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Autore: crazy lion    12/03/2018    3 recensioni
Attenzione! Spoiler per la presenza nella storia di fatti raccontati nel libro di Dianna De La Garza "Falling With Wings: A Mother's Story", non ancora tradotto in italiano.
Mancano diversi mesi alla pubblicazione dell’album “Confident” e Demi dovrebbe concentrarsi per dare il meglio di sé, ma sono altri i pensieri che le riempiono la mente: vuole avere un bambino. Scopre, però, di non poter avere figli. Disperata, sgomenta, prende tempo per accettare la sua infertilità e decidere cosa fare. Mesi dopo, l'amica Selena Gomez le ricorda che ci sono altri modi per avere un figlio. Demi intraprenderà così la difficile e lunga strada dell'adozione, supportata dalla famiglia e in particolare da Andrew, amico d'infanzia. Dopo molto tempo, le cose per lei sembrano andare per il verso giusto. Riuscirà a fare la mamma? Che succederà quando le cose si complicheranno e la vita sarà crudele con lei e con coloro che ama? Demi lotterà o si arrenderà?
Disclaimer: con questo mio scritto, pubblicato senza alcuno scopo di lucro, non intendo dare rappresentazione veritiera del carattere di questa persona, né offenderla in alcun modo. Saranno presenti familiari e amici di Demi. Anche per loro vale questo avviso.
Genere: Drammatico, Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altri, Demi Lovato, Joe Jonas, Nuovo personaggio, Selena Gomez
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Spoiler!, Tematiche delicate
Capitoli:
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This is the sound of surviving
This is my farewell to fear
This is my whole heart deciding
I'm still here, I'm still here
And I'm not done fighting
This is the sound of surviving
[…]
I'm still here
Say it to the ache, lying there awake
Say it to your tears
I'm still here
Say it to the pain, say it to the rain
Say it to your fear
(Nichole Nordeman, The Sound Of Surviving)
 
 
 
You keep your head down
You say "Please don't see me
Now, no not this way"
[…]
You say "Please don't see me drown
Now, no not this way"
[…]
Whoever told you that you weren't enough?
Who was it that made you feel small?
I wished I could go back and rewind it all
Replace it with the words that are true
You have more than enough in you
You have more than enough, it's true
(Cimorelli, Who Told You)
 
 
 
 
 
 
92. BURRASCA
 
In salotto, seduta sempre su quel divano, Dianna teneva le mani giunte in preghiera. Aveva chiesto a Eddie, Dallas e Madison di lasciarla stare per un po'. Non era arrabbiata e non disdegnava la loro compagnia, ma aveva bisogno di un momento di raccoglimento, così i tre erano usciti a bere un caffè e a fare due passi. La donna si infilò una mano in tasca e ne estrasse un rosario, una coroncina che aveva comprato a Medjugorje molti anni prima. Lei e Demi ci erano state insieme, quando la ragazza si era completamente ripresa dal suo periodo in clinica e da quello successivo, che di certo non era stato facile. Aveva dovuto combattere contro il bisogno di farsi male, di mangiare e vomitare o di non nutrirsi affatto. Dianna aveva cercato di essere paziente con lei, anche se maledizione, a volte sua figlia era stata davvero insopportabile. Diventava nervosa quando voleva tagliarsi e non trovava, parole sue, "nemmeno una cazzo di lametta" per farlo, oppure nel momento in cui la mamma la costringeva a mangiare anche con qualche minaccia, o le toglieva un po' di cibo se notava che si stava abbuffando. Tutto questo aveva creato sempre più tensione in famiglia e Dianna era stata davvero disperata. Ricordava ancora che, la sera, si sdraiava sul letto e piangeva esclamando:
"Non so più cosa fare per aiutare mia figlia!"
Sapeva che era Demi che avrebbe dovuto reagire per prima e credere in se stessa, ma era anche consapevole del fatto che, in quel momento, non ci riusciva. Il marito allora la abbracciava e cercava di calmarla, ma non era facile. In più, Madison piangeva molto spesso perché pensava fosse colpa sua se la sorella si sentiva così male (anche se i genitori non erano mai entrati molto nel dettaglio cercando di proteggerla) e il rendimento scolastico aveva cominciato a calare. Dallas cercava di tenere unita la famiglia, di appianare i contrasti, di calmare le sorelle e la madre, e Dianna immaginava che per lei avere quel ruolo non fosse stato facile. Avrebbe dovuto essere più forte, visto che era la mamma di quelle tre meraviglie, si disse. Lei e Eddie erano andati a parlare con la psicologa che aveva seguito Demi in clinica e che aveva continuato a vederla, ogni due settimane, fino a quando era uscita dall'inferno e si era ristabilita. La donna aveva dato consigli ai genitori per aiutarli a rimanere vicino a Demi nel modo corretto.
Poi, nel 2013, in estate, madre e figlia avevano deciso di partire per un pellegrinaggio organizzato da una compagnia di persone lì in città. Era stata una delle esperienze più belle e importanti per la vita di entrambe. Medjugorje era speciale, un posto in cui la presenza della Madonna si respirava nell'aria. Ci venivano pellegrini da ogni parte del mondo, che si riunivano per partecipare a messe talmente numerose che molto spesso venivano fatte all'aperto. C'erano anche cinquemila persone a quelle funzioni, se non di più, e la cosa che aveva colpito mamma e figlia in quella settimana era stato il fatto che tutti erano lì per pregare la Madonna e chiederle grazie diverse, ma qualcosa di forte e profondo li accomunava: la fede. Avevano incontrato Ivan e Vicka, due dei sei veggenti, durante uno degli incontri che facevano con i pellegrini e assistito al momento in cui entrambi, che vedevano la Madonna ogni giorno, stavano parlando e improvvisamente erano caduti in ginocchio, per rialzarsi dopo alcuni minuti e rivelare il messaggio che Maria aveva riferito loro. Avevano salito il Podbrdo, il monte delle apparizioni, in una mattina nella quale cadeva una pioggia torrenziale, tanto che Dianna avrebbe voluto rinunciare ma era stata proprio Demi a convincerla.
"Io sento che devo andare, mamma" le aveva detto, guardandola con un sorriso che la donna non le vedeva fare da anni. "È come se la Madonna mi stesse chiamando."
Difatti, durante il tragitto, la ragazza non era mai parsa stanca, aveva anzi asserito che le sembrava che i suoi passi fossero guidati, e alla fine di quella settimana era tornata a casa provando una serenità e una pace interiore che non credeva nemmeno potessero
esistere.
Ritornando con la mente al presente, Dianna prese la corona in mano e cominciò a recitare.
Demi e la madre erano sempre state molto credenti e pregavano spesso, anche se si recavano poco in chiesa. Madison, Eddie e Dallas, invece, erano meno religiosi, ma la donna non diceva niente al marito e alle figlie. Ognuno ha il diritto di credere o non credere, e di essere più o meno religioso.
Aveva appena finito di recitare le prime dieci Avemarie quando Hope iniziò a piangere. Demi non era ancora tornata. Probabilmente c'era traffico per strada, vista l'ora.
"Arrivo, piccola!" esclamò Dianna, per farsi sentire.
Mentre saliva le scale ringraziò Dio, la Madonna, gli angeli e i Santi per averle dato la forza di parlare a cuore aperto. Non era stato facile, e sapeva che non era solo merito suo se ci era riuscita,
anzi.
Aprì la porta e si avvicinò al letto. Si chinò e accarezzò la testa della bambina per tranquillizzarla e, difatti, questa smise subito di piangere.
"Ben svegliata, Hope" sussurrò dolcemente.
 
 
 
La piccola la guardò senza dire niente per un lungo momento, in un misto di confusione e sorpresa.
"Mamma?" chiese, iniziando a guardarsi intorno.
Credeva fosse tornata e di essere a casa, invece si trovava ancora nella camera della zia. C'era la nonna con lei e la bimba si sentiva al sicuro.
"La mamma torna tra poco, tesoro" le disse Dianna prendendola in braccio. "Stai crescendo, eh?"
La portò di sotto e la cambiò. Hope si dimenò e piagnucolò un po', ma comunque fu abbastanza brava.
Non ho perso la mano pensò Dianna con un sorriso.
Faceva quello stesso pensiero ogni volta che doveva occuparsi di Mackenzie e della piccola. Le piaceva tantissimo fare la nonna.
Hope iniziò a giocare con lei, anche se era più attirata dalla TV che la donna aveva acceso. Stava guardando un programma di cucina, ma visto che la piccola pareva interessata cambiò canale per farle vedere i cartoni. Hope si illuminò quando vide che stavano trasmettendo i "Teletubbies". Le piaceva tantissimo, ma a casa non lo guardava quasi mai. Vedeva poco la televisione perché preferiva giocare con la sorella, ma quando era dalla nonna era felice di guardare i cartoni. In particolare quello le piaceva perché i quattro protagonisti vivevano in un luogo pieno di verde, dove c'erano tanti conigli che scorrazzavano di qua e di là e poi, quasi all'inizio della sigla, ognuno dei Teletubbies diceva un numero, da uno a quattro, e lei contava con loro visto che lo sapeva fare piuttosto bene. Anche quel giorno alzò le manine in aria, tutta contenta, quando ci riuscì.
"Bravissima, amore" le disse la nonna.
"Assie" rispose, anche se sapeva che non era quella la parola giusta, ma ora non la ricordava.
"Prego! La tua mamma è stata proprio brava ad insegnarti a parlare così bene, anche lei ha imparato molto presto sai?"
"Mamma  t-tonna?"
Aveva sbagliato di nuovo. Abbassò lo sguardo, sentendosi triste.
"Ehi, piccola, guardami." La nonna si avvicinò e si chinò alla sua altezza. "Sai dire molte parole, e va bene se non ti ricordi qualcosa. Non sono arrabbiata. Certo che la mamma torna. Verrà presto, non preoccuparti."
Dianna le scompigliò i capelli e la bambina rise di gusto. La donna sapeva benissimo che i bambini possono ripetere molte volte le stesse domande, quindi non se la prese affatto. In quel momento si sentì la porta di casa aprirsi.
"Nonno, zie!" urlò Hope.
Avrebbe potuto giocare anche con loro.
 
 
 
Demi guidava sempre con prudenza, ma quel giorno non ci riusciva. Andava forte, se ne rendeva conto, ma aveva comunque il controllo del mezzo. Non era talmente pazza da correre per la strada come se fosse stata l'unica automobilista in circolazione. Quel che era accaduto poco prima aveva scosso molto anche lei, non solo Catherine e Mackenzie, ma non era importante. Doveva concentrarsi sulla sua bambina, a lei stessa avrebbe pensato dopo. Mackenzie guardava fuori dal finestrino, anche se pareva non stesse fissando nulla in particolare.
"Almeno non ha gli occhi persi nel vuoto" si disse Demetria, un po' sollevata. "Mackenzie!" la chiamò per cercare di riportarla alla realtà.
La bambina le rivolse uno sguardo confuso e spaventato, come se si fosse appena svegliata da un brutto incubo e la ragazza si sentì in colpa: aveva forse usato un tono di voce troppo duro?
Cosa? scrisse la piccola, mentre la penna tremava tra le sue dita.
"Come stai?"
Sapeva che forse non avrebbe dovuto porre quella domanda. Era ovvio che Mackenzie si sentisse male, ma voleva cercare di farla aprire.
Sono un po'… frastornata ammise.
Odiava scrivere quei dannati puntini, ma a volte le parole non le venivano proprio, non ci poteva fare niente.
"Immagino. Hai avuto un pomeriggio piuttosto intenso e il periodo che stiamo vivendo non è dei migliori."
Decisamente.
Mac avrebbe voluto chiedere alla mamma come mai non potevano essere felici come lo erano state all'inizio, in quei mesi nei quali non era successo nulla di così brutto o grave, nei quali le cose erano andate abbastanza bene per tutti; ma la vita, ingiusta e crudele, le aveva fatto comprendere in fretta che la felicità spesso scivola via come sabbia fra le dita, e che i momenti belli hanno fine troppo presto, mentre quelli brutti sembrano non terminare mai.
"A cosa pensi?" le chiese la mamma.
Al fatto che, da quando la zia Carlie è morta, il papà non è stato più bene e nemmeno noi. Sì, abbiamo vissuto dei giorni felici, ma sono stati molti di più quelli tristi.
"I bambini non dovrebbero pensare queste cose" si disse la ragazza. "Dovrebbero essere sempre felici."
"Dovrebbero", appunto, aveva usato il tempo verbale giusto. Dovrebbero, ma molto, troppo spesso non lo sono. Mackenzie non lo era e anche Hope, benché non ricordasse niente, ne aveva passate davvero troppe per la sua giovanissima età; e poi tanti bambini nel mondo soffrivano e non solo per questo. Demi sorrise ricordando che anni prima, con la sua famiglia, aveva adottato a distanza un bambino e l'aveva sostenuto finché aveva raggiunto la maggiore età. Era stato bellissimo! L'aveva fatto poco dopo essere uscita dalla clinica, per aiutare qualcuno e per sentirsi utile in un momento nel quale odiava la vita e pensava di essere solamente un peso a causa di tutti i suoi problemi. Si era detta più volte che la sua famiglia sarebbe stata meglio senza di lei, e aveva detto ad Andrew:
"Desidererei non essere mai nata, piuttosto che stare qui e far soffrire i miei in questo modo",
ma vedendo l'espressione ferita e addolorata dell'amico non aveva più ripetuto una cosa orribile come quella. Ne aveva parlato con la psicologa per un po' di mesi, finché per fortuna tali pensieri erano scomparsi, ma li ricordava come se fossero stati presenti nella sua mente fino a poco tempo prima.
Faceva schifo vivere così pensò. Era quasi insopportabile!
Guardò Mackenzie e pensò a Hope e si disse - come già aveva fatto in passato - che era valsa la pena di resistere, di non lasciarsi andare.
Mamma?
"Sì?"
Tutto bene?
"Sì sto bene, tranquilla. Anch'io sono un po' pensierosa in questo momento, ma non è nulla di grave."
Mackenzie sorrise appena e poi sbadigliò. Iniziava a rilassarsi ed era esausta. Tutto lo stress accumulato stava lentamente scivolando via per lasciare il posto ad una stanchezza tanto intensa che faceva fatica a tenere aperti gli occhi. Erano quasi arrivate dalla nonna, mancava davvero poco, ma la bambina non ne poteva più. Non era sicura che sarebbe riuscita ad alzarsi e ad entrare per salutare tutti, così chiese alla mamma di poter restare in auto. Demi acconsentì dato che avrebbe parcheggiato vicino alla casa e non credeva sarebbe rimasta dentro molto. Fu così che Mackenzie si abbandonò al sonno.
"Buon riposo, principessa" le sussurrò la mamma, poi percorse gli ultimi metri e parcheggiò. "Torno subito" disse, parlando più a se stessa che alla figlia, poi scese e chiuse l'auto a chiave.
 
 
 
"Non so se chiedertelo o no" disse Bill guardando il suo collega.
Andrew era seduto alla scrivania e batteva con foga le dita sulla tastiera del computer. Sembrava stare meglio, l'amico lo vedeva più concentrato, ma ogni tanto guardava il vuoto, segno che non si sentiva ancora bene.
"Dimmi" gli rispose, atono.
"Manca poco alla fine dell'orario lavorativo, ma io non ne posso più. Faccio una pausa e vado a bere un caffè. Ti va di farmi compagnia?"
Francamente, Andrew avrebbe voluto rispondere di no. Non se la sentiva di uscire, non adesso che aveva ritrovato la concentrazione necessaria per lavorare e poi non stava un granché. Rimaneva in ufficio solo per senso del dovere. Fosse stato per lui, sarebbe corso a casa a sdraiarsi sul divano, o magari a scrivere qualche altra poesia per esprimere i suoi sentimenti. Non aveva certo dimenticato la cena con Demi e le bambine e stava cercando di lottare contro quella parte del suo cervello che gli suggeriva di annullare tutto. Non voleva farlo. Non vedeva le bambine da settimane, e nonostante non fosse in forma aveva troppa voglia di riabbracciarle. Non voleva nemmeno far star male il suo collega. Troppe volte l'aveva lasciato andare a pranzo da solo, in quel mese, e avrebbe potuto sforzarsi di andare fuori e bere un caffè con lui. In fondo non gli aveva proposto di farlo con tutti i colleghi dello studio, ma tra loro due soli.
"Va bene, vengo" rispose sorridendo.
Era un sorriso sincero. Gli mancava uscire con Bill e chiacchierare con lui.
Il sorriso che questi gli rivolse gli scaldò il cuore. L'aveva reso davvero felice.
"Mi sono comportato di merda con te, in questo periodo" si scusò Andrew quando entrarono nel piccolo bar vicino allo studio legale.
"Non dire sciocchezze, dai. Non stai bene e non è colpa tua."
"Lo so, ma sento comunque di doverti chiedere scusa" insistette, dispiaciuto.
"Oh, sei proprio impossibile!" esclamò Bill ridacchiando. "D'accordo, scuse accettate anche se non hai nulla di cui scusarti. Ora sei più tranquillo?"
"Sì."
Ordinarono e si sedettero ad un tavolo in fondo al locale, un po' in disparte e soprattutto lontano dalla radio, che secondo entrambi aveva un volume troppo alto.
"Bill?"
"Mmm?"
"Secondo te è abbastanza vivere per gli altri? Vivere facendosi forza nel sapere che si va avanti per altre persone e non per se stessi?"
"In che senso "è abbastanza"?"
"Per… andare avanti ed essere felice."
Per un solo istante avrebbe voluto dire "per non farla finita", ma grazie al cielo si era interrotto. In quel mese aveva avuto brutti pensieri, era vero, ma non avrebbe mai più cercato di togliersi la vita. La psicologa gli aveva spiegato che il primo anno dopo un tentato suicidio di solito è molto difficile per chi lo vive, perché i pensieri di morte possono essere ancora molto frequenti, e lui si stava rendendo conto che era proprio così.
"Tu stai vivendo anche per te stesso, Andrew" gli rispose il collega, capendo che l'uomo stava parlando di se.
"Sì, forse hai ragione. Non lo so… ogni tanto penso di no."
"Senti, tu sei una persona straordinaria!"
"Oh, andiamo" lo interruppe.
Non voleva che continuasse, avrebbe sprecato fiato per nulla.
"È vero! Hai vissuto e affrontato cose che io non posso nemmeno immaginare, e nonostante tutto ce l'hai fatta" rispose convinto.
In quel momento arrivò una cameriera che portò il caffè di Bill e la cioccolata di Andrew, quindi l'uomo smise di parlare.
"Grazie" disse Andrew e la ragazza sorrise.
Non rispose perché probabilmente vide le espressioni tese dei due e preferì allontanarsi.
"Stavo dicendo: ricorda che le persone più straordinarie sono quelle che non credono di esserlo."
Quella frase colpì Andrew nel profondo. Non aveva mai visto la questione sotto tale prospettiva. Che Bill avesse davvero ragione? Solo vivendo l'avrebbe scoperto. E lui avrebbe smesso di sopravvivere e iniziato a vivere, a vivere davvero, o perlomeno ci avrebbe provato lottando con tutte le sue forze. Era necessario, e in fondo sapeva di volerlo. Sospirò e cercò di rilassarsi. Si rigirò la tazza di cioccolata tra le mani e poi ne prese un piccolo sorso. Era buonissima. Nessuno dei due parlò per alcuni minuti, cosa che li fece sentire alquanto imbarazzati. Di solito avevano sempre qualcosa di cui parlare, ma quel giorno sembravano non trovare argomenti.
"Grazie, Bill!" esclamò Andrew quando entrambi ebbero finito di bere.
"Di cosa?"
"Di quello che hai detto. È stato molto toccante. Ne farò tesoro." Si alzò, fece il giro del tavolo e lo abbracciò da dietro. "E grazie anche perché mi stai sempre accanto, nonostante tutto. Sei un vero amico."
La sua voce si ruppe nel pronunciare quell'ultima frase e, quando Bill lo guardò, Andrew si rese conto che era emozionato forse più di lui.
"Mi fai piangere!"
Aveva gli occhi lucidi. Da anni nessuno gli diceva una cosa del genere. Solo Oscar l'aveva fatto, quand'erano ancora amici.
"Beh, è la verità."
"Anche tu lo sei, comunque."
Stavolta fu Bill ad abbracciarlo. Intanto, qualcuno seduto ai tavoli lì intorno li guardava male. Una signora di mezza età si alzò e commentò con una nota di disprezzo nella voce:
"Non ho parole!"
Andrew, capendo che si stava riferendo a loro, si scostò appena e la guardò.
"E anche se fossimo una coppia? Che ci sarebbe di sbagliato?" le domandò, utilizzando il suo stesso tono.
"I gay sono contro natura. Sono malati, hanno qualcosa che non va nel cervello."
L'uomo restò a bocca aperta. Come poteva esistere al mondo gente tanto insensibile? Notando l'espressione ferita dell'amico si sentì ancora peggio. Avrebbe voluto dirgli qualcosa, ma questi si alzò di fretta e corse fuori.
"È lei ad avere qualcosa che non va" commentò, mentre altre persone stavano dicendo a quella donna che aveva esagerato, altre che quel che aveva detto era orribile e alcuni le davano ragione.
L'uomo non ascoltò più nessuno, pagò e corse fuori da quel bar. Immaginando che Bill si fosse allontanato cominciò a camminare e a guardarsi intorno, ma quando dopo qualche minuto non l'aveva ancora trovato iniziò a preoccuparsi. Quei commenti dovevano fargli un male allucinante, lui non riusciva nemmeno ad immaginare cos'avrebbe provato al suo posto. Batté un piede per terra. Poco prima aveva avuto la forte tentazione di spaccare in testa a quella donna la sua tazza vuota, ma poi si era trattenuto. Anzi, la sola idea di aver pensato di nuocere a qualcuno ora gli faceva venire il voltastomaco. Come aveva potuto arrivare a tanto? Ne avrebbe parlato con la psicologa, si disse. Lei gli stava insegnando delle tecniche di respirazione per calmare la rabbia, così iniziò a prendere dei respiri profondi. Fu allora che vide Bill. Era sotto ad un lampione, dall'altra parte della strada. Aspettò che passasse una macchina e poi lo raggiunse.
 
 
 
Bill era corso fuori piangendo. Nessuno lo offendeva da un po' e lui aveva sperato che fosse tutto finito, che non sarebbe successo mai più, e invece era accaduto. Quella signora non aveva capito che lui era gay - non ce l'aveva di certo scritto in faccia! - ma comunque gli aveva fatto male. Non si pentiva dell'abbraccio che lui ed Andrew si erano dati, ma soffriva per ciò che aveva sentito.
"Ehi" sussurrò il suo amico, con tutta la dolcezza di cui era capace.
Lui sussultò.
"Non ti avevo sentito arrivare" disse. Teneva le mani davanti al viso e non aveva la voce ferma. Stava ricominciando a singhiozzare. "Va' via, per favore" aggiunse, in tono brusco.
L'altro non se la prese e, anzi, cercò di essere paziente.
"No, non me ne vado" rispose deciso.
"Ti prego, fa' come ti ho detto!"
"Perché?"
"Non voglio che tu mi veda in questo stato, mentre soffro così. Io non sono abbastanza forte, capisci? Non riesco a sopportare quei commenti, soffro ancora per come mi ha trattato mia madre e avrei tanto bisogno di lei anche se sono adulto, e invece non c'è ed io a volte mi sento così solo! Ecco, vedi? Ora sembra che voglia fare la vittima, quando invece non è così." Si coprì il volto con le mani e urlò, non curandosi dei passanti che lo guardavano, alcuni spaventati e altri incuriositi.
Qualcuno commentò:
"Quello è matto!"
oppure:
"Sta male?"
ma nessuno si avvicinò e ai due, in ogni caso, non importò nulla.
"Tu sei forte, Bill. L'hai detto a me ed ora io rivolgo queste parole a te, perché è vero."
"Lo dici solo per farmi piacere. Non ci credi nemmeno tu" replicò, afflitto.
"Non ti direi mai una cosa in cui non credo, amico mio. Te lo assicuro."
"Pensi anche tu quelle cose?"
Forse tutti quelli che non erano omosessuali le pensavano, nel profondo, ma non lo dicevano per educazione, per non ferire.
"Eh?" Andrew lo guardò, sorpreso. Perché aveva cambiato discorso? "No! Come puoi pensare una cosa del genere?"
Credeva che ormai Bill avesse capito che lui non l'avrebbe mai preso in giro a causa del suo orientamento sessuale.
"Scusa. È che quando mi vengono rivolte frasi del genere, perdo la testa e non so più quel che dico. Generalizzo pensando che tutti quelli che non sono gay o lesbiche in realtà ci vorrebbero offendere, quando invece non è affatto vero."
Era stato cattivo, se ne rendeva conto. Non è mai giusto generalizzare.
"Okay, sta' tranquillo."
"Forse hanno ragione quelli che ci rivolgono parole così dure. Magari abbiamo davvero qualcosa che non va. Forse io… forse io sono sbagliato, sono fatto male, una specie di scherzo della natura, un frocio."
Gli avevano detto questo, in passato, e anche cose molto peggiori. Bill non avrebbe mai dimenticato quei commenti che, nel tempo, l'avevano fatto diventare insicuro e riservato.
Andrew sentì un gran dolore all'altezza del cuore, come se anche lui stesse soffrendo come l'amico.
"Ascoltami, le persone che ti hanno detto quelle cose orribili, chiunque esse siano, possono tranquillamente andare all'inferno. Sono cattive. Non c'è nulla di sbagliato in te, in nessuno di voi. Bill, tu sei un uomo molto sensibile, dolce e comprensivo e mi stai aiutando tantissimo. Sei una persona e un amico speciale."
"Peccato che solo tu pensi queste cose. Peccato che nessun altro voglia vedere il vero me e che tutti si concentrino solo sul fatto che per loro sono un fottuto errore" sussurrò rassegnato, come se credesse che le cose sarebbero sempre andate così.
"Hai detto bene: "per loro". Io vedo chi sei davvero; e so da tempo che non sei affatto chi mi dimostravi di essere, che era tutta una maschera per proteggerti da altro dolore. Tu sei perfetto così come sei, Bill e per me la tua amicizia è importante. Non riesco ad immaginare quanto sia difficile per te non pensare a quei commenti, ma per favore, per il tuo bene, promettimi che cercherai di ignorarli e, se qualcuno dovesse offenderti, ti chiedo di venire da me a dirmelo, così potremo parlarne. Okay?"
"Non servirebbe a nulla. N-non cambierebbe n-niente" balbettò tra le lacrime.
Ogni volta che era stato offeso si era sempre ritrovato a piangere da solo, sentendosi talmente sbagliato da farsi addirittura schifo e da odiarsi.
"Almeno non saresti solo ad affrontare tutto questo, Bill. Ci sarei io, accanto a te. So che non posso capire quello che stai provando, ma voglio che tu sappia che non devi più stare solo quando vivi situazioni orribili come questa."
Per quanti anni Bill aveva sperato che qualcuno gli dicesse quelle parole! Quante notti aveva passato a piangere e a pregare di non rimanere più solo con il proprio dolore! Oscar gli aveva fatto capire che lui non era affatto sbagliato come aveva sempre creduto di essere e lui se n'era convinto, ma dopo la sua morte quella schifosa sensazione era tornata. Aveva provato a scacciarla, ma questa, come un serpente che inietta pian piano il veleno nella sua vittima per infliggerle dolore e farla morire lentamente, si era insinuata in lui e non l'aveva più abbandonato.
"Sì, ma anche se io te ne parlassi loro continuerebbero a… loro…"
Bill stava piangendo ancora più forte adesso. Oscar era stato la sua forza, il suo sostegno e da quando non c'era più l'uomo si sentiva come se il suo cuore fosse stato tagliato a metà e se la parte che gli restava fosse sempre ferita e sanguinante. In momenti come quello, pieni di sofferenza e di brutti pensieri, avrebbe voluto riaverlo accanto solo per sentirsi dire che non era sbagliato e per udire, un'ultima volta, le parole più belle del mondo:
"Ti amo!"
"Bill, so che sei sconvolto, ma prendi dei bei respiri e cerca di calmarti."
"Calmarmi? Hai sentito quello che ha detto la signora, no? Che sono un frocio! Come cazzo faccio a stare tranquillo?" urlò in preda alla rabbia e al dolore. Si avvicinò ad un muro e lo colpì con un pugno e poi con un poderoso calcio. "Cazzo!" esclamò.
Era stato un cretino, si disse. Si era fatto male da solo: gli usciva sangue dalle nocche che si erano anche leggermente sbucciate.
"Ti aiuto io, aspetta." Andrew tirò fuori un fazzoletto di carta dalla tasca e glielo premette sulla mano insanguinata. "Adesso torniamo in ufficio e ti disinfetto, eh?"
L'uomo avrebbe voluto rispondere che non era necessario, ma sapeva che con l'amico non l'avrebbe mai avuta vinta quindi lasciò perdere.
"Grazie" mormorò.
"Figurati, per una cosa così semplice!"
"Non mi riferisco solo al disinfettante che mi vuoi mettere. Grazie per essere venuto a cercarmi, per non avermi lasciato solo; e sì, ti prometto che se in futuro qualcuno mi offenderà verrò a dirtelo. Dovrei averci fatto l'abitudine, essermi costruito una specie di corazza immaginaria per proteggermi da questi insulti, ma la verità è che non ci si abitua mai a cose del genere."
Passarono il successivo quarto d'ora nel più assoluto e cupo silenzio, ognuno perso tra i suoi pensieri. Andrew non vedeva l'ora di andare da Demi e cercava di aggrapparsi al fatto che avrebbe passato una bella serata con lei e le bambine per sentirsi meglio, mentre Bill stava ancora male, ma non aveva più voglia di parlarne. Tutto ciò che voleva era tornare a casa, mangiare qualcosa, mettersi a letto e dimenticare quella giornata che aveva avuto un finale tanto orribile.
Finalmente il loro orario di lavoro terminò e i due poterono uscire. Fu un sollievo.
"Vuoi che ti accompagni a casa?" chiese Andrew all'amico.
Lo vedeva ancora affranto e non voleva lasciarlo solo.
"No, grazie."
"Sicuro?"
"Sicuro. Faccio due passi a piedi. Ho bisogno di schiarirmi le idee."
"Come vuoi. Io stasera sono da Demi, ma se hai bisogno di me io ci sono, d'accordo?"
"Va bene."
Si strinsero la mano e si salutarono, poi ognuno andò per la sua strada.
 
 
 
Andrew rientrò a casa e si buttò a peso morto sul divano.
"Quanto odio queste fottute giornate in cui niente va per il verso giusto ed io mi sento così male" sbottò.
Andava avanti così da tempo, ormai, ma nell'ultimo mese la frequenza di quei brutti giorni era aumentata moltissimo e chissà per quanto avrebbe continuato a sentirsi in quel modo. Sperava solo che riabbracciare Hope e Mackenzie gli avrebbe tirato su il morale, ma eera sicuro di sì. Non poteva non sorridere quando stava con quei due angioletti, con le sue figlie. Avrebbe voluto coccolare un po' i suoi gatti, ma dormivano sulle sedie del salotto e decise di lasciarli stare. Fece zapping per un po', ma in TV non c'era niente di interessante.
Tanto per cambiare.
Ultimamente nulla lo attirava più, nemmeno i film polizieschi che a volte guardava. Sbuffò sonoramente e decise di alzarsi e fare qualcosa. Era stanco, ma al contempo non voleva passare lì sdraiato l'ora che gli restava prima di andare da Demi. Si fece una doccia, si asciugò in fretta e si vestì, così sarebbe stato già prontoi per uscire, poi accese il PC e aprì la cartella che aveva mostrato alla sua ragazza l'altra volta. Quella mattina aveva iniziato a scrivere una poesia, battendo parole a caso sulla tastiera e adesso aveva intenzione di metterle in versi. Cinque minuti più tardi, ecco che aveva composto un'altra poesia.
 
                   DEPRESSIONE
 
Depressione, questo è il suo nome.
Una parola lunga, che ti ferisce come
una tagliente lama
affilata.
 
Quando con veemenza ti colpisce,
ogni tua speranza svanisce.
Puoi implorare,
inginocchiarti e pregare,
ma lei non ti lascerà andare.
 
È una malattia
che lentamente ti porta via
ogni singola energia.
"Cancro dell'anima", la chiamano,
perché le ruba, piano piano,
il suo soffio vitale.
 
È come una mano,
pesante e grande,
che schiaccia il tuo cuore
riempiendolo di tristezza
e di un forte dolore,
che butta a terra il tuo umore.
 
La depressione è sofferenza
e senso di impotenza.
Ma non è sempre così,
perché a volte stai meglio, sì.
E provi una strana emozione
grazie a questa sensazione.
 
È felicità?
Pare di sì, perché il tuo battito
nella frazione di un attimo,
inizia ad accelerare
e tu lotti e ricominci a sperare
che le cose possano migliorare.
 
Poi, all'improvviso,
scompare il bel sorriso
che ti illuminava il viso.
Il buio della depressione
torna a riempirti di frustrazione,
mentre una domanda ti fa soffrire:
"Da questo male potrò mai guarire?"
 
Rileggendola sorrise. Non era di certo un componimento che raccontava qualcosa di felice, ma descriveva alla perfezione come stava ed era soddisfatto di aver scritto ancora. Gli sarebbe tanto piaciuto comporre una poesia per Demi, o per lei e le bambine. Per il momento non gli veniva in mente nulla, ma si ripromise di rifletterci. Quando spense il computer si accorse di sentirsi meglio, come se gli fosse stato tolto un gran peso dal petto.
 
 
 
"Demi, amore, che hai?"
La ragazza era sicura che la madre si sarebbe accorta che non stava bene, eppure fino all'ultimo aveva sperato che non le ponesse quella domanda. Non aveva la forza di parlare di quanto accaduto, ma ora avrebbe dovuto trovarla, anche se non sapeva dove.
Gesù, aiutami tu!
Di solito rivolgersi a lui la faceva sentire sollevata, e poi era credente quindi le veniva naturale farlo.
"Mackenzie è rimasta in macchina. Dorme."
Fu quella la prima cosa che riuscì a dire mentre entrava in casa.
Non che tu le abbia detto chissà cosa, Demi. Questo non spiega perché hai, probabilmente, il volto pallido e grondi di sudore.
"Che è successo, cara?" le domandò Eddie, che in quel momento stava giocando con Hope sul tappeto del salotto.
"Aspettate solo un secondo; vado in bagno e poi vi racconto." La ragazza si diresse al gabinetto, chiuse la porta e inspirò a fondo. "Porca puttana!" Non avrebbe voluto dire quella parolaccia, le era uscita così e se ne pentì subito. "Uno, due, tre" contò.
Si guardò allo specchio: il suo viso era così pallido e stanco che ebbe quasi paura di se stessa. Si sciacquò, si pettinò i capelli ed uscì.
Dire quei numeri non l'aveva affatto aiutata a calmarsi, ma non voleva restare ancora lì dentro. Ora sentiva di Aver bisogno di parlare con i suoi.
Raggiunse la mamma e le sorelle sul divano.
"Ti senti un po' meglio?" le chiese Madison.
"Non molto, ma non è di me che voglio parlarvi."
 
 
 
Mackenzie si svegliò di soprassalto con il cuore che sembrava stesse per scoppiarle. Aveva avuto un incubo, ma non lo ricordava. Dov'era la mamma? Ah sì, era dentro dalla nonna. Per un momento pensò di uscire e raggiungerla, ma poi si disse di no. Non ne aveva voglia, voleva stare da sola. Non sapeva nemmeno cosa pensare. Non faceva altro che ricordare quanto successo con Catherine, e ciò che aveva creduto di vedere la sconvolgeva ancora. Forse sarebbe rimasta scioccata per sempre, si disse con un sospiro. Odiava quei momenti di pessimismo cosmico che ogni tanto la coglievano, ma sapeva che facevano parte del suo carattere almeno da quando erano morti i suoi genitori. Sapeva benissimo che prima non era così. Ricordava di essere stata una bambina molto solare , felice e serena un tempo. Nonostante la povertà della sua famiglia, quel che era accaduto e le difficoltà che inevitabilmente avevano affrontato visto il quartiere in cui si erano ritrovati a vivere, i suoi genitori avevano sempre cercato di farla sentire al sicuro.
"Va tutto bene" le ripetevano spesso. "Noi saremo sempre con te, non ti lasceremo mai." Quando sua mamma era rimasta incinta di Hope aveva aggiunto: "E non lo faremo nemmeno con tua sorella."
"Come sai che è una bambina?" le aveva domandato Mackenzie.
La pancia ancora non si vedeva e la piccola immaginava fosse troppo presto per sapere se sarebbe stato un maschio o una femmina.
"Me lo sento qui" aveva risposto la donna, sorridendo e mettendosi una mano all'altezza del cuore.
Mac sorrise a quel ricordo, ma subito dopo divenne triste.
Non ci siete più da quasi due anni pensò. Non è giusto. Mi mancate così tanto!
Chiuse di nuovo gli occhi per non piangere e provò a respirare regolarmente. Voleva riprendere sonno per cercare di scacciare, almeno per un po', la tristezza che l'aveva assalita.
 
 
Mackenzie si trovava in un posto che non aveva mai visto prima. Non era la casa dei suoi e non c'erano né l'uomo cattivo, né Hope. Sbatté le palpebre più volte a causa del chiarore abbacinante del sole che entrava da un'enorme finestra alla sua destra. Era in una grande stanza, talmente spaziosa che la bambina non avrebbe saputo dire quanto fosse lunga o larga. Le sarebbe tanto piaciuto riuscire a parlare per sentire il rimbombo della sua voce in quell'ambiente immenso. Sapeva che non ce l'avrebbe mai fatta, ma ci provò comunque.
Tanto, quando non ci riuscirò mi sentirò solo ancora più triste di quanto sono già.
Trasse un bel respiro, si concentrò più che poté e aprì la bocca.
"Ah!" Quell'esclamazione le uscì talmente naturale e spontanea, che ne rimase interdetta. Era riuscita a parlare? E con quella facilità? No, non era possibile. Non poteva crederci. Ci riprovò. "Ah!"
Lo fece ancora e ancora, riuscendo anche ad urlare. Era stupita, certo, ma anche incredibilmente felice. Stava riuscendo a parlare, finalmente! Iniziò a saltellare sul posto, poi cominciò a correre ridendo e battendo le mani. Se solo ci fossero stati i suoi genitori adottivi, in quel sogno, avrebbe potuto correre a dirlo loro e, magari, una volta sveglia sarebbe riuscita a parlare davvero.
"Mac!"
Avrebbe riconosciuto quella voce tra mille. Credeva di averla dimenticata, invece ce l'aveva ancora ben presente; ed era così emozionante e bello sentirla!
"Mamma?" chiese, guardando davanti a sé.
Sì, era proprio lei. Era lì e la stava guardando con un meraviglioso sorriso stampato in faccia.
"Sono proprio io, amore!"
Mackenzie la guardò per qualche minuto, rimanendo immobile. Era strano vederla così felice, dopo tutti gli incubi nei quali la donna era distesa a terra, piena di sangue e debole, oppure quelli in cui lei sentiva gli spari e sapeva che la vita dei suoi genitori stava per finire.
"Mammaaaaaaa!" urlò, correndo verso di lei e gettandosi fra le sue braccia.
Si strinsero forte l'una all'altra, piangendo.
Era meraviglioso riabbracciare la sua mamma dopo tanto tempo, sentire il calore del suo corpo e provare quella meravigliosa sensazione di protezione. Non che Demi non gliela desse, anzi, ma la sua vera mamma le era mancata terribilmente.
"Ti voglio bene, piccola mia" sussurrò questa e poi la riempì di baci sulle guance.
"Anch'io, mamma. Papà dov'è? Non è venuto con te?"
Sarebbe stata felicissima di vedere anche lui.
"Oggi ci sono solo io, ma forse la prossima volta verremo insieme. Guarda come stai crescendo! E anche Hope sta diventando grande. Io e papà vi guardiamo sempre, sai? Siete bellissime e, nonostante il periodo difficile che state vivendo, avete una famiglia meravigliosa."
"La ma… cioè, Demi è molto dolce con noi e ci vuole bene."
"Puoi chiamare mamma anche lei, Mackenzie. Non mi dà fastidio e non mi fa star male, anzi, sono felice che alla fine abbiate trovato qualcuno che vi ama così tanto; e avete anche un papà fantastico!"
 
La bambina annuì e sorrise. Lei e la mamma erano molto simili fisicamente e la donna era proprio come nella foto del medaglione. Mac era fiera di somigliare così tanto a sua madre. Sperava solo che, in futuro, sarebbe stata una donna forte e coraggiosa quanto lei.  Tamara aveva la stessa, dolcissima voce che Mackenzie ricordava. Aveva i capelli lunghi e sciolti e indossava un abito bianco che le arrivava fino ai piedi.
"Cos'è questo posto?" chiese poi.
"Vedi cosa c'è davanti a te?" chiese l'altra, indicando una porta in legno massiccio di cui la bambina, prima, non si era accorta. Su di essa erano stati scolpiti degli angeli. "Entrando lì dentro si va in Paradiso. Io sono uscita solo per un po', per entrare nei tuoi sogni e salutarti. Adesso devo rientrare" concluse, con una nota triste nella voce.
Non avrebbe voluto mostrare alla figlia il proprio dolore, ma non ci riuscì. Era così difficile separarsi di nuovo da lei.
"M-ma io pensavo di poter restare con te di più" balbettò Mackenzie stringendo forte la mamma.
Non voleva che se ne andasse, non di nuovo.
"No, tesoro. Io non posso restare e nemmeno portarti con me."
"Perché?"
"Hai ancora moltissimi anni davanti a te. Sai quante cose potrai fare in una vita intera? Migliaia, milioni!" esclamò con enfasi.
"Sì, ma tu e papà non sarete né con me, né con Hope, non fisicamente almeno."
"Lo so, ma rimarremo sempre accanto a voi dal cielo."
"Dovrò farmelo bastare" sospirò la piccola.
Avrebbe voluto piangere, ma in quel momento non ci riusciva. Poco prima si era sentita così felice, e adesso stava malissimo.
Tamara non rispose. Non sapeva cos'altro dirle per consolarla, per darle forza. Guardando la sua bambina ogni giorno, sapeva quanto stava soffrendo e ogni volta le si spezzava il cuore; ma era grata ad Andrew e Demi per tutto quello che stavano facendo per le piccole e per l'amore che davano loro ogni singolo giorno. Erano dei genitori eccezionali.
"Va tutto bene" disse infine.
"Me lo dicevi sempre, e poi… non importa" mormorò Mac. "Dimmi solo una cosa, mamma."
"Se posso rispondere, volentieri."
"Quando mi sveglierò da questo sogno riuscirò a parlare?"
"Non credo, piccola."
"Me lo aspettavo" rispose affranta. "E ci riuscirò mai?"
All'improvviso tutto si fece nero. Mackenzie non vide più nulla: né la stanza né la mamma. L'aveva sentita scivolare via dalle sue braccia. Si agitò, cercò di muoversi ma era come paralizzata, cosa che la gettò nel panico più totale. Provò ad urlare, ma non uscì alcun suono, nonostante continuasse a sforzarsi all'inverosimile.
"Non ci riuscirai mai. Mai, hai capito brutta stupida?"
Quella voce. La voce dell'uomo cattivo, che continuava a perseguitarla anche nei suoi incubi, e che aveva rovinato anche l'unico sogno bello che faceva da tanto tempo.
 
 
Mac avrebbe voluto aprire gli occhi, una parte del suo cervello le diceva di farlo, ma le palpebre non ne volevano sapere e restavano chiuse. Si sforzò più volte, e alla fine tremò e si svegliò, tornando improvvisamente alla realtà.
 
 
 
"Dev'essersi sentita davvero malissimo!" stava intanto esclamando Eddie.
Demi aveva appena finito di raccontare ciò che era successo da Catherine quel pomeriggio.
"Sì, è così. Fortunatamente io e la psicologa siamo riuscite a farla tornare alla realtà e a calmarla, ma non è stato facile. Stasera viene Andrew, speriamo che questo la aiuti a tranquillizzarsi un po'. Io farò di tutto perché si senta meglio e spero che, andando a scuola e rivedendo la sua amica Elizabeth, riesca a distrarsi e a non pensarci più."
"Ce lo auguriamo tutti" disse Dallas. "Mi raccomando, tienici informati e facci sapere come va."
"Certo!"
"Quindi Andrew si sente meglio?" domandò Madison.
Sperava di sì. Demetria aveva detto che era stato malissimo in quell'ultimo mese e dispiaceva così tanto a tutti!
"Quando l'ho visto ieri per un po' si è sentito bene, sì. Ha anche ricominciato a scrivere, sapete? Mi ha fatto leggere una poesia che mi ha colpita tantissimo. Ad un certo punto non si è sentito più molto in forma, ma spesso chi soffre di depressione ha degli sbalzi d'umore piuttosto intensi quindi non mi sono preoccupata poi tanto."
Senza nemmeno rendersene conto, Demi alzò un braccio e prese fra le dita il polso sul quale, la sera in cui sia lei sia Andrew erano stati male, si era fatta accidentalmente quel graffio maledetto. Non si vedeva più, ma ogni tanto lei ripensava a ciò che aveva fatto e ci stava male.
Dianna notò che lo sguardo della figlia si era rabbuiato di nuovo, come quando aveva parlato della situazione di Mackenzie poco prima.
"Devi raccontarci qualcos'altro, amore?"
Il cuore della ragazza perse un battito. Che cos'avrebbe dovuto rispondere, adesso? Che non c'era niente che non andava? In quel modo avrebbe mentito, ma se avesse detto la verità sua madre sarebbe andata fuori di testa. Non rispose, e quel silenzio bastò perché Dianna le lanciasse uno sguardo carico di apprensione e dolore.
"Tesoro, cos'hai?" le domandò il marito tirandosi su.
Fece il giro del divano e circondò le spalle della donna con un braccio, mentre Dianna si sentiva venir meno. Non le importava di svenire, ma doveva fare quella domanda. Non guardò nemmeno Eddie, ma osservò attentamente la figlia e poi si decise a parlare.
"Tu ti sei… ti sei ancora…" Non poteva essere. Era vero, Demi non stava benissimo in quel periodo, ma Dianna non credeva che avesse ricominciato, soprattutto perché ora aveva le bambine e se qualcuno l'avesse scoperto, probabilmente i servizi sociali gliele avrebbero portate via. Era così difficile terminare quella frase. "Ti sei ancora tagliata?"
La voce le uscì tremolante.
Eddie, Dallas e Madison guardarono Demi senza riuscire a dire nulla. Non potevano credere che fosse successo, non volevano farlo, eppure Dianna aveva fatto venire loro un dubbio e la cosa non piaceva a nessuno dei tre.
"No! No aspettate, anche voi state capendo male come Andrew. Lasciate che vi spieghi. Pensavo di non dirvelo per non farvi preoccupare, perché alla fine non è successo niente…"
"Cosa? Ti sei tagliata e dici che non è successo niente? Ma come cazzo ti escono certe frasi, eh?" urlò la madre in preda all'ansia.
Da quando Demi aveva deciso di adottare un bambino l'aveva sempre appoggiata, tranne all'inizio quando non era stata convinta. Le era rimasta accanto ed ora credeva di essere una brava nonna. Aveva sbagliato di nuovo? Aveva fallito un'altra volta come mamma? In che modo? Perché?
"Mamma no, io non mi sono tagliata. Non sono più autolesionista da tantissimo tempo ormai, te lo assicuro e non ti mentirei mai su una cosa del genere. Mi sono graffiata ma è stato un incidente."
Nonostante fosse seduta, Demi dovette aggrapparsi con forza al cuscino del divano per non rischiare di cadere a terra. Si sentiva così debole. Prese un respiro profondo e cercò di spiegarsi.
Mentre la figlia raccontava, Dianna continuava ad agitarsi sul divano non riuscendo a trovare un attimo di pace. Come avrebbe potuto? Hope, notando l'ansia della nonna e gli sguardi preoccupati delle zie e del nonno, si mise a piangere. La mamma si avvicinò a lei e la prese in braccio.
"M-mamma" disse tra i singhiozzi.
"Shhh, non succede niente amore. Ci sono io qui con te."
"Ma la nonna piange" continuò, nascondendo il viso contro il petto della mamma.
"No, ora sta già meglio."
Dianna aveva versato qualche lacrima, era vero, ma si era calmata quando aveva capito che si era trattato di un graffio fatto in maniera non intenzionale.
"Ci hai fatti spaventare, piccola" disse infatti la donna andando verso la figlia e abbracciandola forte.
"Immagino, e mi dispiace davvero tanto! So cos'avete pensato, ma vi assicuro che anche se ultimamente non sto molto bene, non ho mai voluto davvero fare quella cosa. Sì, come vi ho detto le voci ci sono state, ma le ho scacciate e non sono tornate più."
"Ci dispiace di aver dubitato, Demi" si scusarono gli altri, ma lei disse che non c'era nessun problema.
Immaginava che il loro primo pensiero fosse stato quello, visto quanto era successo in passato.
"Sono fiera di te, Demetria. Sei forte" commentò la madre. "Scusa se ho urlato in quel modo, non volevo spaventare né te né la bambina."
"Tranquilla mamma, è passato."
Demi rifletté sul fatto che lei sarebbe impazzita dal dolore se una delle sue figlie un giorno avesse iniziato a farsi del male. Tremò. Non voleva nemmeno pensarci.
L'urlo straziante che si udì bloccò tutti per un momento. Nessuno seppe cosa dire, né che fare, ma durò solo un attimo.
"Mio Dio" disse Demi precipitandosi fuori.
 
 
 
Alla fine Mackenzie era riuscita ad urlare a pieni polmoni e adesso stava tirando calci e pugni al cruscotto dell'auto. Faceva male, certo, ma a lei non importava. Doveva sfogarsi, buttare fuori il dolore e la frustrazione. Intanto anche gli altri le avevano raggiunte, ma Eddie era rimasto dentro con Hope. Non era il caso che vedesse quel che stava accadendo. Tutti provarono a calmare Mackenzie, a tranquillizzarla sussurrandole parole dolci, ma lei non li guardava nemmeno e continuava a urlare e a scalciare. Demi stava per mettersi a piangere: non sapeva davvero come bloccare la crisi della sua bambina. Tornò dentro e uscì poco dopo portandole un bicchiere d'acqua.
"Bevi, tesoro" sussurrò avvicinandoglielo alle labbra.
La bambina lo prese in mano e gettò l'acqua addosso alla madre, scagliando poi il bicchiere a terra tanto velocemente che nessuno ebbe il tempo di fermarla.
Demi, fa qualcosa. Qualsiasi cosa e in fretta! pensò la ragazza.
Mackenzie cercò di calmarsi solo per un momento. Doveva fare una cosa. Tirò fuori un foglio dalla tasca della maglia e lo mostrò a Demi. Era riuscita a scriverlo prima di gridare.
"Amore, cosa…"
La bambina la supplicò con gli occhi di leggere. Non ce la faceva proprio a scrivere altro in quel momento. Era spossata, confusa e arrabbiata per com'era finito quel sogno.
La mamma ci mise qualche secondo a decifrare quella calligrafia scritta con una mano molto tremante, e quando lesse impallidì.
"Che dice?" chiese Dallas.
"Ho sognato la mia vera mamma; ma poi lui è tornato e mi ha detto che non riuscirò mai a parlare. Ho paura che ritorni davvero e porti via me e Hope."
Mackenzie volle riavere il suo foglio e lo strappò gettando i pezzi in aria, poi ricominciò a gridare mentre nel suo piccolo animo si agitavano le più grandi e terribili tempeste.
 
 
 
NOTA:
ho inventato io la poesia che ha scritto Andrew.
 
 
 
 
ANGOLO AUTRICE:
salve a tutti, sono tornata in anticipo rispetto a quanto pensavo. Nonostante la situazione a casa e la laurea che si avvicina sempre di più, sono riuscita ad aggiornare anche se con un capitolo più corto di quanto mi aspettassi. Credevo che avrei scritto anche della nostra famigliola che si ritrovava, ma non sono riuscita a trovare delle idee quindi ho deciso di dividere il capitolo in due e dedicare il prossimo al loro incontro. Il titolo di questo si riferisce, ovviamente, al fatto che i nostri personaggi passano dei momenti molto difficili che coprono un arco di tempo breve (un'ora al massimo). Ma si sa, in poco tempo può succedere di tutto, e le emozioni sono capaci di travolgerci con una veemenza incredibile.
 
Io sono stata a Medjugorje nel 2010, con mia nonna che ora purtroppo non c'è più, ed è stato un pellegrinaggio meraviglioso e le mie emozioni sono state quelle che ho descritto riguardo Demi. Era vero anche il fatto che pioveva quando dovevo salire sul monte delle apparizioni. Mia nonna non voleva lasciarmi andare, ma alla fine io l'ho fatto lo stesso dicendole le stesse cose che Demetria dice alla madre; e sentivo che i miei passi erano guidati. Anche io ho incontrato i due veggenti. Dicono che chi va a Medjugorje poi ci ritorna e credetemi: io partirei anche domani se potessi. Ritornerò e mi piacerebbe andare anche a Lourdes e a Fatima. Chi mi conosce sa che ho sempre avuto una fede molto forte.
 
Io da piccola non vedevo il cartone che guarda Hope. È molto visivo e quindi ovviamente non ci capivo nulla, essendo non vedente, ma so che è molto amato dai bambini. Non ho idea se adesso lo trasmettano in replica, ma i miei cuginetti qualche anno fa lo guardavano spesso. Ho descritto quel poco che mi ricordavo, perdonatemi.
 
Nel capitolo 5 ho aggiunto una piccola parte in cui Demi spiega all'assistente sociale che è stata seguita da una psicologa per due anni dopo essere uscita dalla clinica. Mi sembrava più realistica come cosa, per cui ho voluto sistemare e qui ho voluto dedicare qualche pagina al punto di vista di Dianna. Mi pareva importante.
 
So che forse Mackenzie si è vista pochino, ma ho cercato comunque di descrivere al meglio le sue emozioni e non volevo allungare troppo i pezzi per non appesantire. Come avete visto è ancora sconvolta.
Vi aspettavate che sognasse la sua vera mamma?
 
La frase:
"Ricorda che le persone più straordinarie sono quelle che non credono di esserlo"
mi è stata detta dalla mia amica Ciuffettina poco tempo fa ed io l'ho ringraziata e le ho scritto che mi sarebbe piaciuto riportarla qui, quindi l'ho fatto.
Fatemi sapere cosa ne pensate, ed io cercherò di tornare al più presto con il capitolo seguente. Mi laureo il 21 marzo, quindi probabilmente tornerò qualche giorno dopo. Dipende in quanto tempo riesco a scrivere, ma farò del mio meglio lo prometto.
 
Vi consiglio di ascoltare le due canzoni che ho citato all'inizio: sono bellissime.
 
Una cosa importantissima: vi devo dare una grande notizia! Il 27 giugno Demi è in concerto a Bologna, ed io andrò ad ascoltarla! Ancora non ci posso credere, non vedo l'ora cavolo! Sarà bellissimo!
A presto,
Giulia
   
 
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