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Autore: crazy lion    14/04/2018    3 recensioni
Attenzione! Spoiler per la presenza nella storia di fatti raccontati nel libro di Dianna De La Garza "Falling With Wings: A Mother's Story", non ancora tradotto in italiano.
Mancano diversi mesi alla pubblicazione dell’album “Confident” e Demi dovrebbe concentrarsi per dare il meglio di sé, ma sono altri i pensieri che le riempiono la mente: vuole avere un bambino. Scopre, però, di non poter avere figli. Disperata, sgomenta, prende tempo per accettare la sua infertilità e decidere cosa fare. Mesi dopo, l'amica Selena Gomez le ricorda che ci sono altri modi per avere un figlio. Demi intraprenderà così la difficile e lunga strada dell'adozione, supportata dalla famiglia e in particolare da Andrew, amico d'infanzia. Dopo molto tempo, le cose per lei sembrano andare per il verso giusto. Riuscirà a fare la mamma? Che succederà quando le cose si complicheranno e la vita sarà crudele con lei e con coloro che ama? Demi lotterà o si arrenderà?
Disclaimer: con questo mio scritto, pubblicato senza alcuno scopo di lucro, non intendo dare rappresentazione veritiera del carattere di questa persona, né offenderla in alcun modo. Saranno presenti familiari e amici di Demi. Anche per loro vale questo avviso.
Genere: Drammatico, Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altri, Demi Lovato, Joe Jonas, Nuovo personaggio, Selena Gomez
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Spoiler!, Tematiche delicate
Capitoli:
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Ciao a tutte!
Scusate davvero tantissimo per l'attesa. I problemi a casa continuano e sto talmente male a causa della depressione che faccio perfino fatica a stare al PC; ma vi assicuro che non ho mai abbandonato questa storia, anche se ho avuto dei momenti nei quali l'ispirazione mi lasciava l'ho sempre ritrovata e ho lavorato molto duramente a questo capitolo. E aggiungo che ho già scritto quindici pagine del prossimo. Ho dovuto dividere in due anche questo perché stava diventando una cosa immane, ho tolto qualcosa che non serviva, ho tagliato insomma, ma non moltissimo.
Mi scuso subito per il linguaggio forte che ci sarà in alcune scene, ma era necessario.
Dedico questo capitolo a MaryS5 (cara, ci sarà una sorpresa per te ad un certo punto, vedrai!). Comparirà un nuovo personaggio femminile che ci sarà anche in futuro. Qui si vede poco ma poi di più; e sarà diverso da come appare.
Ringrazio le mie amiche Emmastory, cussolettapink, grethy03 e Alex___ per avermi dato alcuni spunti importanti per scrivere la penultima scena del capitolo.
Cercherò di essere più costante negli aggiornamenti. Odio aggiornare dopo poco più di un mese, ma vista la situazione non vi prometto nulla. In ogni caso non abbandonerò questa fanfiction e non la lascerò ferma per mesi e mesi, la adoro e ci tengo tantissimo.
A presto! I love you all.
crazy lion
 
 
 
 
 
 
93. UNA PIACEVOLE SERATA… ANCHE SE IL PASSATO RITORNA
 
Demi era seduta sul pavimento di camera sua, con la schiena appoggiata al muro. Era riuscita a calmare Mackenzie dopo cinque minuti nei quali la sua povera piccina aveva continuato ad urlare a piangere disperata. Alla fine, stremata, si era addormentata tra le braccia della mamma e non si era più svegliata. Una volta rientrata con le figlie, Demi l'aveva portata in camera e messa a letto. Lei, invece, ora si trovava nella propria stanza con Hope che giocava con due bambole vicino a lei. Le faceva camminare a volte fianco a fianco, altre in fila e si divertiva a cambiare loro i vestiti e a provare a fare ad una la coda, come la mamma e Mackenzie le avevano insegnato.
"Bravissima!" esclamò Demi quando Hope le fece vedere, tutta contenta, che ci era riuscita.
La piccola sorrise e batté le mani.
"Santo cielo" sospirò la ragazza. Era stanchissima. "Hope, so che non hai sonno, ma che ne dici se ci mettiamo un po' a riposare prima di cena? Puoi stare qui con me nel lettone."
Il viso della bambina si aprì in un enorme sorriso: a quale bambino non piace dormire nel letto della mamma, dopotutto?
Il giorno prima Demi aveva comprato del pasticcio di carne in rosticceria e, visto come si sentiva, aveva deciso che avrebbe scaldato quello. Prese il cellulare e scrisse un mesaggio ad Andrew. Aveva installato WhatsApp da alcuni giorni e doveva ancora imparare ad usarlo, quindi era meglio allenarsi.
Ciao, amore. Come va? Non ricordo se ci eravamo messi d'accordo sull'orario, comunque che ne dici di venire verso le 20:00? Ho avuto un pomeriggio un po' movimentato e ho bisogno di distendermi un attimo. Scusami!
La risposta arrivò subito dopo.
Ciao Demi, alla fine anche tu hai deciso di unirti a noi comuni esseri mortali che usiamo WhatsApp, eh? Era ora!
Lei rise.
Hahaha, sei davvero simpatico.
Beh sì, modestamente! Comunque okay, ci vediamo fra un'ora. Ma è successo qualcosa?
Mackenzie ha avuto un pomeriggio difficile e di conseguenza anche io.
I due si scambiarono qualche messaggio in cui Demi gli spiegò la situazione ed Andrew le disse che lui per loro ci sarebbe stato sempre e che non vedeva l'ora di riabbracciarle.
Vi amo! scrisse poi.
Anche noi. Comunque, ti dispiace se stasera mangiamo pasta al forno riscaldata? Vorrei cucinare ma sono troppo stanca, e mi dispiace anche dirtelo perché con gli ospiti non si farebbe così.
Sentiva di essersi comportata da maleducata a scrivergli una cosa del genere e anche perché non aveva la forza di alzarsi, andare in cucina e cucinare qualcosa di semplice come una pasta.
Non farti problemi, tesoro. Le lasagne saranno buonissime, e poi l'importante è stare insieme.
Demi tirò un sospiro di sollievo. Temeva di aver fatto una figuraccia.
 
 
 
Mackenzie si svegliò nel suo letto, sudata e in lacrime. Si alzò in piedi di scatto, tremando, come se non riuscisse più a stare lì. La testa le girò tanto forte che dovette appoggiarsi alla parete per non cadere a terra.
Oh, Dio mio… che è successo? pensò.
Non aveva fatto nessun altro incubo, e le pareva strano aver dimenticato un brutto sogno perché non accadeva mai. Certo, se era stato davvero tremendo la sua memoria poteva averlo cancellato, ma le pareva comunque strano. Cercò di concentrarsi e iniziò a ricordare. Stava dormendo e aveva cominciato a sentire male in un punto, ma ora non rammentava quale. Si portò le mani al viso, toccandosi le cicatrici che l'uomo cattivo le aveva fatto. Scottavano, come le sue guance del resto. Forse era per questo che le facevano male. Si era agitata molto quel pomeriggio e il suo corpo stava reagendo così allo stress psicologico. Da quando faceva ragionamenti del genere?
"Da quando vado da Catherine" si disse, "ma forse anche da prima."
Il fatto di sentirsi così cresciuta nonostante la sua giovanissima età la spaventava un po'. Avrebbe dovuto pensare ad altre cose, essere come gli altri bambini.
Ma io non lo sono. Io sono diversa. Me lo dicono a scuola; e comunque è vero. Ho avuto un passato terribile, non parlo, ho queste dannate cicatrici e non sono bianca.
Forse avrebbe dovuto smettere di stare male per il modo in cui la offendevano, eppure non ce la faceva. Aprì lo zaino e tirò fuori il libro di inglese. Voleva rivedere il brano che aveva letto loro la maestra quel giorno. Era un testo che serviva ad imparare le differenze di suono tra vocali lunghe e brevi. La piccola lo rilesse e, dato che non poteva pronunciare le parole, decise di scriverle più volte così le avrebbe imparate. In questo modo sperava di distrarsi dal dolore che le cicatrici continuavano a farle provare, anche se per fortuna stava diminuendo. Era stanca e non avrebbe voluto lavorare, ma lo faceva per imparare meglio, quindi si ripeté più volte che doveva sforzarsi per se stessa, per essere più brava. Dopo qualche minuto stava ricopiando alcune parole con il suono "at", ovvero:
cat, fat, hat, sat
ovvero
gatto, grasso, cappello, seduto.
Ed ecco che il dolore ricominciò. Ritornò a farsi sentire in modo tanto improvviso che a Mackenzie cadde la penna di mano e la piccola lasciò una striscia blu sulla pagina, fatta nel tentativo di tenere l'oggetto.
"Mmm" si lamentò, anche se quello che le uscì le parve più una sorta di grugnito. "Ce la posso fare," si disse, "riuscirò a dire una semplice parola come "no". Ci ho già provato altre volte e non ci sono riuscita, ma adesso sarà diverso."
Se ce l'aveva appena fatta a produrre quel suono, poteva significare che sarebbe riuscita a parlare! Non oggi, non domani, ma più in là, forse prima di quanto si aspettasse. Una nuova, piccola fiamma di speranza si accese nel suo cuore fino a poco prima avvolto dalle tenebre del dolore e della tristezza. Ora lo percepiva battere in modo differente. Le pareva di essere più viva, di respirare meglio e di sentirsi leggera. Si concentrò, come aveva fatto tante altre volte. Rimase ferma per un tempo che le parve interminabile, poi quando fu pronta aprì la bocca. Urlò con tutto il fiato che aveva in corpo:
"Noooooooooooooooooooooooooooooooooooo!"
Il suo respiro accelerò. Ce l'aveva fatta! Sì, ci era riuscita! Era così felice che si mise a saltare dalla gioia alzando le braccia in aria. Aveva urlato una parola, la sua prima parola dopo quasi due anni! Ma allora perché la mamma non veniva da lei? Perché non correva a vedere cos'era successo? Mackenzie avrebbe voluto abbracciarla e scrivere che era riuscita a pronunciare qualcosa. Aveva gridato fortissimo, era strano che non arrivasse nessuno. A meno che…
Me lo sono solo immaginato. Era in piedi con le braccia in aria, vero, ma la sua bocca era chiusa e, se ne rese conto solo in quel momento, lo era stata sempre. Si era concentrata talmente tanto che il suo cervello aveva pensato di aver urlato, ma dalla sua bocca non era uscito alcun suono. Come quando si pensa di aver detto qualcosa a qualcuno e non è così.
Alcune silenziose lacrime cominciarono a scendere sul suo viso. Aveva fallito per l''ennesima volta. Tirò un calcio alla parete e un pugno sul letto, sperando di sfogare così la sua frustrazione, ma questa rimase lì come intrappolata e incapace di uscire. Poco dopo, mentre ormai con le lacrime che versava avrebbe potuto formare un lago, sentì la mamma e Hope scendere le scale ma non andò da loro. Non voleva. Aveva bisogno di restare sola. Era un fallimento. Tuttavia non voleva pensarci, desiderava solo svuotare per un po' la mente. Forse ne avrebbe parlato con Catherine, ma non era sicura di niente in quel momento. Si buttò a peso morto sul letto e restò lì per un tempo che le parve lunghissimo, chiudendo gli occhi.
Sentì qualcosa che saliva sul suo letto, ma non guardò chi fosse. Forse era Hope, ma non le interessava. Era come quando il papà si era sentito male e lei non aveva avuto nessuna reazione mentre la zia era andata a parlarle. Udì un dolce miagolio e poi percepì quattro zampette salirle sulle gambe e sulla pancia. Danny iniziò a fare le fusa.
Ci sei sempre quando sto male, piccolo mio pensò.
Cominciò ad accarezzarlo e lui fece le fusa e le leccò le mani, poi si mise a pancia all'aria come i cani ed iniziò a giocare con le sue mani tirando fuori gli artigli e muovendoli quando sentiva i movimenti delle sue dita. Le prese un dito con le zampe anteriori e glielo mordicchiò, ma non le fece male. Era cresciuto, aveva quattro mesi ormai e lei e Demi avevano deciso di iniziare a farlo uscire dopo l'inverno. In ogni caso, Danny non aveva nessuna voglia di andare fuori e nemmeno Batman in quel periodo andava fuori, quindi la bambina aveva chiuso la porticina basculante e stava sempre attenta che i due animali non scappassero quando lei, la mamma e Hope uscivano di casa. Danny era sempre più coccolone, soprattutto con lei e la sorella. A volte le seguiva e spesso dormiva con Mackenzie.
La bambina si alzò dal letto quando il gatto scese. Forse aveva sentito un rumore in cucina, perché corse via. Non sembrava spaventato, solo incuriosito. Fu allora che anche la bambina decise che era il momento di andare di sotto. Trovò la mamma in cucina. Stava preparando la tavola e scaldando il cibo.
Vuoi che ti aiuti? chiese.
Demi sussultò: non l'aveva sentita arrivare, ma le sorrise subito.
"Sei molto gentile, Mackenzie, ma no. Ti vedo molto stanca e non voglio che ti sforzi."
Lei stava per ribattere, ma suonò il campanello e decise di non scrivere nulla. Pur sapendo che era papà non seguì la mamma che stava andando ad aprire. Si avvicinò invece a Hope, che giocava tranquilla sul tappeto e le si sedette accanto. Le due bambine si sorrisero e Mackenzie prese una mano della sorellina, poi gliela lasciò e la abbracciò. Le voleva un bene infinito e, anche se non poteva dirglielo, desiderava dimostrarglielo dandole affetto e giocando con lei. Hope tirò un urletto, sorpresa da quel gesto, ma poi strinse a sé Mackenzie con tutta la forza che aveva.
"Bene" le disse e l'altra capì.
Non vedeva l'ora che arrivasse il giorno in cui Hope sarebbe riuscita a dire quei tre meravigliosi lemmi, ma era piccola ed era ancora presto.
Anch'io ti voglio bene, pulcino.
"Pulcino" era il modo in cui la loro vera mamma aveva chiamato, a volte, sia lei che Hope. Mackenzie se ne ricordò solo in quel momento. O forse l'aveva sempre saputo e aveva preferito provare a dimenticare quella parola, chiudendola in un angolo remoto della sua mente, per non stare ancora più male. Ora, però, le era venuto spontaneo pensarla nei confronti della sorellina e si ripromise che l'avrebbe fatto spesso e che, quando Hope sarebbe stata abbastanza grande da capire che erano state adottate e che i loro genitori naturali non c'erano più, le avrebbe raccontato anche quel piccolo ma importante particolare.
Nonostante si fossero visti il giorno prima, Andrew e Demi si abbracciarono  con la stessa passione con cui lo facevano ogni volta.
"Che bei fiori hai portato!" esclamò la ragazza notando solo in quel momento il vaso che il fidanzato aveva appoggiato per terra per poterla stringere.
"Sono per i miei amori, per questo ne ho presi tre."
"Ti ringrazio. Non dovevi."
"Oh, sì! Non vengo qui da tanto e portarvi un regalo mi sembrava il minimo. Avrei voluto prendere qualche giocattolo per le bambine, ma i negozi sono chiusi a quest'ora e ho lavorato tutto il giorno."
"Non preoccuparti. Per noi il fatto che tu sia qui è già un grande regalo, ci rende felici!"
Mackenzie sorrise, come per enfatizzare ciò che la mamma aveva appena detto.
I fiori che Andrew aveva portato erano rose rosse, profumatissime. Piacquero molto anche alla bambina più grande, che tuttavia non prestò molta attenzione a quello, ma saltò al collo del padre. Non lo vedeva da tanto tempo e le era mancato. Nonostante non avesse passato un bel pomeriggio, ora era felice che lui fosse lì.
"Mi sei mancata anche tu, tesoro!"
Non le chiese come stava, dato che sapeva già ogni cosa e lei gliene fu grata.
Jack e Chloe?
"Stanno bene, grazie. Uno di questi giorni andremo a vederli, te lo prometto."
Lei gli sorrise e si sentì così bene! Per un momento dimenticò tutte le brutte cose che aveva vissuto quel giorno.
"Mac, mi aiuteresti a mettere i fiori in un vaso?" le propose la mamma.
Lei accettò. Portò le rose in cucina, poi la mamma andò a prendere un vaso che teneva in taverna e fece mettere a lei l'acqua.
Sono stata brava? le chiese la bimba.
"Sì, moltissimo!"
Mackenzie era stata così delicata nel prendere quei fiori, che il suo tocco era parso a Demi più una carezza che altro. In giardino aveva fiori e qualche pianta. Decise che avrebbe chiesto alla bambina di aiutarla a prendersene cura ogni tanto.
 
 
 
Rimasto in salotto con Hope, Andrew si accorse che la bambina rimaneva immobile sul tappeto e non lo guardava.
"Hope!" la chiamò, per attirare la sua attenzione. Non accadde nulla. "Hope, tesoro?"
Si avvicinò un po' a lei e la bambina si ritrasse, spingendosi verso il divano aiutandosi anche con le braccia. Fu allora che Andrew capì: non lo riconosceva. In effetti, il suo aspetto non era dei migliori. Lo sapeva perché si era guardato allo specchio più volte, quel giorno. Era pallido, aveva le occhiaie nonostante fosse riuscito a dormire, si sentiva ancora un po' intontito e questo, sicuramente, contribuiva a farlo apparire strano; e poi anche se si era pettinato i capelli questi non ne volevano sapere di stare in ordine, e da stupido non si faceva la barba da qualche giorno. Fisicamente non era la stessa persona, che cercava di essere sempre sorridente e allegra, che Hope era abituata a vedere. La piccola, infatti, aveva un po' paura di lui. Sapeva che le ricordava qualcuno, ma non chi e vederlo così la spaventava un po'. Aveva fatto finta di non sentirlo, ma poi quando si era avvicinato era riuscita solo ad allontanarsi. Tuttavia, non aveva così paura da correre dalla mamma.
Demi attraversò il salotto a grandi falcate e non prestò molta attenzione ai due.
Andrew rimase a distanza, ma si chinò all'altezza della bambina.
"Sono papà, Hope. Guardami. Sono il tuo papà, okay?" ripeté, quando lei alzò lo sguardo. "E non voglio farti male. Vorrei solo coccolarti, darti un bacio, giocare con te. Oggi sono un po' disordinato, ma sono sempre io."
Aveva cercato di spiegarsi nel modo più semplice possibile, anche se temeva che per la bambina fosse stato troppo complicato e che avrebbe dovuto utilizzare parole diverse. Stava per riaprire bocca, quando Hope gli corse incontro e gli si gettò letteralmente addosso, avvinghiandoglisi al collo.
Lui la prese fra le braccia e si tirò su.
"Papà, papà, papà!" esclamò, felice, ma subito dopo lo guardò dispiaciuta.
Se avesse saputo come si faceva gli avrebbe chiesto scusa, ma non ricordava la parola.
"Va tutto bene, piccina. Non sono arrabbiato."
Se la strinse al cuore e  la coccolò, mentre Hope sorrideva apertamente.
 
 
 
"È pronto!"
La voce di Demi li riscosse.
"Arriviamo" disse Andrew avviandosi in cucina.
La cena venne consumata in silenzio. Mackenzie non aveva nulla da dire, Andrew e Demi non sapevano di cosa parlare per farla distrarre e si davano mentalmente degli idioti per questo, e Hope li guardava perplessa come faceva sempre quando non capiva ciò che stava accadendo.
"Che gioco facciamo?" chiese Andrew alla fine del pasto, cercando di ravvivare l'atmosfera.
Mackenzie non aveva voglia di fare nulla. Si sentiva abbastanza bene, ma era stanca.
"Disegno!" urlò sua sorella.
Beh, in effetti disegnare non era una cattiva idea.
Poco dopo erano tutti seduti attorno al tavolo del salotto. Ognuno aveva un foglio e, al centro, c'era una scatola di pennarelli. Le due bambine ne presero alcuni e cominciarono subito le loro opere, mentre i genitori rimasero a guardare quelle manine che si muovevano con leggerezza sui fogli come se avessero sempre disegnato.
"Noi che facciamo?" chiese Demi. "Non ho più disegnato da quando avevo dieci anni circa."
"Dimentichi le lezioni di arte alle medie e quelle di disegno tecnico al liceo."
"Oh, no" si lamentò.
L'uomo rise alla risposta.
Dianna aveva voluto che la figlia frequentasse quei corsi, anche se Demi si era opposta con fermezza, purtroppo senza alcun risultato. Arte le era sempre piaciuta e adorava storia dell'arte, ma odiava il disegno tecnico. Secondo lei non serviva a niente! In quel periodo Andrew le aveva raccontato che anche a lui, anni prima, era toccata la stessa sorte.
"Faceva schifo anche a me, lo sai. Ora, però, non dobbiamo rispettare nessuna consegna. Possiamo disegnare quello che ci va."
"D'accordo, allora facciamo qualcosa assieme."
"Come il mosaico che abbiamo fatto anni fa?"
"Esatto."
Quale mosaico?
Mackenzie si fermò di colpo. Sembrava concentratissima sul suo lavoro, ma in realtà stava anche ascoltando la conversazione. Sapeva cos'era un mosaico, ma era incuriosita dal fatto che i suoi ne avessero fatto uno assieme.
Demi rimase in silenzio per un momento, poi guardò il fidanzato come per chiedergli:
"Glielo dico?"
Lui fece cenno di sì.
"Quando avevo dodici anni e stavo male," iniziò sospirando, "mi sentivo inutile e la mia autostima era andata a farsi fott…"
"Demetria Devonne!" la rimbeccò il suo ragazzo.
Mackenzie scoppiò a ridere, ma si bloccò subito quando la mamma riprese a parlare.
"Ehm, dicevo che avevo una bassissima autostima. Vostro papà insisteva sul fatto che per stare meglio avrei dovuto fare piccole cose, come aiutare in casa per esempio e che questo mi sarebbe servito a sentirmi utile per qualcosa e a qualcuno. Io davo già una mano alla nonna in tutto quello che potevo e gli ho chiesto di fare qualcosa che fosse solo nostro."
"E quindi io, che sono un genio" proseguì lui, ma la ragazza gli tirò una gomitata. "Ahia."
"Cretino."
Scoppiarono a ridere entrambi.
"Comunque, ho trovato qualcosa da fare che secondo me era piuttosto originale. Ho comprato delle pietre, una colla particolare ed io e la mamma abbiamo fatto un mosaico. Demi, ce l'hai ancora?"
"Ma certo. Arrivo subito."
Intanto Mackenzie non continuava a sorridere. Aveva capito che i genitori stavano scherzando e non si era spaventata quando la mamma aveva dato quella gomitata al papà. Non si sentiva affatto come la volta in cui mamma aveva dato uno schiaffo a zia Selena. Non aveva paura, anzi era felice perché sapeva che i suoi si amavano.
"Eccolo qui."
Demi sorreggeva un vassoio di legno dal bordo alto alcuni centimetri. Dentro c'era un mosaico composto da molte pietre, alcune quadrate e fine e altre tonde e grosse. Era semplice e non raffigurava nulla di particolare, ma proprio per questo ancora più bello.
È stupendo commentò Mac.
Volle toccarlo e le piacque molto sentire le differenze tra le pietre. Sembravano pianure intervallate da piccole colline. Sì, era così che se lo immaginava, anche se quel mosaico non raffigurava un paesaggio.
Si misero tutti a disegnare. Lavorarono in silenzio per alcuni minuti. Gli unici rumori che si udivano erano quelli dei pennarelli sulla carta e di Batman e Danny che giocavano. Da pochi giorni avevano iniziato a corrersi dietro. Il gatto attaccava il cane tirando appena fuori gli artigli per non fargli male e l'altro lo mordicchiava , poi combattevano ritrovandosi l'uno sopra l'altro. Era molto bello vederli. Davano allegria. Quando tutti ebbero terminato misero i disegni l'uno vicino all'altro e li osservarono.
"Noi" disse Hope.
Aveva disegnato i genitori, lei, Mackenzie, il cane e il gatto. Certo erano schizzi imprecisi, sbavati, ma strapparono comunque un sorriso a tutti. Mackenzie aveva invece raffigurato un paesaggio con una pianura e delle colline verdeggianti attorno. Aveva preso come spunto ciò che si era immaginata fosse il mosaico e poi si era lasciata prendere la mano dalla fantasia e dalla creatività. Demi ed Andrew avevano invece disegnato loro due con le mani intrecciate. Appesero quei bellissimi ritratti ad una parete del salotto sperando, però, che Danny non li avrebbe tirati giù.
Hope voleva giocare.
Non mi va, non adesso scrisse Mackenzie e sospirò, sperando che i genitori non l'avessero sentita.
"Ti senti di nuovo male?"
Ecco, la mamma mi ha beccata pensò.
Fece cenno di no e i genitori la guardarono interrogativi, così la bambina continuò dicendo:
Vorrei chiederti una cosa, papà, ma mi vergogno tantissimo. Desidererei che mi facessi un favore, ma… oh, cazzo! Arrossì per l'imbarazzo. Vi prego, ditemi che non ho scritto quella parola!
"L'hai fatto, ma non importa" la rassicurò Andrew, che come Demi aveva già letto. "Mac io farei qualsiasi cosa per te, davvero, quindi dimmi pure quel che ti serve, tranquilla."
Ho bisogno di farmi il bagno per rilassarmi; e mi piacerebbe fossi tu a lavarmi, papà. Quando ero piccola era il mio padre naturale a farlo e mi piacerebbe sentire ancora una volta quel tocco dolce che aveva lui. Non sto cercando di sostituirlo, non lo farei mai anche perché sarebbe scorretto e impossibile, vorrei solo provare ancora quella sensazione di calore e protezione e sono sicura che tu me la potrai dare. Quando sto con te la sento già, ma non abbiamo mai fatto questa cosa e io sarei felice se insieme…
Non riuscì a completare il discorso. Sudava e le tremavano le mani.
"Ho capito, piccola" si affrettò a rassicurarla lui. "Lo facciamo tra un po', va bene?"
Mackenzie annuì. Voleva coccole e attenzione da lui e le pareva che farsi lavare e asciugare, come quando era più piccola, fosse un modo per trovare quel contatto che tanto anelava.
Attesero cinque minuti nei quali rimasero seduti sul divano e poi Andrew disse che andava a preparare l'acqua per il bagno. Salì al piano di sopra senza chiedere il permesso - tanto ormai considerava quella come la sua seconda casa -, accese la piccola stufa elettrica per riscaldare l'ambiente, aspettò che l'acqua della vasca diventasse calda e poi cominciò a riempirla. Mackenzie lo raggiunse poco dopo. Le sue gote si dipinsero di un lieve rossore quando si ricordò - cavolo, avrebbe dovuto pensarci prima! - che stava per spogliarsi di fronte ad un uomo. Con il suo vero papà l'aveva sempre fatto senza problemi, con Andrew provava un lieve imbarazzo.
"Mi giro e chiudo gli occhi, promesso" disse lui, capendola al volo.
La bambina annuì.
Gli sorrise grata e rimase sbalordita dal modo in cui lui quel giorno riusciva a comprenderla. Quando si fu spogliata ed ebbe accuratamente ripiegato i vestiti appoggiandoli sul lavandino, come la mamma le aveva insegnato, Mackenzie scoprì di non vergognarsi poi più di tanto. Non provava imbarazzo ed era tranquilla. Toccò Andrew per fargli capire che avrebbe potuto girarsi. Lui lo fece, lentamente.
"Entra piano in acqua, attenta a non scivolare" la ammonì.
Lei lo fece e quando le sue gambe furono immerse fino ai polpacci si sedette, facendo sempre attenzione. Sospirò iniziando a rilassarsi. Alzò una mano e lui fece altrettanto, così la piccola poté stringergliela per ringraziarlo.
"Vuoi che resti con te, o preferisci rimanere un po' da sola?" le chiese.
Non avrebbe mai voluto farle pressione con la sua presenza.
Lei gli fece cenno di andare.
"D'accordo. Torno dopo per lavarti, okay?"
Mac gli sorrise di nuovo: aveva bisogno di restare un po' sola con i suoi pensieri, di godersi il calore dell'ambiente e dell'acqua. Quando suo papà uscì e chiuse la porta, lei si appoggiò al bordo della vasca e rilassò i muscoli. Mise le mani a coppa e raccolse un po' d'acqua per farla ricadere prima su una spalla e poi sull'altra, mentre sentiva che i suoi muscoli iniziavano a rilassarsi e il mal di testa diminuiva a poco a poco. Era una sensazione meravigliosa, pensò, e prima 'dallora non se n'era mai resa conto davvero. Dopo un po' si tirò su, prese una spugna e aprì la bottiglia del bagno schiuma, iniziando a insaponarsi il corpo; ma il momento più bello, per lei, fu quello in cui Andrew tornò per risciacquarla e lavarle i capelli. Aveva un tocco così gentile, che l'acqua contribuiva a rendere ancora più dolce. In tutto quel tempo Mackenzie non aveva pensato a niente, né di bello né di brutto e aveva quasi dimenticato quanto successo nel pomeriggio. Quando si rivestì e il papà, dopo un po', le asciugò i capelli ricci, Mackenzie si disse:
"Mi sento in pace."
Quel bagno non aveva fatto bene solo al suo corpo, era come se avesse rigenerato anche il suo spirito dandogli nuova forza. La piccola si chiedeva solo per quanto tutto ciò sarebbe durato, ma si impose di non pensarci.
Grazie scrisse infine.
"Solo per questo? Tesoro, non ho fatto niente."
Hai fatto tanto, invece. Mi hai aiutata a sentirmi meglio.
Non aggiunse altro e Andrew non comprese bene il senso di quelle parole, ma la vide rilassata. I suoi lineamenti erano distesi, non più tirati come prima e ciò gli fece un immenso piacere.
 
 
 
Demi era sul divano, con una coperta sulle gambe e una tazza di latte fumante in mano. Berlo la aiutava sempre a distendere i nervi, che in quel pomeriggio erano stati messi a dura prova visto quanto era accaduto. Tra un sorso e l'altro prendeva dei respiri profondi.
"Mamma!" si lamentava Hope.
Si stava annoiando. Avrebbe voluto giocare con il papà e la sorellina, ma loro non c'erano. Cercò di spiegarlo a Demi. Nonostante la bimba gliel'avesse già ripetuto almeno una decina di volte, le rispose sempre paziente:
"Lo so, ora tornano. Vieni qui." La prese in braccio e la baciò. "Tu e Mackenzie siete i miei piccoli tesori, lo sai?"
Lei a la figlia si guardarono per un lungo momento, poi Demi le propose di giocare visto che Andrew e Mac non si vedevano. Hope portò alla madre alcuni peluche.
"Sono miei amici" disse.
"Davvero?"
Erano un topolino bianco e un agnellino.
"Li saluti?" le domandò, saltellando.
"Ciao! Come si chiamano?"
Hope glieli diede in mano e poi rispose:
"Lui Bob" e indicò il cerbiatto "e quetto Luke."
"Sono dei nomi bellissimi. Voi fate tanti giochi insieme, eh?"
"Sì."
La piccola le portò  altri animali e riuscì a ripeterne i nomi, anche se erano complicati per la sua età, come "rinoceronte, elefante, "ippopotamo".
Demi applaudì e Hope fu contentissima.
In quel momento Andrew e Mackenzie scesero le scale e si accomodarono sul divano accanto a loro. Rimasero tutti a guardarsi, in silenzio, per qualche istante. Era così bello restare lì insieme, senza dire nulla. Non avevano bisogno di fare chissà cosa per sentirsi bene: l'importante era restare uniti. Mentre guardava gli amori della sua vita, Andrew pensò che non avrebbe voluto essere in nessun altro luogo al mondo se non lì con loro.
Mamma, guardiamo un film? chiese Mackenzie.
Non aveva voglia di giocare, era ancora stanca e preferiva rilassarsi davanti alla tv.
"Va bene. Vediamo cosa fanno."
Demetria prese il telecomando e lo passò alla bambina.
Questo! esclamò, raggiante.
Guardava spesso quella serie tv, ma ormai era finita, stavano infatti trasmettendo la sigla.
"Se solo non mi fossi fatta il bagno" si disse la bambina, un po' delusa.
Adorava "Xena - Principessa guerriera" e la mamma glielo lasciava vedere, nonostante a volte ci fossero scene un po' violente. In effetti, però, per Hope non sarebbe stato il massimo. Avrebbe potuto spaventarsi. Di solito giocava mentre lei guardava quel programma, ma adesso era in braccio alla mamma e fissava lo schermo.
Prendo un DVD decise infine la piccola. Avete qualche preferenza?
"No, tesoro. Scegli quello che vuoi!" la esortò il padre.
"I-io… Frozen."
Hope, con la sua vocina delicata, era riuscita a sussurrare quella parola e Mackenzie se ne accorse. Avevano già visto quel cartone, ma per la sorellina avrebbe fatto qualsiasi cosa quindi decise di accontentarla. A lei non piaceva molto perché era quasi tutto cantato, ma se lo sarebbe fatto andar bene. Hope guardò concentratissima il cartone, non dicendo mai nulla. Chissà cosa pensava. Mackenzie intanto sorrideva pensando che, nonostante tutto, il fatto che una delle due protagoniste, Elsa, abbia il potere di sprigionare getti d'acqua che si trasformano in ghiaccio e che spesso fanno male alle persone - motivo per cui da piccola era stata rinchiusa in una torre dai genitori -, tra le quali sua sorella Anna, il legame tra le due rimane sempre molto forte. Le due ragazze, dopo alterne vicende, si riuniscono ed Elsa inizia ad utilizzare i propri poteri per il bene comune. Mac sperò che anche lei e Hope sarebbero rimaste così unite nel corso della loro vita e che ci sarebbero sempre state l'una per l'altra.
"Io non lascerò mai Hope, qualsiasi cosa accada mi auguro che resteremo sempre unite e ci vorremo bene" si disse.
Pregò Dio perché fosse così.
La canzone che le piacque di più fu "Let It Go". Elsa la canta quando si ritira su una montagna e sprigiona i propri poteri con tutta la forza che ha, creando un castello di ghiaccio e un inverno perenne. La bambina sapeva che anche sua mamma aveva cantato quella canzone perché Demi gliel'aveva fatta sentire sia suonandola al pianoforte sia al computer. Benché credesse che la voce di sua madre fosse la più bella del mondo e che la sua versione fosse migliore di quella del cartone, dovette ammettere che la ragazza che l'aveva cantata era molto intonata. Rimase incantata quando fu proprio Demi ad iniziare a cantare e la sua voce sovrastò quella della tv.
"Let it go, let it go
Can’t hold you back anymore
Let it go, let it go
Turn my back and slam the door
 
The snow blows white on the mountain tonight
Not a footprint to be seen
A kingdom of isolation and it looks like I’m the queen
The wind is howling like the swirling storm inside
Couldn’t keep it in
Heaven knows I try
Don’t let them in, don’t let them see
Be the good girl you always had to be
Conceal, don’t feel, don’t let them know
Well now they know
 
Let it go, let it go
Can’t hold you back anymore
Let it go, let it go,
Turn my back and slam the door
And here I stand
And here I’ll stay
Let it go, let it go
The cold never bothered me anyway
 
It’s funny how some distance makes everything seem small
And the fears that once controlled me can’t get to me at all
Up here in the cold thin air I finally can breathe
I know I left a life behind but I’m too relieved to grieve
[…]"
Fu solo quando la canzone terminò che Demi si rese conto che aveva cantato la sua versione, un po' diversa da quella del film. Ormai era fatta. Hope non se n'era nemmeno accorta, ma sperava che Mac non ci fosse rimasta male.
Sei bravissima, mamma.
Demetria sentì il cuore scaldarsi. I complimenti di sua figlia erano i più belli, l'aveva già pensato e l'avrebbe fatto sempre.
"Grazie, piccola. Avrei dovuto cantarla uguale al film. Ti assicuro che so quella versione e poi non è molto differente dalla mia, ma sono così abituata a quella che ho messo in rete anni fa che…"
Non importa. Anzi, meglio! La tua è molto più bella e lo dico perché ci credo.
"Come mai ti piace così tanto?" le chiese il papà.
Lei ha una voce meravigliosa; e poi nella sua versione la batteria e gli altri strumenti vanno in un continuo crescendo. Certo, succede anche nel cartone, ma solo sentendo quella di mamma mi viene voglia di ballare.
Avrebbe voluto aggiungere e di cantare, ma non lo fece. Avrebbe solo rattristato i suoi.
"Vi devo far vedere una cosa!" esclamò Demi quando "Frozen" terminò.
Le due bambine erano ancora belle sveglie. Forse non avrebbero voluto guardare qualcos'altro, ma la ragazza mise comunque su il DVD.
"Questo lo vediamo un'altra volta, ma fate caso alle immagini iniziali."
Lei ed Andrew si scambiarono uno sguardo d'intesa.
"È "Camp Rock"?" le chiese parlandole all'orecchio.
"Proprio così, mio cavaliere" gli rispose.
Lui sorrise sentendo quell'appellativo.
Mackenzie e Hope corsero verso la tv e misero le mani sullo schermo. Demi non l'avrebbe permesso in un'altra situazione, ma visto che sapeva il perché della loro reazione chiuse un occhio.
"Mamma?" domandò Hope, puntando su di lei i suoi occhi sbarrati e mettendo un dito sulla ragazza che era appena comparsa in televisione e che stava iniziando a cantare.
Mamma, sei proprio tu questa?
Anche Mackenzie era sorpresa.
"Sì bambine, sono proprio io, anche se ero più giovane."
"Molto più giovane" puntualizzò il suo fidanzato. "Ora infatti è vecchia."
Mackenzie si mise a ridere ed Andrew ricevette una cuscinata in faccia da Demi.
"E tu sei decrepito."
"Oh, sentila! Ho solo sei anni più di te."
"Sei comunque anziano."
"Se non sapessi che stai scherzando mi offenderei. Comunque anche tu tra un po' lo sarai, sai? Non rimarrai giovane in eterno."
"Stupido."
"Idiota."
"Non quando ci sono le bambine, accidenti!" esclamò lei, alzando un po' la voce anche se non era arrabbiata.
"Hai cominciato tu con le parolacce, cara."
Continuarono a battibeccare per un po' mentre Mackenzie si rotolava per terra dalle risate e Hope con lei, anche se non aveva capito molto bene.
"Comunque," riprese Demi, "sono stata un'attrice. Da anni ho preferito concentrarmi sulla musica."
Si disse che era più saggio non raccontare altro, che era meglio non dire che quando lavorava a "Barney and Friends" si sentiva sempre guardata e giudicata e che stare tutto il giorno in quegli studi a volte la faceva innervosire. Avrebbe tanto voluto uscire, giocare e correre come gli altri bambini, e invece era stato anche a causa di questo che aveva iniziato ad osservare il suo corpo e a vedere che qualcosa non andava e che non era perfetta come i media la dipingevano. Allora aveva solo sette anni. Le era piaciuto fare quell'esperienza, ma in parte era anche stato traumatico per lei. Sospirò.
"Scusate un attimo" mormorò. "Esco solo un secondo."
"Tutto okay?"
Andrew non capiva il perché di quel repentino cambio di atteggiamento.
"Credo di sì."
Si alzò, aprì la porta e se la richiuse alle spalle.
"Oh, Dio" si lamentò, frustrata, sedendosi sull'erba.
Si sentivano macchine in lontananza, ma per fortuna il traffico non pareva essere molto intenso. Soffiava un vento fresco che le provocava brividi lungo tutto il corpo, ma non aveva voglia di rientrare a prendere un cappotto o una felpa. Desiderava solo rimanere lì, al buio e in silenzio.
Non ce la faccio. Non riesco a dimenticare le cose brutte anche se sto vivendo dei bei momenti. A volte ci riesco, altre no. Un po' come Andrew e Mackenzie, solo che io sto meglio di loro.
In quel momento un altro ricordo, forse ancora più terribile, la scosse.
 
 
Demi di solito dormiva in aereo. Volare era così rilassante! Si appoggiava allo schienale e cadeva in un sonno tranquillo e, stranamente, privo di incubi. Quel volo, però, era diverso. Avrebbe dovuto allontanarsi dalla famiglia e dai suoi altri affetti per… per quanto? Settimane? Mesi? Chi poteva dirlo?
"Signore e signori, tra poco atterreremo all'aeroporto Midway di Chicago. Restate seduti e tenete le cinture allacciate. Spero che vi sia piaciuto volare con noi" disse una voce all'altoparlante.
Demi si svegliò di soprassalto sentendo quella comunicazione.
"Sì, certo, è stato uno spasso" commentò ironica.
"Tesoro, ti prego!" esclamò Dianna, seduta accanto a lei. "Lo so che è dura…"
"No." Quell'unica parola, pronunciata con veemenza e decisione, fece ammutolire la donna. "Tu non sai, nessuno di voi sa" continuò la ragazza, puntando il dito contro la mamma, Eddie e Andrew. "Potete cercare di immaginarlo, ma non capirete mai."
"Demi, porca puttana!" esclamò sua madre, battendo una mano sul sedile. "Ti vuoi rendere conto o no che non sei l'unica a soffrire in questa famiglia?"
"Okay, adesso basta!" Eddie prese il controllo. Non voleva che le due si mettessero a litigare. Molte persone le stavano già guardando e, soprattutto, la situazione era già abbastanza delicata. "Calmatevi. Dianna, avresti potuto andarci più piano; e Demi, quello che la mamma vuole dire è che tutti stiamo soffrendo, ma non è colpa tua. Hai un problema ma non te ne devi vergognare e starai meglio."
"Eddie ha ragione, Demi." Andrew, seduto dietro di lei, le appoggiò una mano sulla spalla per rassicurarla. "Sei forte, puoi farcela."
"Se lo dite voi…" rispose, poco convinta.
Avrebbe voluto crederci, ma non ci riusciva.
"Scusa, piccola mia. Sono molto nervosa ultimamente e non è giusto che io scarichi questo su di te" sussurrò Dianna, dispiaciuta.
"Non importa, mamma. Davvero, è tutto okay."
Tanto lo so che è colpa mia se tutti voi state così pensò con amarezza.
Le due donne si scambiarono un debole, ma sincero sorriso e poi si abbracciarono.
"Ho paura" confessò Demetria.
"Lo so amore, ma non sei sola. Siamo tutti con te."
Una volta atterrati, tutti i passeggeri scesero e aspettarono i propri bagagli. Quelli di Demi furono tra i primi ad arrivare, quindi i quattro poterono uscire dall'aeroporto abbastanza in fretta. Fuori, un taxi che Eddie aveva chiamato li aspettava. Durante il tragitto il tassista si rivolse a loro.
"Se posso chiedere, cosa vi ha portati qui a Chicago? Una vacanza?"
L'uomo aveva un forte accento straniero, ma Demi non riuscì a capire da dove provenisse, anche se intuì che fosse dei paesi dell'est. Lo guardò per un attimo, quando lui si rivolse a loro. Aveva gli occhi azzurri, i capelli corti e biondi e un sorriso bellissimo ed era sulla quarantina.
Gli rivolse un sorriso triste.
"Purtroppo no. Ragioni… personali. Ho dei problemi di salute. Per questo vado alla Timberline Knolls."
"Oh." L'uomo si interruppe. Probabilmente non sapeva cosa rispondere. "Mi dispiace. Spero si riprenderà presto."
"La ringrazio."
"Io sono venuto qui dalla Romania alcuni anni fa. Avevo perso il lavoro e avevo bisogno di soldi per mantenere mia moglie e i miei cinque figli. Poco tempo fa sono riuscito a farli venire qui, finalmente!" esclamò, sorridendo felice.
"Lei dev'essere un padre fantastico" disse Eddie.
"Ci provo, faccio del mio meglio. Non è stato facile, sa, allontanarsi da loro, trovare un'occupazione… È stata dura; e poi ho dovuto imparare la lingua e conoscere una nuova cultura."
"È stato coraggioso" aggiunse Demetria.
"Ho fatto quello che dovevo. Per la famiglia si fa di tutto. Se lei un giorno sarà madre, signorina, lo capirà. Quando si diventa genitori ci si rende conto di tante di quelle cose!"
"Parole sagge" aggiunse Dianna.
 
 
Demi non volle ricordare quello che era successo dopo: l'arrivo in clinica, l'addio ai genitori e ad Andrew. O meglio l'arrivederci, anche se sembrava più un addio. Faceva troppo male. Erano arrivati dopo quarantacinque interminabili minuti di viaggio. La Timberline Knolls si trovava appena fuori Chicago ed era circondata dal verde. C'era anche un bosco, lì vicino. Prima di andarci aveva dovuto essere ammessa, fare dei colloqui telefonici con il Direttore e anche la sua famiglia ci aveva parlato e poi le era andata lì. Rammentò che, quando la mamma aveva suonato il campanello, lei aveva guardato in alto sopra la cancellata e aveva visto un cartello con scritto in grande:
Timberline Knolls Residential Treatment Center
e si era sentita morire dentro, mentre sudori freddi e brividi le correvano lungo tutto il corpo. Temeva di non farcela e di stare per venir meno.
Quando la porta si era chiusa e lei era rimasta lì, sola, si era sentita mancare ancora di pi ù le forze.
"Mamma, Eddie, Andrew… oh, no! No!" aveva gridato, disperata.
"Demi, non si urla qui" le aveva detto l'infermiera che, poco prima, aveva controllato le sue valigie e poi lei stessa per toglierle il cellulare e altri oggetti.
"Mi scusi" aveva risposto, cercando di darsi un contegno.
"Non importa. Vieni, ti mostro la tua stanza."
Fu così che si immerse ancora un po' nei ricordi.
 
 
Seduta in quella piccola camera dalle pareti bianche e spoglie, non aveva niente con lei. Le era stato tolto tutto, qualsiasi cosa con la quale potesse farsi del male e anche il cellulare e il computer portatile. Gliel'avrebbero dato al momento opportuno e solo in orari prestabiliti, così era stato deciso dalla famiglia e dai terapeuti e tutti lì dentro subivano lo stesso trattamento. Quando chiese ad un'altra infermiera il perché di quella scelta, lei rispose:
"Tesoro, devi concentrarti sulle cure e pensare a guarire, ora."
Demi riteneva una cattiveria bella e buona non avere con sé il telefonino. Solo dopo avrebbe capito che i dottori e gli infermieri volevano aiutarli e proteggerli e che, se non lasciavano usare a lei e a tutti gli altri il cellulare, era perché temevano che qualcuno potesse filmare qualcosa di quel che accadeva lì dentro. Più di ogni altra cosa, però, era terrorizzata dal fatto che avrebbe dovuto rimanere lì per parecchio tempo, ancora non sapeva quanto, e che la sua famiglia sarebbe venuta a trovarla solo nei weekend.
"Tra un po' avrai una compagna di stanza" le disse la donna. "La ragazza che stava con lei è andata via. Vedrai una psicologa, una psichiatra, una nutrizionista e una dietologa più volte a settimana, e poi queste si consulteranno nel weekend per capire com'è la situazione. Faremo anche delle attività di gruppo dove voi ragazze parlerete delle vostre esperienze e vi confronterete e farete anche delle attività ricreative."
"Una psichiatra? Un momento, io non sono pazza."
"Nessuno ha detto questo. È necessario che tu ci vada, Demi. Dobbiamo capire come stai."
"Okay, volete saperlo? Sto di merda" sbottò.
"Va bene, allora lo dirai quando te lo chiederanno, domani."
"Ma la mia famiglia, non posso vederla così poche volte, dannazione!" ribatté la ragazza. "Cazzo, io ho bisogno dell'affetto di coloro che amo."
Avrebbe voluto piangere, ma stava facendo sforzi sovrumani per trattenersi e ricacciare indietro le lacrime.
La donna sospirò. Tutte le ragazze erano così, quando arrivavano: piene di dolore, tristezza, paura, rabbia che facevano fatica a controllare e che buttavano fuori con parolacce o atti violenti.
"Mi dispiace, ma queste sono le regole e valgono per tutti" le rispose con tutta la dolcezza possibile, poi la salutò e passò ad altre stanze.
I suoi se n'erano appena andati e le mancavano già terribilmente; ed Andrew oh, cielo, quanto avrebbe voluto un suo abbraccio, sì, proprio da lui che l'aveva sempre capita meglio di chiunque altro al mondo! Fuori era buio da un po' e Demetria si sentì male al pensiero che non ci fosse più il sole. Guardarlo le dava speranza e non vederlo, ora, le faceva provare un senso di desolazione e disperazione assoluta.
Forse non c'è più speranza per me. Probabilmente la mia vita è fottuta. Sono autolesionista, anoressica e bulimica e mi sono rovinata la vita da sola. Fai proprio schifo, Demetria Devonne.
Ultimamente, pensò, era stata l'anoressia a prendere il sopravvento. Da settimane ormai mangiava sempre meno, non faceva più di due pasti in quei dannati sette giorni. Per il resto, mangiava qualcosa a forza, di solito costretta dai genitori. Dall'interruzione del tour, tutto era andato sempre peggio e la sua vita stava cadendo a pezzi. Aveva mandato tutto a puttane ed era solo colpa sua. Tutto ciò che aveva avuto in programma di fare anche nell'anno seguente - cantare, scrivere canzoni, comporre, partecipare a qualche show - era stato cancellato. La stampa avrebbe presto annunciato questo repentino cambiamento di programma; e anche se tutti i suoi fan le avrebbero sicuramente scritto di farsi coraggio e che ne sarebbe uscita, lei pensava di averli delusi. Non era stata abbastanza forte per loro. L'affetto che provava nei confronti di quelle migliaia di ragazzi e il suo sconfinato amore per la musica non l'avevano salvata. Aveva deluso i suoi genitori, Eddie, le sorelle ed Andrew.
Ripensò a quando il tassista aveva accennato ai bambini che lei avrebbe avuto. Chissà se sarebbe successo, o se invece non ne avrebbe mai avuti.
"Come faccio ad avere dei figli miei? Non so nemmeno prendermi cura di me stessa, non riuscirei a farlo con nessun altro. Non sarò mai madre."
Eppure, Dio solo sapeva quanto avrebbe desiderato avere dei figli! Aveva sognato innumerevoli volte di stringere tra le braccia i suoi bambini, mentre sia lei che loro sorridevano felici.
"Demi, è pronta la cena. Devi venire nella sala comune a mangiare" la chiamò la solita infermiera.
"Non ne ho voglia."
La sua voce era tremolante.
"Preferisci che ti porti il pasto qui?"
"Certo, così tutte le altre ragazze mi prenderanno in giro perché non sto con loro e mi considereranno debole" disse, facendo poi una risata amara.
"Non sarà così, te lo posso assicurare."
"Okay, vengo" si arrese, ma tanto non avrebbe toccato cibo. "Posso chiederti come ti chiami?"
"Kristine, tesoro."
Aveva un bel nome e anche un sorriso dolcissimo. Demi ricordava solo questo del suo aspetto, assieme alla sua infinita bontà.
"Kristine. Mi piace!"
"Grazie."
La sala comune era grande e spaziosa, con vari tavoli da quattro posti ciascuno. Alcuni erano pieni, in altri c'erano solo due o tre ragazze e qualcuna mangiava da sola. Demi ne contò una trentina.
"Siediti dove vuoi" le disse Kristine e lei si accomodò ad un tavolo vuoto.
"Non ti va di conoscere nessuna, eh? Lo capisco, è solo la prima sera e ti devi ambientare." Si mise accanto a lei. "So che non è confortevole per te, ma io devo restare qui a guardarti mangiare. Non ci sarò sempre, ma ogni volta qualcuno ti dovrà guardare."
"Oh, madonna! Ma questa è una prigione" sbottò la ragazza. "Dobbiamo anche tenere aperte le porte delle nostre stanze! Sapete cos'è la privacy?"
"Lo facciamo perché dobbiamo assicurarci che non vi facciate del male. Demi. Immagino che non sia gradevole, ma…"
"Sì, sono le fottute regole di questo dannato centro, ho capito." Era stata brusca, e se ne rese conto subito, pentendosene amaramente. "Perdonami. Tu non c'entri niente, sono io che continuo a sbagliare."
"È tutto a posto, tranquilla." In quel momento una donna arrivò dalle cucine e posò davanti a Demi un vassoio dove c'erano un piatto di riso, del pollo con patate e un bicchiere di latte freddo.
"Devo mangiare tutta questa roba?" domandò, inorridita.
Solo l'idea del cibo la faceva vomitare.
"Provaci."
"Non ho fame."
Quella era la classica frase che ripeteva a casa ad ogni pasto. Le veniva quasi meccanico pronunciarla.
"Devi farlo. Non importa se ci metterai più di un'ora. Senti, mangia almeno tre forchettate, poi ti lascerò in pace. Cominciamo piano, okay?"
Si era fatta più dura, ma Demi non se ne stupì. Anche sua madre si comportava così a volte. L'altra cominciò a sentirsi irritata. Si concentrò, chiuse gli occhi, respirò a fondo. Con molta, molta fatica mangiò un pezzettino di pollo e qualche chicco di riso.
"Ho finito" dichiarò, decisa.
"È troppo poco."
"Mi sono sforzata, mi sento piena." Claire stava per ribattere, ma Demi prese il suo vassoio, lo sollevò in aria e urlò: "Andate tutti a fanculo!"
Scaraventò tutto a terra e poi corse nella sua stanza.
Okay, non so nemmeno finire un pasto. Sono solo una merda.
Fu questo il suo ultimo mepnsiero, prima di crollare sul letto scoppiando a piangere. Non riuscì a dormire, però. Cercò di svuotare la mente ma invano. Sentì la porta aprirsi e qualcuno entrare.
"Ehi, ciao."
Era stata una ragazza a parlare, ma Demi non la badò e si girò dall'altra parte.
"Io sono Mary. Tu come ti chiami?"
La ragazza la guardò. Anche lei aveva gli occhi tristi, ma non era anoressica. Non era magrissima come lei, di sicuro non le si sentivano le ossa. Era molto grossa, probabilmente bulimica.
"Oh mio Dio, sei così magra da sembrare un cadavere!" sputò questa.
"Beh, grazie per l'accoglienza. Anche tu sei grassa da far schifo."
La ripagò con la stessa moneta, ma non usò parole tanto forti. Non era così maleducata.
"Uffa, non ho voglia di litigare" sbuffò la prima.
"Nemmeno io. Facciamo che siamo pari, va bene?"
"Okay."
L'altra fece finta di dormire - non aveva voglia di parlare -, così Mary si mise a letto e prese sonno dopo poco. Fu solo quando la sentì russare piano che Demi si alzò. Aprì la sua valigia e cominciò a disfarla, cercando di fare il meno rumore possibile. Quando ebbe finito, nonostante si sentisse stanca, aveva bisogno di fare una cosa. Prese un pacco di fogli che si era portata. Le era sempre piaciuto scrivere racconti, ma quella sera decise di cimentarsi nella poesia. Si sedette sul letto, si appoggiò i fogli sulle gambe e, quando la mano smise di tremarle, cominciò.
 
                    BROKEN
 
Non sono brava a scrivere poesie,
a creare rime e figure retoriche.
Voglio solo esprimere le mie emozioni,
parlare delle paure e dei dolori
che mi attaccano come orribili mostri.
 
Sono in clinica da poche ore
e mi sembra di stare in una prigione.
È notte, le porte delle camere sono aperte
e mi sento tanto insicura, veramente.
 
C'è una ragazza nel letto vicino.
È qui da alcuni mesi, mi dicono.
Non ricordo il suo nome,
ma non importa, perché non ho intenzione
di fare la sua conoscenza.
 
Voglio solo essere lasciata in pace
con la mia sofferenza.
Non posso specchiarmi per guardarmi
e dirmi che sono brutta e grassa.
Ma so che avevano ragione i bulli ad offendermi,
ne sono convinta, e basta.
 
Mi hanno tolto tutto, anche il cellulare,
così non posso nemmeno contattare
la mia famiglia, con le mie sorelle parlare
e la voce di Andrew ascoltare.
Lui è l'unico che mi riesce a calmare.
 
Dove cazzo è la mia lametta?
Ah già, mi hanno portato via anche quella.
Non ho nulla con cui farmi male
e Dio solo sa che sarei disposta a pagare
qualsiasi cifra pur di riaverla con me.
 
Per tanti anni è stata la mia compagna,
un'amica, una confidente
e riusciva a capirmi veramente.
 
Avrei bisogno di incidere la pelle
e poi arrivare alla carne
e andare giù, nel profondo
fino a farmi davvero male.
 
Vedere il sangue gocciolare
per un momento mi fa sentire bene.
Per un po' mi dà un senso di sollievo
e allora inizio a respirare meglio.
 
Vorrei correre in bagno e vomitare
la cena, ma non lo posso fare,
perché qualcuno mi sentirebbe
e correrebbe a controllare.
 
Sono venuta qui per farmi aiutare,
perché so che mi devo curare.
Sono fuori controllo
e così non posso continuare.
 
Eppure, mi sento debolissima
e non so se ce la posso fare.
Ho tanta rabbia dentro di me
per il bullismo che ho subito,
per le conseguenze che ciò ha scaturito.
 
Sono conscia di essere malata, ora sì.
Fino a qualche tempo fa non era così.
Pensavo di stare bene, lo dicevo a tutti,
ma poi durante il tour con i Jonas Brothers sono scoppiata dando un pugno ad una ballerina
che di certo non si meritava né quello, né insulti.
 
A undici anni ho iniziato a tagliarmi
per controllare il dolore che i bulli
continuavano, ogni giorno, a provocarmi.
Pensavo di sbagliare, che fosse colpa mia
e credo ci vorrà tempo per rendermi conto che questa è una bugia.
 
Soffro anche di anoressia e di bulimia.
Negli anni passati non facevo altro
che tagliarmi, mangiare e vomitare
oppure non nutrirmi per giorni,
tanto non me ne fregava un cazzo.
 
Dio, se mi ascolti, come sono sicura tu faccia,
guarda in giù, osserva la mia faccia.
È rigata dalle lacrime, vedi?
Non è colpa tua, mi credi?
 
Non so se qualcuno abbia colpe in tutta questa storia.
Solo io probabilmente,
come sempre.
Lo penso da quando ho memoria.
 
Dio, ho toccato il fondo,
sono finita in un baratro
e non capisco se sono arrivata in fondo.
È un buco nero, buio e stretto.
Fa freddo, qui dentro, ho paura, congelo.
 
Non ho più energia
per affrontare la vita.
Ormai mi sembra fatta solo di apatia.
E, quando questa per un po' va via,
prende il suo posto il dolore
che, come una lama, mi trafigge il cuore.
 
A volte è così forte
che penso alla morte.
Sono devastata, distrutta,
ma voglio e devo restare,
provare a combattere, a lottare.
 
Non lo faccio per me, per adesso,
ma solo per la mia famiglia e i miei amici, lo confesso.
Andrew, è grazie a te e al tuo sostegno
se sono ancora qui, viva
e se non sono andata alla deriva.
 
Mamma, papà, Eddie, Madison, Dallas, Andrew e Selena
lo so, con il mio comportamento vi ho delusi
e ormai non credo serva che mi scusi.
Ho provocato io questo danno
facendovi soffrire tanto, troppo,
tocca a me cercar di ripararlo.
 
Vi chiedo solo, se potete, di perdonarmi
di starmi vicino, di non abbandonarmi.
Siete l'unico legame che ho con la vita,
una vita felice, nella quale non mi sento tanto ferita.
 
Quando finì si rese conto di aver riempito intere pagine. La penna aveva continuato a scorrere, foglio dopo foglio, quasi che avesse una forza e una vita propria. Beh, scrivere una poesia così lunga non era cosa da poco. Stava meglio adesso che si era sfogata. Rimise tutto al suo posto e si sdraiò sotto le coperte, sperando che in futuro sarebbe stata abbastanza forte.
 
 
 
Andrew era preoccupato. Demi era uscita dieci minuti prima e ancora non tornava. Che si fosse sentita male?
"Bambine, venite con me" disse, prendendo Hope in braccio.
Non si fidava a lasciarle sole in casa anche se sarebbe stato lì a pochi passi.
Prima di uscire, fece indossare loro un giubbino leggero in modo che non prendessero il raffreddore a causa dell'aria fresca che tirava.
"Demi!" chiamò una volta in giardino.
Sentì un singulto e lo udirono anche le bambine, che si precipitarono subito dalla mamma. Demi era seduta in fondo al giardino, distesa fra l'erba a faccia in giù. Sollevò il viso e, vedendo le sue figlie, si affrettò ad asciugarsi le lacrime anche se entrambe notarono che aveva pianto.
"Ho perso la c-cognizione del t-tempo" balbettò fra i singhiozzi.
"Eravamo preoccupati, tesoro. Sono passati dieci minuti e così sono uscito con loro a vedere come stavi. Che è successo?"
"Ricordi."
"I ricordi possono fare molto male, a volte; e dalla tua espressione direi che è stato così, giusto?"
"Già. Ho ricordato la mia prima sera in clinica."
"Mi dispiace, piccola."
"Mi mancavate così tanto!"
"Lo immagino, anche tu a noi. Il viaggio di ritorno a casa è stato silenzioso e vuoto, senza di te; ma sapevamo che eri lì per curarti, per il tuo bene e che era la cosa giusta. Hai più saputo qualcosa della ragazza con cui eri in stanza?"
"No" sospirò.
Pensava spesso a Mary, però. Non era stata sincera con se stessa la sera in cui Andrew aveva tentato il suicidio e lei aveva pensato di non aver legato con nessuno in clinica perché le ragazze erano antipatiche o la guardavano con pietà. All'inizio i rapporti tra lei e Mary erano stati un po' tesi, sì, ma lentamente le due avevano legato, erano diventate amiche, si erano sostenute a vicenda, avevano condiviso bei e brutti momenti. Una volta uscita, Demi aveva provato a contattare Mary ma lei aveva cambiato numero dimenticandosi di avvertirla, cosa che aveva gettato la ragazza nello sconforto. L'aveva cercata sui social network, ma niente da fare; così, dopo mesi di ricerche, si era arresa. Era stata arrabbiata con lei per un po', ma poi quel sentimento si era tramutato in mancanza. Se l'avesse incontrata di nuovo l'avrebbe abbracciata e le avrebbe chiesto se, tra loro, si sarebbe potuto ricostruire, almeno in parte, quel bellissimo rapporto che avevano avuto.
"Amore, ehi."
Andrew le prese le mani e la scosse leggermente. Si era di nuovo allontanata dal presente, rifugiandosi nel passato.
"Mmm? Oh, sì… scusa, perdonatemi."
"È stato il film che ti ha fatta sentire così male?" le chiese il fidanzato, parlando piano in modo che Mackenzie non sentisse.
"Credo di sì, ma ora sta passando."
"Sicura?"
"Sicura."
Una piccola lacrima le rigò la guancia. Fu Mackenzie ad asciugargliela, passandoci delicatamente la mano sopra.
Pazzesco. Dovrei essere io a farlo con lei e invece accade il contrario.
La bambina la guardava preoccupata.
"Tranquilla Mac, sto molto meglio."
Hope le prese una mano e le sorrise. Non si era accorta che la mamma aveva pianto, era solo felice di rivederla, di stare con lei.
Andrew sospirò di sollievo. Odiava vedere la sua ragazza stare male e, quando piangeva, gli si spezzava il cuore.
Demi si alzò e prese in braccio Mackenzie e Hope. Voleva coccolarle, far capire loro che il suo momento no era terminato.
"Piccole mie!"
Alla fine era riuscita a farsi una famiglia, si disse mentre rientravano in casa. Aveva un fidanzato meraviglioso e due bambine stupende. Si accomodò sul divano continuando a stringerle, mentre loro le sorridevano e lei ricambiava. Andrew si sedette lì accanto e prese una coperta dallo schienale in modo da coprire tutti e quattro. Le piccole non avevano voglia di giocare, nemmeno Hope che di solito era così vivace. Si godeva, invece, le coccole della mamma e a volte chiudeva gli occhietti. Andrew circondò le spalle di Demi con un braccio e cominciò ad accarezzare le bambine con l'altra mano.
"Vi amo. Siete la mia vita."
Pronunciò tali le parole con tanto sentimento che la ragazza si commosse.
"Sei così dolce."
"Lo so."
Rimasero lì un altro po' a oziare e a coccolarsi, poi Demi notò che era tardi.
"Mamma, film!" protestò Hope.
"No, ho detto che lo vedremo un altro giorno."
Mamma dai, ti prego! scrisse Mackenzie.
Non aveva sonno ed era troppo curiosa di vedere la mamma recitare, di sentire la sua voce.
"No bambine, ha ragione la mamma; ma magari potremmo fare qualcos'altro, una passeggiata per esempio."
"Sì, è un'idea. Stasera dovrebbe esserci una festa di quartiere non molto lontano da qui."
In effetti, ora che ci facevano caso, i quattro sentirono della musica in lontananza. Demi non aveva preso parte a quell'evento perché non ne aveva voglia e pensava che ci fosse troppa confusione per Mackenzie e Hope ma forse, adesso che erano le 22:00 passate, ci sarebbe stata meno gente visto che il giorno dopo i giovani avrebbero dovuto andare a scuola.
"Allora potremmo fare un giro!" esclamò Andrew.
Dopo essersi messi una giacca leggera per proteggersi dalla brezza fresca che soffiava, i quattro uscirono.
La festa si svolgeva in un grande parco a poche centinaia di metri dalla casa di Demi. C'erano bancarelle che vendevano ogni genere di leccornia: dalla frutta secca ai panini, dai dolci alle torte salate.
Mamma, possiamo andare sul bruco mela? Per favoreeee!
Demi rise, ma dovette dirle di no perché Hope era troppo piccola.
Hai ragione.
La bimba più grande si diede della stupida per non averci pensato prima.
"Non ti abbattere tesoro, troveremo qualcos'altro da fare vedrai."
Le giostre si trovavano dall'altra parte del parco e kì vicino c'era un deejay che faceva un tipo di musica che a Demi non piaceva, ovvero quella che di solito si sente in discoteca. Era altissima, non aveva nessuna melodia e non le trasmetteva nulla. Poco lontano, invece, si trovava una pista da ballo con un'orchestra che suonava il Walzer, la Mazzurca, il Tango e alcuni lenti. Quella sì che era musica!
Nel parco c'era anche una fila di pupazzi enormi, alti più o meno quanto Demi, che raffiguravano personaggi dei cartoni animati. Una folla di genitori e bambini facevano a turno per fotografarsi accanto a uno di loro.
"A quanto pare, tanti piccoli non hanno sonno stasera" disse Demi fra sé.
Mackenzie guardò le persone per cercare di scorgere Elizabeth. Le sarebbe piaciuto incontrarla al di fuori del contesto scolastico, ma non la vide. Non ci restò male, in fondo si sarebbero incontrate il giorno dopo. Lei e Hope vollero fare la foto e i genitori le accontentarono. Le bimbe scelsero Peppa Pig. Si posizionarono fra Andrew e Demi e l'uomo chiese ad una signora di fare la foto.
"Volentieri. Siete proprio una bella famiglia" rispose questa e l'uomo le passò il suo cellulare. "Cheese."
Quando i quattro la videro, notarono che la loro fotografia era venuta benissimo.
Decisero di andare ad ascoltare il gruppo che suonava i balli che a Demi piacevano tanto. Le bambine cominciarono a muoversi sul posto a ritmo di musica facendo sorridere i genitori che, intanto, si ricordarono di quella volta in cui avevano capito che tra loro c'era qualcosa, a casa di Selena, mentre danzavano con la musica del vento in sottofondo. Alcuni minuti dopo fecero una passeggiata tra le bancarelle e si comprarono un po' di frittelle con la nutella ancora calde. Di solito ci sono solo a Carnevale, ma la ragazza che le vendeva spiegò che quei dolci sono buoni tutto l'anno e quindi aveva deciso di farne una quantità industriale. Hope si sporcò con lo zucchero e la cioccolata che le finirono non solo sulla faccia ma anche in fronte e sul vestitino, così la mamma si affrettò a pulirla. La piccola riuscì a mangiare i suoi dolcetti perché Demi glieli spezzò a metà, anche se non fu facile e si sbrodolò pure lei. All'inizio, Hope avrebbe voluto metterne una tutta in bocca.
"Questa roba è meravigliosa" commentò Andrew a bocca piena.
Non voleva essere maleducato comportandosi così, ma non aveva potuto farne a meno.
"Come sei buffo!" Demi scoppiò in una fragorosa risata che il fidanzato aveva sentito poche volte ed era felice di essere stato lui a provocarla. "Andrew, oh mio Dio guarda!"
C'era un bancone sopra il quale si trovava un contenitore quadrato, largo alla base ma con l'imboccatura stretta.
"Cos'è?" chiese Hope.
"Questa si chiama pesca. Si mette dentro la mano, si prendono dei biglietti e si vince qualcosa; ma non sempre. Alcuni biglietti non valgono" le spiegò il papà.
"Esatto e stasera in palio ci sono tanti peluche" disse la donna che stava dietro il bancone.
"Amore che bello! Che bello! Che bello!"
Demi continuava a battere le mani e i piedi, felice come una bambina che ha appena ricevuto un regalo ed Andrew fu contentissimo di vederla così spensierata, come quando era piccola.
"D'accordo, inizio io. Vincerò un peluche per te, Denetria."
Lei sorrise mentre l'uomo dava dei soldi alla signora, abbastanza per fare in modo che anche la fidanzata e le bambine potessero pescare. Mettere la mano tra quelle cartine arrotolate, per i due adulti, fu come tornare bambini quando i genitori li portavano a feste simili e loro si divertivano un mondo, non preoccupandosi tanto dei premi - che di solito non erano giocattoli, ma piatti o cose delle quali non si interessavano -, ma considerando il solo fatto di muovere quei bigliettini come un gioco. Andrew provò due volte. La prima non prese nulla, la seconda un delfino che regalò alla ragazza. Demi invece vinse per lui un criceto.
"Dormirò con questo accanto ogni notte" gli promise.
"Anch'io, dolce angelo."
Avrebbero voluto baciarsi, ma non era il caso di farlo davanti alle figlie così si trattennero.
La risata di Hope nel momento in cui mise la manina tra i biglietti portò ancora più allegria, in quanto fece sorridere alcune persone che si trovavano lì intorno. Vinse un coniglietto e Mackenzie un cerbiatto.
Dopo aver ringraziato la donna, i quattro si allontanarono tenendo stretti i loro nuovi amici. Hope stava già sbadigliando, così Demi la prese in braccio e tutti decisero di andare a
casa.
Le piccole furono felicissime quando la mamma le mise entrambe nel suo letto. Si rivolse ad Andrew e gli domandò:
"Vuoi restare?"
"Certo che sì!"
Si addormentarono subito. Erano insieme e, alla fine, la serata si era conclusa nel migliore dei modi.
 
 
 
La mattina seguente Mackenzie fu la prima a svegliarsi. Stranamente non aveva fatto incubi quella notte e ne era contentissima. Aveva dormito come un sasso. Danny era sopra di lei, le dormiva sulla pancia. Non l'aveva quasi mai visto venire in camera della mamma, ma forse il gattino l'aveva cercata nella sua cameretta e, non trovandola, era corso lì. Batman, invece, era vicino ai piedi della sorellina.
"Ci siamo proprio tutti, allora" si disse la bambina con un sorriso.
Il gatto balzò giù e cominciò a miagolare. Mackenzie fece più piano che poté e si alzò. Di solito era la mamma a prendersi cura dei loro animali, ma per una volta voleva farlo lei. Arrivata in salotto, notò che il micio aveva terminato i croccantini e quasi tutta l'acqua. Prese il pacchetto e gliene versò, poi andò in cucina a riempire la ciotola stando attenta a non far cadere nemmeno una goccia. Batman, che aveva sentito quei rumori, arrivò abbaiando.
"Non sono per te" avrebbe voluto dirgli la piccola, ma si limitò a sorridere.
Il cane non era molto geloso del gatto, per la verità. Tutti cercavano di dare sia all'uno che all'altro le stesse identiche attenzioni ma Batman cambiava atteggiamento quando, come in quel caso, qualcuno dava da mangiare prima a Danny. Mac versò qualche crocchetta al cane, ma non molte visto che aveva già la ciotola piena. Entrambi si misero a mangiare e lei rimase lì ad ascoltarli. Danny sgranocchiava più lentamente e ogni tanto si fermava, mentre Batman era più sbrigativo. La cosa più bella, però, era sentire il rumore delle loro linguette mentre bevevano.
Erano ormai le 6:00, così Mackenzie decise di rimanere alzata. La mamma si sarebbe svegliata poco dopo. Mac passò il tempo ad accarezzare Danny e Batman che si sdraiarono vicino a lei quando si sedette sul divano. Era così bello stare con loro! La mamma diceva che presto avrebbero iniziato a portare fuori il gattino al guinzaglio, per farlo abituare alle zone circostanti prima di lasciarlo libero e lei non vedeva l'ora di fare quella nuova esperienza. Quando la sveglia di Demi suonò, sia Danny che Batman corsero di sopra. Chissà cosa pensavano che fosse quella cosa che produceva un suono del genere!
Mac andò in camera sua a vestirsi e preparò la cartella. Sapeva che avrebbe dovuto farlo il giorno prima, ma se n'era proprio dimenticata.
"Buongiorno!"
La voce del papà la riscosse, facendole cadere un libro di mano. Lo salutò con un gesto della mano, poi continuò a prepararsi.
Grazie ancora per ieri sera, per tutto scrisse.
"Figurati, l'ho fatto con il cuore. Ora ti lascio vestirti, la mamma è già giù che prepara la colazione."
Arrivo.
Quando scese in cucina venne accolta dai sorrisi radiosi dei genitori e della sorella. Mentre mangiavano parlarono di quanto fosse stata bella la serata precedente e Demi chiese ad Andrew fino a che ora avrebbe lavorato quel pomeriggio.
"Finisco alle 16:00, perché?"
Lei gli si avvicinò e gli sussurrò all'orecchio qualcosa che Mackenzie non capì, poi i genitori non spiegarono nulla a riguardo e quando la piccola insistette nel sapere, dissero alle figlie che era una sorpresa, aumentando la curiosità tipica dei bimbi.
Per tutti iniziava un nuovo giorno. Sarebbe stato sereno?
 
 
 
credits:
Demi Lovato, Let It Go
 
 
 
NOTE:
1. Demi ha dichiarato di sentirsi in quel modo quando lavorava a "Barney and friends".
2. Mi sono informata sulla Timberline Knolls sui siti www.timberlineknolls.com e www.Rehab.com leggendo anche varie testimonianze. Ho trovato informazioni sul modo in cui vengono curati disturbi come bulimia, anoressia e autolesionismo, quindi quel che l'infermiera dice a Demi è vero. Ci tengo a precisare che anche gli infermieri che lavorano in quel centro sono specializzati nel trattare disturbi del genere. Ho anche visto il documentario "Stay Strong" in cui Demi parlava un po' della sua esperienza. Per quanto riguarda il fatto che le ragazze possano portare o no certi oggetti, l'ho letto sui siti ma ho anche ascoltato alcuni video su YouTube di ragazze che ci sono state. Ora, non so se Demi abbia dovuto fare le stesse cose quindi ho un po' inventato. Non ho voluto essere troppo dettagliata in quel flashback, nemmeno nelle descrizioni degli ambienti. Comunque l'aeroporto di cui ho riportato il nome esiste davvero, così come il fatto che ci vogliono quarantacinque minuti per arrivare al centro.
Ammetto che un giorno mi piacerebbe scrivere una storia in cui parlo del periodo di Demi in clinica basandomi su quello che so e in parte inventando. Vedremo… Ovvio, come ripeto spesso, che il fatto che io inventi non significa affatto che voglio offendere Demi o la sua famiglia, anzi!
3. Ho inventato io la poesia che scrive Demi. So che è davvero lunga, ma è una cosa voluta. Desideravo far capire bene le sue emozioni e la disperazione che prova e che predomina sulle altre. Dato che un suo album si intitola "Unbroken" così come una canzone in esso contenuta, il titolo giusto per il componimento mi sembrava proprio "Broken", cioè "Distrutta".
   
 
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