Il camion dei traslochi ripartì attorno alle tre del pomeriggio con quasi tutti gli effetti personali di Lana. Rimase sul portico per vederlo partire verso New York e provò uno strano senso di distacco: con quelle scatole se ne andava un pezzo della sua vita. Ora che Once Upon a Time era finito, doveva trovare un altro progetto in cui immergersi, e possibilmente più di uno. Aveva ricevuto un paio di offerte ma nulla di interessante, nemmeno la sua manager si era mostrata troppo entusiasta.
Fu lì, ferma sul portico, che la trovò Jennifer quando, venti minuti dopo, parcheggiò davanti a casa sua. Scese lentamente dall’auto e la osservò per qualche secondo, poi infilò le mani nelle tasche del cappotto e si avvicinò. Sapeva che cosa stava provando l’altra donna e avrebbe fatto di tutto per aiutarla, aiutarla a svuotare la mente, a trovare un nuovo lavoro, un nuovo manager se fosse servito. Salì i tre gradini e finalmente ottenne l’attenzione della mora, gli occhi umidi e due lacrime che le percorrevano lentamente le guance. La strinse a sé, senza proferire parola ma dicendole molto. Rimasero così per alcuni istanti, poi Lana si scostò, il capo chinato. Jennifer le prese il volto fra le mani e la baciò dolcemente.
Caricarono in auto le due valigie di Lana, poi poggiarono una coperta sui sedili posteriori e fecero salire Lola, felice di potersi andare a fare un bel giro con la sua padrona.
“Hai preso tutto?” chiese Jennifer.
“Ho le valigie, ho Lola,” disse lanciando uno sguardo al cane dallo specchio del parasole, poi si voltò verso la bionda e dopo una breve pausa aggiunse “ho tutto quello che mi serve.”
Erano da poco entrate nel territorio americano quando la radio si spense e sul display comparve il nome della manager, ormai più che altro assistente, di Jennifer. Questa emise un sospiro e rispose.
“Pronto?”
“Jen, tutto bene?”
“Sì, siamo sulla I90, finora tutto bene.”
La donna dall’altro capo della linea esitò qualche istante. Probabilmente si era appena ricordata che Jen stava facendo quel viaggio con Lana, o forse sperava che Jen potesse parlarle in privato e sentendo il vivavoce voleva evitare di dire cose che potessero essere sentite anche da lei. A Lana quella donnina perennemente imbronciata e priva di qualsiasi forma di fascino era sempre stata sulle palle, e Jen lo sapeva.
“Volevo solo ricordarti che il quattro aprile sei a Washington per Her Lead e il sei hai l’intervista per la CNN.”
In quel momento Lana la odiò ancora di più. Quella brutta stronza doveva proprio chiamare per ricordarle che Jennifer aveva mille impegni?
“Tranquilla, tra un paio d’ore ci fermiamo a riposare, per domani sera conto di essere a Chicago e dopo domani sarò a New York” assicurò la bionda.
“Bene,” rispose l’altra, “ci sentiamo domani.”
La comunicazione si interruppe e Rita Ora riprese a cantare Lonely Together. Lana trovò la cosa ironica: “sole insieme” era esattamente la loro condizione attuale. Si voltò verso Jennifer, che si accorse dello sguardo e le sorrise.
“Grazie” le disse semplicemente.
“Grazie a te per avermi accompagnata” rispose la bionda. “A te e a Lola, ovviamente” aggiunse lanciando uno sguardo allo specchietto retrovisore. Il cane era comodamente disteso sui sedili, il muso appoggiato sulle zampe anteriori e gli occhioni marroni che si spostavano da una donna all’altra. Sentendo chiamare il suo nome, la coda sbatté un paio di volte sulla coperta, manifestando la sua approvazione. Jennifer sorrise, adorava quel cane.
Erano le undici passate quando arrivarono a Missoula. Si fermarono in un hotel dove era solita fermarsi Jennifer durante le sue traversate. Lo staff dell’albergo la conosceva e sapeva che amava la discrezione, così, quando la videro entrare con Lana e un cane, la ragazza alla reception cercò di non sgranare troppo gli occhi e si limitò a dare il benvenuto alle ospiti.
“Buonasera, Ms Morrison” disse educatamente.
“Buonasera, Alice. Deve esserci una prenotazione a mio nome.”
“Esattamente, la sua camera è pronta per lei.”
“In realtà siamo in due, ti spiacerebbe far portare un altro accappatoio in camera?”
“Certamente, avviso subito” rispose la ragazza sorridendo.
Poi Jen indicò Lola. “Ah, e anche una ciotola, per cortesia.”
In realtà Lana aveva le ciotole, ma Jennifer sembrava aver preso a cuore il compito di far capire a tutti che avrebbero passato la notte insieme.
Entrarono nella stanza trainando i trolley, e subito Lana liberò Lola, che cominciò ad annusare qua e là.
“Ti va di mangiare qualcosa?” domandò Jennifer. “Chiedo di portarci qualcosa in camera?”
“Va bene,” rispose Lana, “nel frattempo mi faccio una doccia, se non ti dispiace.”
“Certo!”
Era appena entrata nella doccia quando sentì la porta del bagno aprirsi, si voltò e rimase a guardare Jennifer che si spogliava dall’altra parte del vetro. Quando anche lei entrò, la tirò a sé e la baciò, muovendo le mani lungo la sua schiena bagnata, mentre Jennifer le afferrò i glutei, premendo il bacino contro il proprio. Qualche istante dopo, Lana invertì la loro posizione, spingendo la bionda contro la parete e facendola sibilare per il contatto con le fredde mattonelle. Scese a baciarle il collo e, mentre la mano sinistra le massaggiava un seno, la destra si insinuò fra le sue cosce. In quel momento aveva bisogno di lei, non di parole dolci o di sguardi compresivi, ma del suo desiderio e del suo piacere, di gemiti e ansiti che la rassicurassero sulla sua presenza. Aveva bisogno di sentirla accanto a sé, attorno a sé.
Cenarono sul divano del salottino, in silenzio e con calma, avvolte dall’accappatoio, poi Lana si alzò e si inginocchiò tra le gambe dell’altra. Si era prefissata come missione quella di possedere Jennifer e lo fece, prendendola in diversi modi, su quel divano e a letto, godendo del suo piacere, fino a quando il sonno non si impadronì di entrambe.
Ripartirono all’alba e Jennifer fu felice di vedere che Lana era di umore più sereno rispetto al giorno prima, tanto che le raccontò addirittura dei figli di Fred e del fatto che non si sentissero più perché il padre glielo aveva proibito.
“Forse è meglio così,” disse Lana, “portare avanti dei rapporti destinati a finire fa solo male.”
“Perché dici questo?” chiese l’altra. “Tu volevi bene a quei ragazzi.”
“Volere bene non basta” fu l’unica risposta.
E Jennifer pensò che in fondo aveva ragione. Quando aveva creduto di aver perso per sempre Lana, ogni loro incontro, ogni frase scambiata era una vera tortura. Non vederla l’aveva fatta stare meglio, ma non l’aveva fatta stare bene. Pensava a lei almeno una volta al giorno, e all’immagine del suo volto si aggiungevano i rimpianti per non aver tentato. Ed ora era lì per tentare.
In quel momento Lana prese lo smartphone e scattò una foto di lei e Lola.
“Che cosa fai?” le chiese con la fronte corrugata.
“Aggiorno Instagram” rispose l’altra picchiettando sullo schermo. Poi, notando lo sguardo dietro gli occhiali da sole, aggiunse: “tranquilla, nessuno sa che siamo insieme.”
“D’accordo” mormorò la bionda.
Lana la guardò e un sorriso malizioso le si dipinse in volto.
“Che c’è?” domandò Jen.
Lana non rispose, si slacciò la cintura, si avvicinò a lei e cominciò a scattare selfie a raffica, facendo facce buffe, poi si inginocchiò sul sedile, si protese fino a baciare la guancia di Jen e immortalò anche quel momento.
“Spero vivamente che tu non abbia intenzione di pubblicare queste foto” esclamò Jennifer con tono fintamente serio. Sapeva che Lana non avrebbe mai fatto una cosa così plateale.
“E se fosse esattamente la mia intenzione?” scherzò la mora.
“Allora esigo che venga postata una foto con un bacio vero” rispose togliendosi gli occhiali da sole. Si voltò leggermente verso di lei, continuando a mantenere gli occhi sulla strada.
Sul volto di Lana si allargò un magnifico sorriso. Questa le prese il viso con una mano, mentre con l’altra aggiustava l’angolazione del telefono, poi la baciò. Jennifer approfondì il bacio e mantenne il contatto per qualche secondo prima di tornare a guardare la strada, che tuttavia era dritta per centinaia e centinaia di metri.
“Vuoi smetterla di distrarmi?”
“E abbandonare la mia principale fonte di divertimento?”
“Quindi è questo che sono per te? Una fonte di divertimento?”
“E di piacere sessuale” aggiunse la mora.
“Mi sembra ovvio” rispose Jen, non riuscendo a mostrarsi minimamente offesa. Non vedeva Lana sorridere così da giorni, e sapere di esserne la responsabile, la riempiva d’orgoglio.
Un paio d’ore più tardi si fermarono a un distributore, l’ultimo che avrebbero incontrato per chilometri. Jennifer fece rifornimento e Lana ne approfittò per sgranchirsi le gambe e far fare un giro a Lola, prima di usufruire dei bagni della tavola calda, un vecchio locale i cui mobili erano stati rinnovati almeno vent’anni prima. Mentre ordinava gli hamburger e le patatine che avrebbero mangiato in auto, Jennifer andò in bagno e vi rimase qualche minuto. Lana uscì e si accomodò sul sedile del passeggero, la portiera aperta, piluccando qualche patatina in attesa del ritorno della sua compagna. Quando questa salì in auto sbattendo la portiera, capì che doveva essere successo qualcosa.
“Tutto bene?” chiese chiudendo la propria portiera.
La risposta arrivò qualche secondo dopo.
“Ero al telefono con i miei genitori.”
“Capisco” disse Lana con una punta di sarcasmo. I genitori della bionda la consideravano una sgualdrina, un’adescatrice che aveva portata sulla cattiva strada la loro adorabile figlia. Solo perché non sapevano che prima di lei ce n’erano state altre.
“Non penso che tu capisca” borbottò Jennifer.
“No, in effetti non capisco come possano mettere in discussione la tua vita amorosa.”
“A mia madre non importa, è mio padre che fa storie.”
“Eppure è un insegnante, dovrebbe avere una mentalità aperta. Cosa fa se scopre che un suo studente è gay? Lo prende di mira?”
“Non ha problemi con i suoi studenti” rispose seccamente Jennifer.
“Ma certo, i suoi studenti facciano quello che vogliono, l’importante è che la sua principessa non vada a letto con un’altra donna.”
Jennifer non rispose, ma strinse con forza la mascella e le mani sul volante.
“Hai quasi quarant’anni, com’è possibile che tu non ti sia ancora liberata del pensiero degli altri?” il tono di Lana era adirato: detestava vederla soffrire così a causa delle persone che dovevano amarla di più.
“Perché sono i miei genitori.”
“Proprio perché sono i tuoi genitori dovrebbero supportarti sempre. Mia madre non è cresciuta nel più liberale degli ambienti, ma non ha mai avuto problemi con chi frequentavo, e sono sicura che sarebbe lo stesso anche per mio padre, se fosse vivo.”
“Beh, purtroppo il mio non è ancora morto” urlò Jennifer facendo sobbalzare Lana. “Scusami,” disse con tono leggermente più calmo, “ma non è colpa mia se sono una donna affettivamente orfana. Erano fieri di me solo quando ottenevo dei riconoscimenti.”
“Ma quella era gratificazione, non affetto” mormorò Lana.
“Lo so,” rispose con le lacrime agli occhi, “ma convincermi che lo fosse è stato l’unico modo per andare avanti.”
Ormai la Jennifer stava piangendo e a Lana si strinse il cuore nel vedere quella donna così forte in quello stato.
“Accosta” le disse con gentilezza, senza però che le desse retta. “Jen, accosta un attimo” ripetè posandole una mano sulla coscia.
Questa volta Jen obbedì e non appena Lana la abbracciò, affondò in viso nel suo collo e si abbandonò ai singhiozzi. Le mani che le accarezzavano la schiena e i capelli l’aiutarono a calmarsi un po’, fino a quando non si sentì graffiare il braccio. Alzò lo sguardo e vide Lola che la osservava con occhi preoccupati. Scoppiò a ridere tra le lacrime e allungò la mano ad accarezzarle la testa. Adorava quel cane, quasi quanto adorava la sua padrona.