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Autore: Passione_letteraria    06/04/2018    2 recensioni
“La sofferenza, il dolore sono l'inevitabile dovere di una coscienza generosa e d'un cuore profondo. Gli uomini veramente grandi, credo, debbono provare su questa terra una grande tristezza.” Fyodor Dostoevsky
Victor era uno scrittore, Yuuri è un correttore di bozze.
Se la storia vi piace lasciate pure una recensione, sarò ben lieto di rispondervi.
Genere: Drammatico, Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Yaoi | Personaggi: Victor Nikiforov, Yuuri Katsuki
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
- Questa storia fa parte della serie 'Trilogia russa'
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Cielo d’indaco sgombro di nubi, scarni alberi a distesa infinita sbracciano rami neri come sonnambuli.

Alberi tetri, spettrali con tronchi pallidi come cenere di sigaro.

Silenzio supremo e perfettamente russo. Imposte chiuse, botteghe serrate.

Ispide le facciate, quasi scostanti; immacolate, tranne per le macchie d’ombra gettate dagli alberi.
Passando per le vie di San Pietroburgo mi viene a mente un’altra Russia, la Russia di Tolstoy, di Dostoyevsky, la Russia di Anton Chekhov. Penso a Victor con le sue acrobazie di stile che ha fatto trasalire il mondo e mi chiedo se lo stile, alla maniera grande non sia finito.


Dico che la mia mente è occupata da questi pensieri, ma non è vero; solo più tardi, dopo che ho attraversato il Neva, dopo che mi son lasciato alle spalle il carnevale delle luci, permetto alla mia mente di baloccarsi e ferirsi con questi pensieri.
Per il momento non so pensare a nulla: tranne che sono una creatura senziente, trafitta dal miracolo di queste acque che riflettono un mondo dimenticato, il mio mondo.
Lungo il fiume, gli alberi si piegano pesanti sopra lo specchio terso a rendere omaggio ad un grande scrittore deceduto da anni e che nessuno nomina più.
Quando il vento si leverà e li riempirà di fruscii forse uscirà il suo nome, verseranno qualche lacrima e avranno un brivido quando l’acqua rapida scorrendo s’intorbida.
Tutto questo mi soffoca. Nessuno a cui comunicare anche solo in parte quel che provo…
A volte, è vero, pensavo a Victor, non come persona in un preciso ambiente spaziale e temporale, ma isolata, staccata, come se fosse balzata su simile a una gran forma di nube, a cancellare il passato.
Non potevo permettermi di pensare a lui a lungo; perché altrimenti mi sarei buttato dal ponte.

È strano. M’ero così ben adattato a questa vita senza di lui, eppure pensare a lui solo per un momento bastava a trafiggermi l’osso e il midollo della mia soddisfazione e a ributtarmi nella dolorosa fogna del mio sciagurato passato.
Per sette anni andai in giro, notte e giorno, con in mente una cosa sola: lui.
Se ci fosse stato un cristiano fedele al suo Dio quanto io ero fedele a lui, oggi tutti noi saremmo altrettanti gesucristi. Notte e giorno pensavo a lui, anche quando lo ingannavo.

E ora, a volte, nel bel mezzo delle cose, quando io credo d’essermene completamente liberato, magari voltando l’angolo, saltano fuori una piazzetta, pochi alberi, una panchina, un luogo deserto dove ci eravamo fermati a litigare, dove c’erano state scene di gelosia folle, da impazzire.
Sempre un luogo, come Nevskij Prospekt, per esempio, o quelle straduzze sudicie, tetre verso la moschea, o lungo quella tomba spalancata che è Via Kovalevskaja, così silenziosa alle dieci di sera, così morta, che ti fa pensare che so? All’assassinio o al suicidio, ma basta che crei un vestigio di dramma umano.

Quando mi rendo conto che lui non c’è più, partito per sempre, si apre un gran vuoto e mi sembra di cadere, cadere, cadere in un profondo spazio buio. E questo è peggio delle lacrime, più profondo del rammarico, del dolore, della pena: è l’abisso in cui fu precipitato Satana.

Non c’è modo di risalire l’abisso, non raggio di luce, on suono di voce umana o umano tocco di dita. Quante migliaia di volte, passeggiando per le strade di notte, mi son chiesto se sarebbe tornato il giorno ch’io lo riavessi al mio fianco: tutte le occhiate di desiderio che lanciavo alle case e alle statue, alla via che portava il suo nome; le guardavo con tanta fame, con tanta disperazione, che ormai i miei pensieri dovevano essere parte degli edifici stessi, dovevano essere saturi della mia pena.

Non potevo fare a meno di riflettere che quando passeggiavamo per quelle strade tetre e sudicie, così sature ora del mio desiderio e del suo sogno, lui non aveva osservato nulla, sentito nulla: erano per lui come ogni altra strada qualsiasi, un poco più sordide, forse, ma basta. Lui osservava solo me, prestava attenzione solo alla mia figura.

Lui non ricordava che ad un certo angolo io mi ero fermato a raccogliere la sua penna, e che, chinandomi a legarmi le stringhe, avevo notato il punto in cui s’erano posati suoi piedi e ci sarei rimasto per sempre, anche dopo che fossero demolite le cattedrali e tutta la civiltà latina fosse stata spazzata via per sempre.
Le strade erano il mio rifugio. E nessuno può intendere il fasto delle strade fino a che non è costretto a rifugiarvisi, finché non è diventato una pagliuzza sbattuta qua e là da ogni zefiro che soffia.

Passi per strada in un giorno d’inverno e, vedendo un cane in vendita, ti commuovi fino alle lacrime.
Io sono un correttore di bozze, debbo dire subito che non ho ragione alcuna per lamentarmi. Prima lavoravo per Victor ma ora non più. Dopo aver leccato il culo al padrone pe runa settimana intera – non si può fare altrimenti – sono riuscito ad ottenere il posto di Petrokev. È morto, poveraccio ma il funerale di Victor fu qualcosa di diverso.
E, proprio come avevo predetto, gli hanno fatto un bel funerale, con messa solenne, enormi corone e il resto. Tout compris.

Peccato non sia toccato un morso anche a Victor.
Io non mi lamento, è come trovarsi in una casa di pazzi: mi mettono il mondo sotto il naso e tutto quel che chiedono è di mettere la punteggiatura alle disgrazie.
Victor è morto, ecco che devo mettere il punto. C’è chi ride perché non riesco a farlo e mette un punto-e-virgola. È la realtà di una palude ed essi sono come ranocchi che non hanno niente di meglio da fare, soltanto gracidare.

Quanto gracidano tanto più reale diventa la vita. Avvocato, prete, medico, politico, giornalista, ecco i ciarlatani che mettono le dita sul polso del mondo. Atmosfera continua di sciagura. Meraviglioso.
Come se il barometro non mutasse mai, come se la bandiera fosse sempre a mezz’asta. Ora si capisce come l’idea del paradiso conquisti la coscienza degli uomini, come guadagni terreno, anche quando se ne è buttato giù ogni puntello.

Dev’esserci un altro mondo, al di là di questa palude in cui tutto è buttato alla rinfusa. Difficile immaginare come possa essere fatto, questo paradiso di cui sognano gli uomini. Un paradiso di ranocchi, certo. Miasma, feccia, ninfee e acqua stagnante. Sedersi sopra ad un ceppo di ninfee e gracidare, indisturbato, tutto il giorno. Così anche io avrei la mia realtà. Victor sarebbe ancora vivo.

L’uomo può anche giungere ad amare la merda, se da questo dipende il suo vivere, se ne va della sua felicità.
Questa vita che, se io fossi un uomo di orgoglio, d’onore, d’ambizione ecc., mi parrebbe l’ultimo gradino delle degradazione, ora io la saluto, come l’invalido saluta la morte.
È una realtà negativa – proprio come la morte – una sorta di paradiso senza il dolore.


Il sole tramonta. Sento questo fiume che scorre dentro di me, il suo passato, la terra antica.
Quante volte Victor si sarà fermato ad ammirarlo?
Le colline gli fan dolce corona: il suo corso è stabilito.
   
 
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