Capitolo 2
Ripercorse la stessa strada a ritroso, fermandosi più volte per cercare anche il più piccolo degli indizi. Nulla di nuovo, niente di strano. Ritornò nel luogo in cui era stato attaccato dai Raichu, continuando a non trovare risposte. Alla fine si arrese e, mentre Ponyta trotterellava lì vicino, Peeta si sdraiò sull’erba. Teneva un fusticino d’erba tra le labbra, schiacciandolo fra i denti per far uscire quella poca linfa rinchiusa tra i vasi linfatici. Il sole accarezzava dolcemente la sua pelle, facendo scintillare la sua gamba sinistra. Si sentì la spalla toccata da un musetto umido e, pensando fosse quello di Ponyta, accarezzò con molta dolcezza la testa del Pokémon, poi si accorse che Ponyta brucava pochi metri più avanti… Si girò di scatto, ma il Ponyta in più, scappo’ dalla parte opposta per la paura, scavalcando con un salto il muretto che divideva il terreno dalla strada.-Ponyta! Aiutami!
Lasciò l’erba che stava brucando, andando in aiuto del suo compagno che aveva qualche problema a rialzarsi. Peeta risalì in groppa al destriero per inseguire l’intruso, scavalcarono il muretto ma… nonostante il terreno fosse del tutto pianeggiante, di quel Ponyta non ce n’era più neanche l’ombra. Come poteva essere possibile? Come poteva un Ponyta sparire così?
-Etciù!
-Chi ha starnutito?
E dire che era solo. C’erano solo lui, Ponyta e i sassi. In effetti ce n’era uno un po’ strano, sembrava come levigato, con un colore diverso rispetto al normale. Ponyta si avvicinò, lo annusò e, stranamente, lo leccò. Continuò e continuò, fino a quando la pietra iniziò a muoversi, come a tremare, poi cambiò colore ed infine si trasformò in un corpo molliccio totalmente blu, con due occhi e una bocca così piccoli e sottili, che il suo viso sembrava stilizzato.
-Ciao piccolo!
Disse Peeta dolcemente, allungandogli la mano per accarezzarlo. Ma proprio in quell’istante, scappo’ nuovamente, riuscendo a nascondersi tra i sassi.
-Aspetta! Perchè ti nascondi! Non voglio farti del male! Guarda cos’ho per te… Dai esci fuori. È cibo Pokémon fatto in casa da mia madre. Dai, se non esci mi offendo!
Timidamente diede uno sguardo alla mano ricca di leccornie, poi si ritrasse nuovamente, infine stette a fissare la mano e il ragazzo. Peeta rimase lì fermo, accovacciato, in attesa che lo strano Pokémon uscisse. Gli porse una polpettina: dapprima l’annusò, poi la mangiò in un sol boccone. Questa volta si fece coraggio, uscendo dal nascondiglio, allungando delle sorte di piccole braccia per afferrare il cibo.
-Tu… tu sei un Ditto, giusto? Hai una colorazione strana, sicuro di star bene?
Il Pokémon non gli diede conto, continuò a mangiare e a mangiare, finchè non finì. Il ragazzo ritentò di accarezzarlo e, dopo qualche esitazione, si lasciò toccare e coccolare. Poco dopo, fu lui a strusciarcisi contro, si comportava come se non avesse mai ricevuto un po’ di affetto.
-Scommetto che sei stato tu a portarmi a casa l’altro giorno, vero? Grazie mille… Adesso devo andare, ci vediamo!
Appoggiò una mano sul muretto, si fece forza, riuscendo goffamente a rialzarsi in piedi. Fece un fischio e Ponyta apparve immediatamente da dietro le spalle. Lo guardò bene in viso, accorgendosi di un’espressione del tutto terrificante.
-Ditto! Ho capito che sei tu… Non puoi prendermi in giro. Che c’è? Vuoi rubare il posto a Ponyta?
E con quello sguardo un po’ lugubre, iniziò a guardare il ragazzo, scodinzolando come un Arcanine.
-Non vorrai venire con me?
In un baleno si ritrasformò nella poltiglia che era e, senza chiedere il permesso, si intrufolò nello zainetto che il ragazzo portava con sé. Peeta si sfilò lo zaino dalle spalle.
-Non posso tenerti, non sono un allenatore…
-Diiiiittooooooooo!
-Ti ho detto che non posso!
-Duui!
Cercò di tirarlo fuori, ma continuava a tenersi stretto allo zaino, trasformandosi a sua volta in uno zaino uguale a quello che lo conteneva, divenendo impossibile estrarlo da lì, diventando come un tutt’uno.
-Ok… ti porto a casa, ma devi rimanere nascosto per il resto dei tuoi giorni, capito?
Tornò una poltiglia blu, fiondandosi in faccia all’allenatore come segno d’affetto, senza capire di avergli chiuso ogni via respiratoria. Per poco, non lo uccideva dalla felicità.
Continuarono il viaggio verso casa galoppando, bagnati dalla luce del tramonto.