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Autore: Il Professor What    27/03/2018    1 recensioni
Il Dottore, come sappiamo, viaggia nel tempo e nello spazio, a bordo della sua macchina e con i suoi compagni. La serie e gli altri media ci hanno fatto vedere che, occasionalmente, il nostro Signore del Tempo preferito ha visitato anche il nostro paese. Ma se ci fossero state altre avventure, che la serie non ci ha mostrato?
Questa è la prima di tredici storie dove il Dottore interagisce con la storia del nostro paese. Nell'abbazia di San Gaudenzio, 1302, Dante Alighieri e i Guelfi Bianchi si sono riuniti per cercare di tornare a Firenze. Un misterioso Monaco promette loro una sicura vittoria, con l'aiuto di qualche arma strana. Dante si oppone strenuamente, ed è appoggiato dal Primo Dottore e dal suo compagno, Steven Taylor, che quel Monaco lo conoscono bene...
Genere: Avventura, Science-fiction, Storico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Doctor - 1
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Doctor Who: The Italian Adventures'
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Sono vivo, signori e signore, e come al solito in tremendo ritardo. Ma no, non ho alcuna intenzione di mollare questa storia, e ci tenevo a scrivere questo capitolo, che ne costituisce il cuore. Quindi, non perdiamo tempo e tuffiamoci a pesce nella quarta, e penultima, parte della nostra prima storia!
 

"PER SEGUIR VIRTUTE E CONOSCENZA"
Parte 4

 
Non ci volle molto prima che la notizia fosse nota in tutta l’abbazia: Scarpetta Ordelaffi aveva trovato, un altro dottore, e l’aveva portato a vedere il malato. I più lo bollarono come l’ultimo tentativo disperato del signore di Forlì per salvare l’amico, in non pochi aggiunsero che, tentare per tentare, tanto valeva affidarlo direttamente al Monaco, seppellendo la diffidenza. Bastiera dei Tosinghi, di fronte a questa notizia, ebbe un approccio meno filosofico.
“Ordelaffi!” esclamò avvicinandosi al signore, che assieme al proprio seguito stava in piedi al di fuori della stanza del poeta, aspettando notizie.
“Ha qualcosa da dirmi, messer dei Tosinghi?” domandò cortesemente l’interpellato.
“Cos’è questa storia che hai portato un altro dottore a vedere Alighieri?”
“La pura verità. Ho trovato un altro guaritore, che mi ha detto di poterlo guarire. Visto che l’alternativa era lasciarlo morire, ho pensato…”
“L’alternativa? Hai forse dimenticato chi è con me?” chiese Scarpetta indicando il Monaco. “Perché non lasciare che…”
“Perché, come ho ripetuto più volte evidentemente senza essere ascoltato, io non mi fido di questo tuo Monaco – un uomo di cui non sappiamo niente e che si è presentato da noi proponendoci strane armi che sono in grado di fare un massacro senza precedenti. Nessuno che si presenta in questo modo è degno di fiducia.”
“Tu come il poeta… intellettuali, bravi solo a parlare! Cercate le nostre armi quando ne avete bisogno, ma poi non avete il fegato per fare quanto necessario!”
“E quanto dovrà essere grande il bagno di sangue che tu ritieni necessario, Bastiera? Non…”
Il diverbio fu interrotto, proprio in quel momento, da tre colpi dati all’interno della porta. Era il segnale convenuto: gli uomini di Scarpetta, e Lapo, si affettarono ad aprire la porta. Il Dottore ne uscì sistemandosi le maniche della giacca, seguito da Steven.
“Ebbene?” chiese Scarpetta, ansioso.
“Messer Alighieri è fuori pericolo” dichiarò il Dottore. “Suggerisco di mandare qualcuno nelle cucine per fargli preparare un pasto sostanzioso, è molto debole.”
“Vado io” si offrì subito Lapo, solo per essere fermato subito da Steven.
“Mi dispiace, Lapo, ma il Dottore vuole visitarti, tu e tutti quelli che sono stati a più stretto contatto con messer Alighieri. Il male che ha colpito il poeta è contagioso, e vorremmo cercare di contenerlo.”
“Vai pure, Lapo, manderò uno del mio seguito” disse Scarpetta. “E poi radunerò tutti quelli che sono stati vicino ad Alighieri, quanti potrò trovare.”
“Il più in fretta possibile, messere” disse il Dottore. “Ah, e per favore, fate preparare per me e per il mio compagno un qualche posto dove coricarci. Resteremo qui, stanotte, a prenderci cura del malato, per assicurarci che la guarigione…”
“Guarigione?” domandò Bastiera, facendosi avanti minaccioso. “Chi ci assicura che sia guarito?”
“Messere, non stavo parlando con lei” fu la risposta del Dottore, che agitò la mano come se stesse scacciando un insetto fastidioso. “Dicevo…”
“Ma io parlo con lei” insistette Bastiera, “e glielo domando di nuovo: chi ci assicura che è guarito?”
“Non è mia abitudine mentire su simili questioni” rispose duro il Dottore.
“Bastiera, ora basta!” esclamò Scarpetta, adottando subito un tono imperioso, da superiore. “Lo vedremo subito se Alighieri è guarito per davvero. Entrerò nella stanza con lei, Dottore, e non abbandonerò il fianco del poeta per…”
“Si accomodi pure, messere” disse il Dottore. “Non ho niente in contrario a un po’ di compagnia, se è quella giusta” aggiunse, prima di rientrare nella stanza. Scarpetta si fermò fuori ancora un attimo per dare un paio di ordini ai propri servi, poi lo seguì. Vedendosi ormai ignorato, Bastiera dei Tosinghi si allontanò, ancora su tutte le furie. Probabilmente per questo non notò Steven che, dopo avere atteso un istante, prese a seguire i suoi passi a distanza di sicurezza.
 
*

Le ore passarono, e il pomeriggio scivolò tranquillamente nella sera. Dante aveva ormai ripreso conoscenza e, grazie anche al lauto pasto che aveva consumato, stava recuperando rapidamente le forze. Scarpetta, ormai del tutto convinto, aveva ringraziato calorosamente il Dottore, offrendogli ogni sorta di compenso, solo perché tutti venissero rifiutati dal Signore del Tempo. Quando le ombre si allungarono troppo, il signore di Forlì diede a tutti loro auguri di buon riposo e andò a letto; il fedele Lapo, conclusi i suoi doveri presso il padrone, lo imitò. Per quell’ora, il Dottore aveva esaminato quanti soggetti era stato possibile rintracciare nell’abbazia che erano stati a contatto con Dante, e dopo averli esaminati con attenzione aveva concluso che nessuno di loro era stato infettato. Evidentemente, il Monaco aveva preso precauzioni perché non si scatenasse un’epidemia, cosa di cui il Dottore gli fu mentalmente grato. Curare Dante dalla peste era stato già abbastanza difficile, persino per uno come lui, se avesse dovuto farlo più di una volta…
“Perché non riposa?” domandò il Dottore al suo paziente. Era ormai da ore che Dante scriveva furiosamente sulla pergamena che aveva richiesto, quando si era sentito forte abbastanza. Diceva che gli serviva per distendersi, ma il Signore del Tempo nutriva il legittimo sospetto che in realtà fosse il suo modo per recuperare un contatto con il mondo reale dopo aver quasi sfiorato la morte.
“Ho quasi finito” rispose Dante, “e comunque non sono stanco. Sono rimasto fin troppo a letto, questi giorni.”
“Appunto per questo dovrebbe riposare un po’. La malattia l’ha debilitata, deve riprendere le…
“Lo farò più in fretta se ho qualcosa su cui concentrarmi. E poi, avevo già cominciato questi versi prima di essere colpito dalla malattia, tanto vale finirli.”
“Molto bene, faccia come vuole” disse il Dottore, arrendendosi. La testardaggine di quell’uomo era qualcosa di impossibile, persino per uno come lui. Si sedette sul letto di fortuna che Scarpetta aveva fatto preparare per lui in un angolo della stanza, e guardò l’orologio che portava al polso. Steven non era ancora tornato, e la cosa cominciava a inquietarlo. Come mai non aveva ancora trovato l’alloggio del Monaco? Quanto poteva essere grande quell’abbazia? E soprattutto, quanto ancora avrebbe dovuto aspettare? Doveva davvero restare tutta la notte a guardare un uomo malato? Oh Rassilon, se non trovava qualcosa da fare al momento sarebbe morto di noia. “Di cosa parla la poesia?” chiese alla fine, non trovando altra soluzione.
“Non è una poesia… cioè, lo è, ma non un sonetto o una canzone. È… è qualcosa di più grande.”
“Di cosa si tratta?” A questa domanda, Dante alzò lo sguardo, fissando i suoi penetranti occhi scuri in quelli del Dottore. L’espressione delle pupille del poeta era attenta, scrutatrice, e diffidente. “Oh, me lo può dire” disse il Dottore, sorridendo. “Anzi, facciamo una cosa: le sue confidenze sono il prezzo per averle salvato la vita. Che ne dice?”
Dante lo fissò ancora per un istante, prima di sorridere leggermente, e iniziare a parlare. “È un poema che tratta di un viaggio. Mi è venuta l’idea leggendo il Tesoro… sa, l’opera di Brunetto Latini.”
“Temo di non conoscerlo.”
“Messer Brunetto aveva scritto questo poema, che ha lasciato incompiuto, dove si perdeva in una cupa selva dopo la battaglia di Montaperti e incontrava varie allegorie della Natura e delle Virtù. Io… ecco… pensavo di fare qualcosa del genere, ma in un modo diverso. Io viaggerei attraverso il regno dei morti, come Enea: Inferno, Purgatorio e Paradiso. Ci penso fin da prima di lasciare Firenze, ormai sono due anni. Ho steso qualche bozza, preso appunti, e… e di tanto in tanto scrivo già dei versi.”
“Oh” commentò il Dottore, che per tutta la spiegazione non era riuscito a trattenere un enorme sorriso. “È un progetto ambizioso.”
“Lo so” sospirò Dante. “È il motivo per cui non mi decido mai ad affrontarlo. C’è qualcosa che mi blocca, come se… come se sentissi che, nel momento in cui vi metterò mano sul serio, non potrò più tornare indietro. Ha mai avuto la sensazione, Dottore… di sapere esattamente cosa voler fare, ma avere paura di darsi tutto all’impegno per farlo?”
“Mi creda, la conosco bene” sospirò il Dottore: era esattamente come si era sentito lui tutte le tante, troppe volte che aveva provato a lasciare Gallifrey. “Ha paura di quello che significherebbe per la sua vita, le conseguenze che questo implicherebbe. Ciò che perderebbe, e ciò che non avrà mai più.” La voce del Dottore si abbassò, mentre i ricordi che l’avevano tormentato di recente si rifacevano vivi. Il suo viso era ora tinto di una tristezza talmente acuta che Dante ebbe pietà di lui, anche se non sapeva perché.
“Si direbbe che lei abbia fatto una scelta del genere” commentò gentilmente il poeta. Il Dottore annuì, senza dire nulla, e Dante provò a insistere. “È stato doloroso?”
“No, al contrario: è stato molto facile, e divertente. Avevo aspettato tutta la vita, sa, e quando finalmente l’ho fatto ho pensato, all’inizio, che ne valesse la pena. Eravamo io e mia nipote, da soli, partiti per vedere l’universo, come avevo sempre desiderato fare.”
“Allora lei è un viaggiatore.”
“Cosa?” chiese il Dottore, rendendosi conto solo in quel momento di aver parlato sovrappensiero. “Oh… sì, immagino mi si possa definire così” disse, chiudendo la questione. Non aveva voglia di parlarne, per di più a uno straniero.
“Curioso, perché i versi che sto scrivendo parlano proprio di un viaggiatore, il più grande dell’antichità. Ha sentito parlare di Ulisse, vero?”
“Ovviamente” sbuffò il Dottore, e trattenendosi con difficoltà dall’aggiungere che l’aveva conosciuto, e non molto tempo prima. Se lo ricordava bene, quel volto dagli occhi piccoli e indagatori, quell’intelligenza viva e operante, che l’aveva indotto a progettare il cavallo di Troia.
“Nel mio poema, è condannato all’Inferno, nella zona dei cattivi consiglieri, assieme al suo amico, Diomede. Passando di lì, intendo chiedergli come è morto, così che egli racconti la sua fine. I versi che sto scrivendo sono appunto gli ultimi del suo racconto.”
“Davvero?” chiese il Dottore, rinvigorendosi all’improvviso.
“Certo. Vede, forse lo avrà notato, ma in questo periodo sto riflettendo molto attentamente sul mio dovere di intellettuale. Ulisse, da quello che si racconta, era un consigliere molto abile, un grande pensatore e uomo di stato, ma ha votato la propria intelligenza al male, e ha dato cattivi consigli. Troia è stata presa con l’inganno, Achille indotto a partecipare alla spedizione dove è morto, il Palladio rubato… e tutto per la sua intelligenza, la sua sete di conoscenza, in nome della quale ha portato sofferenza e morte.”
“Sì, capisco” annuì il Dottore, cercando di restare calmo, di non dare a vedere che quelle parole gli entravano nel petto come pugnali.
“E tuttavia, lui è grande, non mi fraintenda. Pur votata al male, l’intelligenza è sempre intelligenza. È per questo che ho pensato di farlo morire in viaggio, diretto dove nessun uomo è mai stato, con tutta la grandezza che merita il più grande viaggiatore della storia, ma anche la tragedia di un uomo che, nella sua superbia, non ha riconosciuto di essere solo un uomo, e ha perso la vita eterna per questo.”
“Avrebbe fatto meglio a restare a Itaca e non partire, vero?” commentò il Dottore, con voce tremante. Non era sicuro di voler sapere la risposta.
“No” disse Dante, sorprendendolo. “È questo il punto, Dottore. Lo sbaglio di Ulisse non è stato partire, viaggiare, voler conoscere. Il suo sbaglio è stato pensare che, con le sole sue forze, potesse guadagnare la salvezza, che da sola la conoscenza e l’intelligenza umane siano sufficienti. Pensi a quello che è capitato qui con il Monaco, Dottore, e quello che lei ha fermato. Certo, potrei accettare l’aiuto del Monaco, andare tutti a casa, ma a quale prezzo? Nessun sapere di per sé è sufficiente, nessuna intelligenza umana, per quanto grande, può garantire la felicità. A cosa serve guadagnare il mondo, se si perde la propria anima?”
“Quindi l’errore di Ulisse è stato quello di non… non dare uno scopo al suo viaggio che fosse altro dalla sua grandezza personale? È questo il peccato per cui lei lo punisce?”
“Esatto, Dottore. Ogni conoscenza deve essere indirizzata a migliorare la vita dell’uomo, a obbedire il piano che Dio ha per noi. Ulisse voleva elevare sé stesso, così come il nostro amico Monaco, sospetto. Io non voglio la mia gloria, io voglio il bene di Firenze, e di sicuro esso non risiede nelle armi del Monaco.”
“No, immagino di no” disse il Dottore, profondamente scosso, gli occhi lucidi. Quell’uomo non avrebbe mai saputo quanto quelle parole l’avevano toccato, quanto ogni intima fibra del suo essere aveva vibrato nel sentirlo. Altre immagini, ora, gli erano tornate alla mente, altri ricordi, diversi da quelli che avevano riempito le sue ultime notti. Rivide i Thal festeggiare la sconfitta dei Dalek, e gli uomini avvolti nella danza per celebrare la liberazione dalla Terra. Risentì le urla di gioia dei Menoptera e degli Zarbi, che festeggiavano la morte dell’Animus, e quelle degli Xerons mentre il museo dei Morok andava a fuoco. E il sorriso di Vicki tolta alla solitudine di Dido, la felicità di Ian e Barbara che lo ringraziavano per il viaggio in cui si erano innamorati, Susan che, tra le lacrime, era però felice con David… Aveva fatto del bene, si rese conto il Dottore, e per tutto l’universo la sua memoria, e quella del TARDIS, erano ora un simbolo di speranza. Forse, alla fine, si trattava soltanto di farlo volontariamente, non come un effetto collaterale del suo viaggio, ma come uno scopo, una meta.
Mai essere crudele, mai essere codardo. L’odio è sempre sciocco, l’amore è sempre saggio. Le parole dell’Eremita arrivarono a lui da un posto lontano nella sua memoria, il posto dei ricordi d’infanzia, di quella gioventù lontana dove cercava di essere il miglior Signore del Tempo che Gallifrey avesse mai visto. Con un fremito, il Dottore comprese che, forse, ora poteva essere qualcosa di più.
“Potrebbe… potrebbe leggermi quei versi?”
Dante non aveva mai perso di vista il viso del vecchio per tutta la durata del loro dialogo. L’aveva visto diventare triste fino alla morte, e poi rinvigorirsi e prendere colore a quelle ultime parole. Aveva visto i suoi occhi brillare di nuovo, il viso rianimarsi, mentre un’energia giovanile gli tendeva la pelle togliendogli anni di dosso. Colpito, il poeta prese la pergamena e iniziò a recitare.
 
Né dolcezza di figlio, né la pieta
del vecchio padre, né ‘l debito amore
lo qual dovea Penelope far lieta,
 
vincer poteron dentro me l’ardore
ch’i’ ebbi a divenir del mondo esperto,
e delli vizi umani e del valore.
 
Ma misi me per l’altro mare aperto,
sol con un legno e con quella compagna
picciola dalla qual mai non fui diserto.
 
L’un lito e l’altro vidi, e infin la Spagna,
fin nel Morrocco, e l’isola de’ Sardi,
e l’altre che quel mare intorno bagna.
 
Io e i compagni eravam vecchi e tardi,
quando giugnemmo a quella foce stretta
dov’Ercule segnò li suoi riguardi,
 
acciò che l’uom più oltre non si metta:
a la man destra mi lasciai Sibilia,
dall’altra già m’avea lasciata Setta.
 
“O frati”, dissi, “che per cento milia
perigli siete giunti all’occidente,
a questa tanto picciola vigilia
 
de’ nostri sensi ch’è del rimanente,
non vogliate negar l’esperienza,
di retro al sol, del mondo sanza gente.
 
Considerate la vostra semenza:
fatti non foste a viver come bruti,
ma per seguir virtute e canoscenza.”
 
Li miei compagni fec’io sì aguti,
con questa orazion picciola, al cammino,
che a pena poscia li avrei ritenuti,
 
e volta la nostra poppa nel mattino,
de’ remi facemmo ali al folle volo,
sempre acquistando dal lato mancino.
 
Tutte le stelle già dell’altro polo
vedea la notte, e ‘l nostro tanto basso
che non surgea di fuor del marin suolo.
 
Cinque volte racceso, e tante casso
lo lume era al di sotto della luna,
da che entrati eravam nell’alto passo,
 
quando ne apparve una montagna bruna
per la distanza, e parvemi alta tanto
quanto veduta non ne avea veruna.
 
Noi ci allegrammo, ma tosto tornò in pianto,
che de la nova terra un turbo nacque,
che percosse del legno il primo canto.
 
Tre volte il fe’ girar con tutte l’acque,
alla quarta girar la poppa in suso
e la prora ire in su, come altrui piacque,
infin che ‘l mar fu sovra noi richiuso.
 
“Grazie” disse il Dottore alla fine, asciugandosi gli occhi lucidi per la commozione.
“Di nulla” rispose il poeta, mentre dento di sé decideva che, non appena possibile, avrebbe subito ricominciato a lavorare al poema. I trattati erano una buona cosa, ma non avrebbero mai causato così tanta gioia come quella che aveva visto, adesso, negli occhi del Dottore. Quella era una magia che soltanto la poesia poteva effettuare.
Un precipitoso bussare alla porta ruppe la magia del momento. Seccato, il Dottore si alzò, e disse che nessuno doveva disturbare il riposo del malato.
“Messer Dottore, sono Lapo!” esclamò la voce dall’altra parte. “Il vostro amico… è stato appena arrestato! Bastiera dice che è una spia!”

NOTE DELL'AUTORE

- Sì, lo so, è un capitolo un po' lungo, ma non ce l'ho fatta a non citare per intero il racconto di Ulisse dal canto XXVI dell'Inferno. La spiegazione che dà Dante della vicenda di Ulisse è effettivamente quella che gli studiosi della Commedia hanno stabilito.
- Brunetto Latini (1220 .ca - 1294/95) è stato un intellettuale e politico fiorentino, di parte guelfa, considerato da Dante come il suo maestro. In quanto tale, compare come protagonista del canto XV dell'Inferno, fra i sodomiti, a discutere con il discepolo di politica e morale. Il suo Tesoretto (titolo originale Tesoro) è effettivamente rienuto uno dei modelli della Commedia.
- Nel terzo serial della terza serie classica, "The Myth Makers", il Dottore ha effettivamente incontrato Ulisse, assieme agli altri eroi della guerra di Troia. In particolare, Ulisse l'ha costretto a trovare un modo per conquistare la città; il Dottore ha accettato perché era l'unico modo per recuperare il TARDIS (che i Troiani avevano portato dentro la città) e salvare i suoi compagni, Vicki e Steven, e ha suggerito la soluzione del cavallo di Troia.
- I ricordi del Dottore sono vari accenni alle prime due stagioni della serie classica: nell'ordine, "The Daleks" (i Thal sono l'altro popolo originario di Skaro), "The Dalek Invasion of Earth", "The Web Planet", "The Space Museum", "The Rescue" (prima avventura di Vicki Pallister, rimasta orfana e naufraga sul pianeta Dido), "The Chase" (ultima avventura di Ian e Barbara, che poi tornano sulla Terra; sappiamo poi che si sposeranno e avranno un figlio), e di nuovo "The Dalek Invasion of Earth" (dove Susan lascia il TARDIS per sposare l'umano David Campbell).
- L'Eremita è invece una figura citata dal Terzo Dottore, come maestro e guida spirituale del giovane Signore del Tempo. Mi è sembrato giusto attribuire a lui l'origine delle parole dette da Dodici al momento della sua rigenerazione in Tredici.

Bene, direi che è tutto. Ci vediamo molto presto per quella che sarà la penultima parte di questa prima avventura. A presto!

 
  
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