare a casa a calcioni nel culo. Negli ospedali funziona così. Ogni caso che arriva al pronto soccorso ha una sua gravità e un tempo di attesa variabile. Chi sta peggio, passa avanti a tutti gli altri, a prescindere dall'ordine di arrivo. Come un semaforo, ma al contrario.

«Il triage», mormori. E, forse forse, non è un’idea sbagliata, pure se arriva da un pazzo folgorato come lui. Com’era la storia dell’orologio guasto che segna l’ora giusta due volte al giorno?
Sbatti le palpebre. Interessato.

Per farti un esempio, una corazza a brandelli è un codice rosso. Un pezzo saltato è un codice giallo, ché mica puoi andare in battaglia se non ti si chiudono i lacci e le giunture, no? Graffietti, ammaccaturine, urti vari possono aspettare tempi migliori. Quando non avrai casi più gravi o quando t’avanzeranno cinque minuti di tempo.
In forno ci sono delle patate arrosto. Anche quelle sono fatte secondo la ricetta di mia nonna. Tu oggi ti riposi, e domani, se ti senti meglio, riprendi a lavorare. Intesi?


E quell’Intesi?, sottolineato almeno quattro volte, ti risuona nella testa come se Death Mask fosse lì, dall’altra parte del tavolo, un braccio sullo schienale della sedia e le gambe allungate sotto la tovaglia, come a voler reclamare il possesso della terra che calpesta, e forse anche qualche metro più in là.
«Intesi», dici, le quattro mura attorno a te spettatori silenziosi e discreti di questo dialogo senza fili.
Ti ha fatto piacere, un piacere che ti lascia addosso una sensazione di spiazzante calore. Perché su tutti avresti scommesso, tranne che su di lui. Anche perché voi due non è che abbiate poi granché in comune. Anzi. Se – Quando – non vi scannate amabilmente, avete la tendenza ad ignorarvi, come se non esistesse alcun Santo dell’Ariete – o del Cancro, a seconda dei punti di vista – tra i rocchi del Santuario.
Eppure, lui si è preso la briga di metterti a letto e prepararti da mangiare, ti ricorda la tua coscienza, facendoti sentire in colpa. Cos’è che vi ha chiesto Athena, una volta tornati in vita?
Di perdonarvi l’un l’altro, ti rispondi osservando il tuo riflesso capovolto sul dorso del cucchiaio.
Ti ha porto un ramoscello d’ulivo. A modo suo, ché chi nasce tondo non può morire quadrato, giusto?
Giusto, pensi, chiedendoti se non sia il caso di dargli una voce, tanto per ringraziarlo e dirgli che non sei morto, che la zuppa era buonissima, che.
Forse ha da fare, ti dici. Forse lo disturbo. Forse.
Ma poi, dopo aver sistemato la pentola semi-vuota sui fornelli e la scodella nell’acquaio, decidi che tocca a te, adesso, rispondere alla sua gentilezza. La cortesia della pace armata, insomma.
Ti schiarisci la voce – come se ne avessi davvero bisogno – e lo contatti via Cosmo.

Death Mask? Disturbo?

Oh, Pecorella! Nessun disturbo. Ti sei ripreso?

Pecorella?!, pensi.
Sì, sto meglio. Volevo ringraziarti.

E di cosa?

Di esserti preso cura di me.

Dovere. Se non ci si aiuta tra compagni d’arme…
 
E tu pensi che i miracoli esistono. Che forse – forse – Athena aveva ragione, che la sua era tutta una sceneggiata – teatro, come dice lui – per non mostrare le sue fragilità e che c’è del buono anche in uno come lui. Sotto quella scorza dura come il carapace di un granchio.

Com’era la zuppa d’accia? Accettabile?

Accettabile? Ma se era buonissima, protesti.

Naah. Dici così perché non hai assaggiato la versione originale.

Fidati. Era buonissima.

Bene, ne sono contento. Adesso prendi le tue aspirine e rimettiti a dormire. Intesi?

Intesi. Ma me la toglieresti una curiosità?, gli chiedi.

Pure due.

Che ci facevi alla Prima Casa?


Silenzio.
Death Mask?
Ancora silenzio.
Tutto a posto?

Sì. Sissì. Ero sceso a Rodrio a fare provviste. Sono passato dalla Prima Casa, t’ho visto a terra come un merluzzo, e t’ho messo a nanna.


Capisco.

Ma non l’hai letto il biglietto?

Sì. Perché?

Perché mi sono dimenticato di scriverti che non ho messo il sale alle patate. Ah, già che ci sono: la giuntura del busto non chiude bene. Ci ho passato un po’ di orrichalkos, ma non va. Si vede che quel disgraziato di Cos, lì... Fáfnir, o come diamine si chiamava, deve aver avuto una botta di culo. Non è che potresti dare una sistemata anche a quello?

Anche?!

Ti ho spiegato tutto nel secondo foglio. Adesso, scusami, ma sono atteso alla Tredicesima Casa. Sai, per il pokerino del venerdì sera…

e mentre nella tua testa i suoi pensieri si affastellano in maniera incoerente, come un’ondata di marea che si infrange sugli scogli schiaffeggiandoli, lo sguardo ti cade sullo scrigno dell’armatura del Cancro, posato in un angolo, che occhieggia poco oltre la soglia del disimpegno tra le tue stanze private e il laboratorio.
Sbatti le palpebre, una volta, due, tre, e poi metti a fuoco tutti i tasselli.
Il giramento di testa, la stanchezza, la sua voce.
Provviste un cazzo, pensi.
Lo senti sorridere – il lampo abbagliante della tagliola aperta, in attesa tra l’erba alta – e poi non fatichi a vederlo che si stringe nelle spalle prima di risponderti: Tana. Ero passato per un’emergenza. Però a Rodrio sono sceso davvero. A fare provviste. Per te.

Ah.

Comunque. La mia ragazza ha un graffietto. Un’ammaccaturina. Niente che una passata del tuo scalpello magico non possa sistemare, ecco… Ma siccome è tanto bella quanto permalosa, vorrei che tu la sistemassi appena puoi. Quando avrai cinque minuti da dedicarle, s’intende…

Certo. S’intende, rispondi, mentre lui t’ha già salutato e si sta avviando verso la Tredicesima Casa col passo del condannato che si avvicina al patibolo. Aphrodite lo spennerà, lo sapete entrambi, così come sapete entrambi che aprirai lo scrigno dell’armatura, prenderai martello, scalpello e polvere di stelle e sistemerai Cancer stasera stessa.
Lo faccio per lei, ti dici, tirando la catena d’apertura, la coperta sulle spalle e il sole che tramonta all’orizzonte.


Nel mio personalissimo headcanon Death Mask è un asso ai fornelli. Ho trattato questa cosa un po' ovunque nelle mie storie, sicché troverete degli accenni più o meno onnipresenti quando entra in scena il Santo del Cancro (leggi: sempre).

La
zuppa d'accia è una ricetta della tradizione calabrese, e nel mio headcanon Death Mask è calabrese, nato sullo Ionio e svezzato sul Tirreno (così non s'offende nessuno). Gli ingredienti sono quelli elencati da Death Mask nel biglietto a Mu, e posso assicurarvi che la Pecorella ha ragione, è buonissima anche senza la salsiccia e la soppressata (lo dico per i vegetariani all'ascolto!). L'unica rogna è dover togliere tutti i filamenti dai gambi di sedano, ma questi sono dettagli.

E sempre al mio
headcanon è da ascrivere il pokerino del venerdì sera alla Tredicesima Casa. In tempo di pace, con Hades e i fattacci brutti di Soul of Gold alle spalle, è bene riallacciare rapporti e crearne di nuovi, mettendoci un po' di solenne cialtronaggine. Kurumada può e io no?
Se volete affacciarvi, fatelo pure, a patto di restare in silenzio e di non sedervi a giocare quando c'è Aphrodite al tavolo, che, stando a Marco/Death Mask, "ha più culo che anima".
Uomo avvisato, eccetera eccetera...

Il detto 
La minchia e la panza non vonno pinzieri è spudoratamente tratto dai romanzi di Andrea Camilleri.
 
   
 
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