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Autore: Passione_letteraria    07/04/2018    1 recensioni
"L’uomo non cerca tanto Dio, quanto il miracolo" Fyodor Dostoevsky
Secondo capitolo della serie "Trilogia russa".
Se questa oneshot vi piace, lasciate pure una recensione. Sarò ben lieto di rispondervi.
Genere: Drammatico, Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Yaoi | Personaggi: Victor Nikiforov, Yuuri Katsuki
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
- Questa storia fa parte della serie 'Trilogia russa'
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Se in un momento qualsiasi, in un posto qualsiasi, uno si trova faccia a faccia con l'assoluto, allora si gela quella grande simpatia che fa sembrare divini uomini come Gesù e Gotamo; la cosa mostruosa non è che gli uomini han tratto rose da questo mucchio di sterco, ma è invece che essi per una qualche ragione, debbano volere le rose.

Per una qualche ragione l'uomo cerca il miracolo e per ottenere questo egli è pronto a guadare un fiume di sangue. Si corromperà con le idee, si ridurrà un'ombra, purché per un secondo soltanto della sua vita possa chiudere gli occhi all'orrore della realtà. Ogni cosa si sopporta: sfacelo, umiliazione, miseria, guerra, delitto, ennui nella fiducia che dalla sera alla mattina accada qualcosa, un miracolo, che ci renda sopportabile la vita.
E intanto dentro di noi gira un contatore e non c’è mano che possa raggiungerlo e fermarlo. Intanto qualcuno mangia il pane della vita e ne beve il vino, un grosso sudicio bacherozzo di prete si nasconde in cantina a gozzovigliare, mentre sopra, nella luce della strada, una moltitudine di fantasmi si sfiora con le labbra e il sangue è pallido come l'acqua.

Ma Victor è morto, e dal tormento interminabile e dalla sciagura non può venir miracolo, nemmeno il più microscopico vestigio di conforto.
Soltanto idee, idee pallide, estenuante, che bisogna ingrassare con la strage; idee che vengono su come la bile, che affiorano come le budella di un maiale quando si subentra la carcassa.
E così io penso che miracolo sarebbe se questo miracolo che l'uomo aspetta in eterno si mostrasse non essere altro che quei due stronzi enormi che il fedele discepolo molla nel bidet. È che, se all'ultimo momento, quando il tavolo del banchetto è imbandito, e sussurrano le arpe, comparisse all'improvviso, del tutto senza preavviso, un vassoio d'argento su cui persino un cieco vedesse che non c’è niente più, niente meno, di enormi pezzi di merda.
Questo io credo sarebbe più miracoloso di ogni e qualsiasi cosa l'uomo abbia mai desiderato.
Sarebbe miracoloso proprio perché nessuno mai avrebbe potuto sognarselo. Sarebbe più miracoloso del sogno più pazzo perché chiunque potrebbe immaginare la possibilità, ma nessuno l'ha mai immaginata, né probabilmente la immaginerà mai.
 
Non so come, la constatazione che non c'era più nulla da sperare ebbe su di me un effetto salutare.
Per settimane, per mesi, per anni, anzi per tutta la vita, io avevo atteso che qualcosa succedesse, un evento intrinseco che alterasse la realtà, e ora all’improvviso, ispirato dall'assoluta disperazione d'ogni cosa, mi sentii vuoto, mi sentii come avessero rovistato dentro di me minatori inesperti e avessero fatto crollare i passaggi della miniera che avevo costruito con cura.

Dopo la sua morte nulla era andato distrutto, se non le mie illusioni di una vita felice. Io ero intatto. Il mondo era intatto. Domani poteva anche esserci la rivoluzione, l'epidemia, il terremoto; domani poteva non restare viva un'anima a cui rivolgersi per compassione, per aiuto, per fede.
A me sembrava che la grande calamità già si fosse manifestata, che io non potevo esser più veramente solo che in quel preciso momento.
Però ci sono giorni in cui io esco dal solito sentiero, quando c'è il sole, e penso a lui con fame. Di tanto in tanto, e nonostante la mia tetra soddisfazione, mi metto a pensare una maniera diversa di vivere, mi metto a pensare se fosse diverso, con una creatura giovane come lui qui al mio fianco.
Il guaio è che a fatica riesco a ricordare che aspetto abbia, né cosa si prova a tenerlo tra le braccia. Tutto ciò che appartiene al passato par che sia caduto in mare; ho dei ricordi, sì, ma par che le immagini abbiano perso la loro vita, futili, come mummie rose dal tempo e sommerse in un pantano.

Se cerco di ricordare la mia vita con lui a San Pietroburgo, raduno soltanto frammenti rotti, spettrali e coperti di verderame. Par quasi che la mia esistenza sia finita, da qualche parte, ma dove non riesco a scoprire esattamente. Che sia andata via con lui?

Non sono più giapponese, né russo, ancora meno Europeo. Non ho più legami, non responsabilità, non pregiudizi, non passioni. Non sono né pro né contro. Sono neutrale.
Prima di Victor non una persona avevo trovato a San Pietroburgo disposta ad ascoltarmi. Ma in sostanza ora non mi era successo nulla di tremendo.

Si può vivere senza amici, come si può vivere senza amore, o anche senza soldi, che tutti reputano un sine qua non. A San Pietroburgo si può vivere – questo avevo scoperto – di dolore e di angoscia. Amaro nutrimento, forse il migliore che ci sia per certe persone. Da allora, ho imparato quel che prima poi ogni pazzo scopre: che per i dannati esistono inferni prefabbricati. Cammini per le strade sapendo che sei un pazzo, un ossesso, perché è fin troppo ovvio che questi volti freddi, indifferenti sono le facce dei tuoi guardiani. Qui svaniscono i confini, e il mondo si rivela per quel folle carnaio che è. La ruota che fanno girare gli schiavi si estende all'infinito.
Non un segnale di uscita, da nessuna parte; nessuna scelta se non la morte. Un vicolo cieco in fondo al quale c’è il patibolo.
Victor mi ha solo anticipato.

Città eterna, San Pietroburgo! Più eterna di Roma, più splendida di Parigi. Ombelico del mondo verso il quale, come un idiota cieco e anfanante, si striscia a quattro zampe. È come un sughero trascinato a finire nel centro morto dell’oceano, qui si galleggia sulla feccia e sulle alghe, sbadato, disperato, ignaro anche di un Colombo che vi passi.
Le culle della civiltà sono le fogne putride del mondo, i volontari a cui uteri fetenti affidano i loro sanguinosi pacchi di carne e ossa.

Così, vagando io senza meta in questo fangoso vialetto spiazzato di sangue, i frammenti del passato si attaccavano e aleggiavano immobili dinanzi ai miei occhi coi peggiori presentimenti.
Vedevo versarsi il mio sangue, macchiare di sé la strada fangosa, indietro fin dove giungeva la memoria, certo agli inizi. Sei buttato nel mondo come una sporca mummietta; le strade son lubriche di sangue e non sai perché deve esser così. Ciascuno avanza per la sua strada, e seppur la terra imputridisce di cose buone, non c’è tempo di raccogliere i frutti; il corteo si precipita verso il cartello d’uscita, e c’è un tale panico, un tale affanno di fuga, che il debole e disarmato vengono calpestati nel fango e nessuno sente le loro grida. Victor nel suo quid era così, debole e disarmato.

Si era estinto il mio mondo di essere umani; ero completamente solo nel mondo, e per amiche avevo le strade, e le strade mi parlavano in quella lingua triste, amara, composta di miseria umana, di desideri, di rimorsi, di fallimenti, di inutile fatica.

Passando sotto il viadotto di Tverskaya, la notte dopo che mi dissero che Victor era malato e faceva la fame, all’improvviso ricordai che qui nello squallore e nella tetraggine di questa strada infossata, forse terrorizzato dal presentimento del futuro, Victor mi si aggrappò e con voce tremante mi implorò di promettergli che non l’avrei mai lasciato, mai, qualunque cosa succedesse. E pochi giorni dopo ero sulla banchina e guardavo il treno andarsene, il treno che lo portava via; lui si sporgeva dal finestrino, allo stesso modo che si sporgeva dalla finestra quando lo lasciai a New York e c’era quel medesimo, triste, inscrutabile sorriso sulle sue labbra, quello sguardo dell’ultimo minuto, che vuol dire tante cose, ma che è solo una maschera contorta da un vacuo sorriso.

Appena pochi giorni prima si era aggrappato a me disperatamente e allora era successo qualcosa, qualcosa che non mi è chiaro nemmeno adesso, e di sua volontà salì in treno e mi guardava ancora con quel sorriso triste, enigmatico, che mi sconcerta, che è ingiusto, innaturale, di cui diffido con tutta la mia anima.

E ora sono io, ritto all’ombra del viadotto, che tendo le mani verso di lui, che disperatamente mi aggrappo a lui e c’è lo stesso inesplicabile sorriso sulle mie labbra, la maschera che ho calato sul mio dolore.

Posso stare qui con questo sorriso vacuo, e per quanto siano fervide le mie preghiere, per quanto disperato il mio desiderio, c’era un oceano fra di noi: là starà egli a fare la fame, e qui io camminerò da una strada all’altra, con le lacrime cocenti che mi bruciano il viso.
Questo genere di crudeltà si incarna nelle strade; è questo che ci fissa dai muri e ci atterrisce quando all’improvviso reagiamo a una innominata paura, quando all’improvviso le nostre anime sono invase da un panico nauseante.

È questo che dà ai lampioni la loro mostruosa torsione, che li fa ammiccare verso di noi e ci adesca verso la loro stretta asfissiante; è questo che fa apparire certe case come custodi di segreti delitti e le finestre cieche come occhiaie vuote di occhi che han visto troppo.

Queste cose, scritte nella fisionomia umana delle strade, mi fanno fuggire quando all’improvviso, sul capo, vedo scritto “Impasse Satan”. Che mi fa rabbrividire quando all’ingresso della moschea noto che sta scritto:
“Lunedì e giovedì tubercolosi, mercoledì e venerdì sifilide”.
A ogni stazione della metropolitana ci sono teschi ghignanti che ti avvisano:
“Defendez-vous contre la syphilis!”.

Ovunque siano muri, là sono lucidi tossici granchi che annunziano l’avvicinarsi del cancro. Dovunque tu vada, qualunque cosa tu tocchi, è cancro e sifilide. Sta scritto in cielo: soffrire per chi è morto.
Ha roso le anime nostre e noi non siamo altro che una cosa morta, come la luna.
   
 
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