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Autore: Rebs Herondale    28/04/2018    1 recensioni
‘ “C’era una volta”…Tutte le storie migliori cominciano così, no? Beh, migliore non significa facile…’
Lei: Isabella Swan, diciassettenne cinica, sarcastica, strafottente, che cerca di tenere le persone il più lontano possibile. Qualcosa del suo passato l’ha cambiata irreparabilmente e un trasferimento sarà il tentativo di cambiare pagina.
Lui: Edward Cullen, ragazzo chiuso, con l’aspetto del classico bello e dannato e numerosi scheletri nell’armadio. Con una maschera a difenderlo dal mondo, è voluto da tanti, ma conosciuto da pochi.
Loro: due sconosciuti che scopriranno di essere diversi all’apparenza, ma uguali nel profondo.
Una cosa li farà avvicinare, conoscere e farà nascere il più forte dei sentimenti: la musica.
Edward e Bella avranno il coraggio di svelare all’altro il proprio passato per poter dare inizio a quella che potrebbe essere la loro possibilità di tornare a vivere?
'Basta un attimo per cambiare la vita di una persona…io ho avuto il coraggio di coglierlo…e tu?'
Genere: Malinconico, Romantico, Song-fic | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Edward Cullen, Isabella Swan, Nuovo personaggio, Un po' tutti | Coppie: Bella/Edward
Note: AU, OOC | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Nessun libro/film
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3. Today...How things are like

 
Made a wrong turn once or twice.
Dug my way out.
Blood and fire.
Bad decisions…that’s alright.
Welcome to my silly life.
                - Perfect - Pink
 
Seattle. Oggi
 
Sbatto le palpebre, trovandomi a fissare la mia immagine riflessa che ricambia lo sguardo, smarrita.
Sento le guance umide e mi accorgo solo ora di essermi messa a piangere.
Sconvolta, mi passo le mani sugli zigomi, togliendo quelle scie salate.
Guardo amareggiata lo specchio, scuotendo la testa.
Ogni volta è sempre uguale…
Non so come, mi ritrovo di nuovo in camera, lavata e con un asciugamano a coprirmi. Con gesti meccanici, metto la biancheria e le prime cose che trovo, per poi uscire dalla stanza.
Senza neanche accendere le luci, entro in cucina, facendomi una tazza di cereali. Inizio a mangiarla, appoggiandomi al bancone e guardando distrattamente fuori dalla finestra.
Nonostante sia ancora molto presto, c’è già quel via vai di macchine e persone tipico delle grandi città. Faccio una smorfia, fissando i grattacieli sul lato opposto della strada.
Non riesco ancora ad abituarmi al clima caotico di Seattle. Dopotutto, rispetto a dove abitavo prima è stato un gran cambiamento. Dubito che riuscirò mai a sentirmi veramente a casa da qualche altra parte che non sia
Distolgo lo sguardo, concentrandomi sulla cucina e sul salotto comunicante ad essa. Abitiamo in un modesto appartamento in uno dei tanti edifici di Seattle. Tutto sommato non è male, non è un albergo a cinque stelle, ma abbiamo dovuto farcelo bastare. Non abbiamo avuto molta scelta.
Stizzita, butto la tazza, ormai vuota, nel lavello. La laverò più tardi.
Guardo di sfuggita l’orologio appeso alla parete. 6:40.
Però…il tempo è volato…
Mi dirigo di nuovo nella mia stanza, non volendo sprecare altro tempo.

 

Le settimane dopo l’incidente le definisco il mio “Periodo buio”.
Perché è tutto sfocato. Pieno di sentimenti e azioni che vorrei dimenticare. Buio, per l’appunto.
Credo di poterlo suddividere in varie fasi: Dolore, apatia, rabbia, disperazione, rassegnazione e poi ancora dolore. Poi c’è la fase in cui sono adesso e a cui non so dare un nome.
Più o meno, sono tutti i sintomi che uno psicologo o un dottore attribuirebbero a “Disturbo post traumatico”, o come lo chiamo io, “la fine del mio mondo”. Ma ognuno ha i suoi punti di vista.
La prima fase credo sia quella che ricordo meglio e che, di conseguenza, vorrei dimenticare.
Dopo essermi risvegliata in ospedale, i ricordi sono tornati. E più ricordavo, più soffrivo. Avevo questi flash in testa, che raffiguravano me e lui  e non riuscivo a capire il perché non ci fosse, perché sembrasse scomparso. Ogni volta che chiedevo qualcosa a mamma o papà loro cambiavano maldestramente argomento, come se nemmeno avessi parlato. E poi accadde.
La notte in cui ricordai per intero l’incidente persi la testa.
Distrussi la mia stanza, piangendo e urlando, mentre i miei genitori cercavano di calmarmi e, non riuscendoci, di fermarmi. Inutilmente.
Continuai finchè non persi i sensi.
Diciamo che i giorni dopo quello non furono piacevoli.
Non volevo mangiare. Non volevo uscire. Non riuscivo neanche a guardare in faccia i miei genitori.
Non volevo pensare.
Perché pensare avrebbe significato ricordare e non potevo permettermelo.
Il ricordo era troppo doloroso. Comportava riconoscere la situazione attuale e niente era peggio che sapere che non ci fosse niente che potessi fare.
Perché lui se n’era andato, irreparabilmente. Non c’erano seconde possibilità, niente replay. Non si trattava di un libro o di un film, dove, quando la storia non ti soddisfa più, puoi semplicemente lasciare perdere e passare ad altro.
Era la dura realtà.
Ed io non potevo accettarlo.
Benvenuti nella fase dell’apatia, in cui io non ero che lo spettro di me stessa.
Non che sia migliorata molto. Ma quella è un’altra storia.
Inutile dire che non ricordi molto di quel periodo, dato che ero più di là che in questo mondo. L’unica cosa che posso dire è che non sentire non è male come sembra. Ma questa è solo la mia opinione.
Trascorsi un paio di settimane in quello stato, guardando la vita da fuori senza entrare realmente a farne parte. Poi, spinti da non so quale sentimento, dato che ero arrivata a credere che non potessero più provare qualcosa che si avvicinasse ad un’emozione nei mei confronti, i miei genitori decisero che era ora di smetterla. Che era ora di essere propositivi. ‘Elaborare il lutto’, furono le loro esatte parole.
Ora, non fatevi fuorviare. Non fu certo per migliorare la mia situazione, come si sarebbe spontaneamente portati a pensare. No, i coniugi Swan, come avrei imparato di lì a poco, lasciavano ben poco al caso.
Celebri e i rispettati com’erano, con il loro amore per le apparenze, non potevano certo lasciare che la loro unica figlia rimasta lasciasse trapelare il suo stato mentale compromesso. In fondo, mostrarsi umani è reato.
Rabbia.
Ogni parte di me cominciò a ribollirne, un fuoco che lentamente andava divorandomi, perché io stessa mi lasciavo divorare. Era più facile in quel modo.
Rabbia verso i miei genitori, per la loro falsità che dimostrava solo quanto poco contassero, nella loro ottica, gli affetti e i legami di sangue. Quanto poco fosse rilevante Alex. Ho sempre pensato che non lo meritassero, così come non lo meritassi io. Lui era decisamente il migliore tra di noi.
Rabbia verso me stessa. Perché per un mio frivolo desiderio, mio fratello non sarebbe più entrato da quella porta. Non avrebbe più sorriso, non sarebbe andato al college, non sarebbe invecchiato. Io gli avevo tolto quelle possibilità. Io e l’altro guidatore ubriaco.
Mi odiavo perché , nonostante tutto questo, una piccola parte di me cercava ancora il consenso e l’amore dei miei genitori. Quella piccola parte che ancora sperava in un futuro non così cupo, che conservava dentro di sé l’utopica speranza di un suo possibile ritorno.
Quella parte non c’è più da molto tempo.
In seguito , tutto precipitò in un’interminabile discesa.
Charlie divenne di giorno in giorno più aggressivo, frustrato dal lavoro che stava degenerando verso orizzonti negativi, dalla stampa, da una figlia che era ormai solo un fardello.
Mia madre si diede all’alcol e cominciò a intrattenere relazioni extraconiugali per nascondere il fatto che potesse provare dolore per la morte di un figlio.
Le due situazioni erano chiaramente destinate al fallimento.
La prima volta che Charlie colpì me e Renèe fu anche l’ultima volta in cui lo vidi. Aveva scoperto gli incontri di mia madre. Non che fossero così segreti per chi volesse davvero guardare. Quella sera fece definitivamente cadere la maschera e si mostrò come in realtà era : un uomo vuoto, che trovava nel dolore e nel senso di fallimento degli altri la ragione del proprio successo , la propria ragione di vivere.
Non mi voltai indietro quando, due ore dopo, sostenni mia madre per aiutarla ad entrare nel taxi che ci avrebbe portato a Seattle, lontano da tutto.

     
  
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