CAPITOLO DUE
“Ab intactae
ferro barbae longitudine (...) ita
postmodum
appellatos.
Nam iuxta illorum linguam "lang"
longam,
"bart"
barbam significat.”
Paolo Diacono,
Historia Langobardorum.
[Furono
chiamati così (...)
in un
secondo tempo per la lunghezza
della
barba mai toccata dal rasoio.
Infatti
nella loro lingua lang
significa
lunga e bart barba.]
Guidato dalla Fede, letteralmente. Era così che era giunto a
Mutina(1), l’ultimo baluardo conquistato dalla gens Langobardorum(2).
I Winnili(3), varcate le Alpi, avevano conquistato in meno di
quattro primavere(4) quasi la totalità dei territori settentrionali della
penisola italiana, travolgendo ogni resistenza greca.
Erano riusciti in seguito a far tremare tutta la cultura
greco-latina preesistente, addirittura cancellando per sempre anche il ricordo
delle precedenti, seppur brevi, dominazioni barbare, rivelandosi grandi
conquistatori.
Essi erano giunti in massa, l’intero popolo coeso e pronto ad
affrontare assieme le privazioni e le sofferenze di un esodo che, sotto certi
aspetti, a Rufillo era parso molto simile a quello di Mosè, in fuga
dall’Egitto. Per quello la sua attenzione era stata da sempre attratta da quel
popolo; i Winnili, come loro stessi si identificavano, erano giunti in Italia
in quanto terra promessa, come Israele lo era per i giudei.
Per questo non appena aveva preso i voti non aveva sprecato
altro tempo, muovendosi immediatamente verso i territori da essi occupati. Non
gli era mai importato granché della sua famiglia d’origine, a cui aveva dato le
spalle per seguire la sua profonda vocazione.
Indubbiamente, ai suoi occhi questo popolo che poteva contare
solo sulla forza dei suoi guerrieri esuli era parso come una grande identità da
formare ed acculturare, sicuramente benedetto da Dio, ma senza che nessuno
ancora avesse illustrato ai suoi componenti quanto Cristo fosse stato disposto
a sacrificare per la salvezza eterna dell’umanità. Era perciò importante che
rinnegassero in fretta la valanga di tradizioni oscene che si erano portati
dietro dai confini del mondo conosciuto.
Rufillo era giunto a Mutina all’età di ventuno anni, quando
solo un anno prima era stato cacciato dal monastero presso il quale aveva
studiato, dentro le mura di Ravenna; non c’erano fondi, e lui sarebbe stato
solo una bocca in più da sfamare.
Era ormai un uomo completamente adulto, e con un mondo intero
da evangelizzare, pronto ad accogliere e ad ascoltare il messaggio di Cristo,
il lavoro non gli sarebbe mancato. Aveva le idee ben chiare fin dalla più
tenera età, quindi si era immediatamente messo in marcia a piedi, con addosso
solo un sacco pulcioso donatogli da un conoscente caritatevole, che aveva
adattato grezzamente al suo corpo.
Aveva affrontato freddo e gelo d’inverno, e afa d’estate.
Così, per un anno intero.
Poi, dopo aver attraversato le ultime terre romane, era
giunto nel caos dei Ducati Longobardi.
Tutti quelli che aveva incontrato lungo il suo cammino gli
avevano sconsigliato tale scelta, cercando di farlo desistere; i Longobardi, il
popolo dalle lunghe barbe, avevano i visi nascosti da una foresta di peli, gli
avevano narrato, poiché non avevano mai conosciuto la lama affilata di un
rasoio.
Erano belve che saccheggiavano, uccidevano senza pietà e
immolavano i Romani, assieme a tutti quelli che avevano la sfortuna di
incontrare quei selvaggi, alle loro bestiali divinità sempre assetate di sangue
umano.
Rufillo non si era lasciato spaventare da quelle dicerie,
anche se aveva improvvisamente cominciato ad immaginare quegli uomini come
qualcosa di non molto dissimile dai cavalieri dell’Apocalisse, gli sterminatori
dell’essere umano giunti per proclamare la fine dei tempi.
Tra le mani, il suo umile crocifisso di legno era stato l’unico
fedele compagno di viaggio, sul quale aveva versato lacrime, quando si era
sentito debole e il suo corpo tremava dalla fame e dal freddo subìto, e sul
quale poi aveva snocciolato un’infinità di preghiere assorte e colme di
gratitudine, quando le tempeste passavano e il suo fisico provato riusciva a
rilassarsi.
“Dio mi dia la forza per parlare della Sua grandezza a tutti
coloro che sono affamati della Sua parola! Che lo Spirito Santo scenda su di me
e benedica il mio cammino, affinché esso sia privo di ostacoli troppo grandi
per questo esile corpo! Che la bontà infinita del Cristo crocefisso possa
aiutarmi a non essere mai egoista, e mi permetta di mettere la mia vita al
servizio degli altri, dei più poveri e di tutti coloro che ancora non conoscono
i testi sacri”, ripeteva continuamente ad alta voce, per farsi compagnia da
solo e rinvigorendo sempre più la fede che ardeva dentro il suo cuore, in grado
di scaldarlo e di dargli conforto anche nel momento di più estremo bisogno.
Mutina era senza dubbio la città che più aveva bisogno di
aiuto, a quei tempi; avamposto di confine dei Winnili, lì la popolazione
sottomessa doveva ancora abituarsi agli invasori, ed essi a loro volta dovevano
ancora riuscire a trovare una discreta stabilità.
Giunto nell’antica città romana, aveva trovato macerie e
rovine, che tuttavia stavano venendo risistemate. Nuove abitazioni avrebbero
presto innalzato i rispettivi tetti, seppur con caratteristiche differenti
dalle antiche domus, che ormai disabitate e in disuso offrivano il materiale
edile necessario ai lavori.
Erano costruzioni molto più umili ed essenziali, come quelle
dei romani che ancora vivevano al di là dell’ultimo Limes.
In quella realtà remota Rufillo aveva avuto modo di vedere per
la prima volta i guerrieri Longobardi; essi avevano capelli lunghi, spesso
molto chiari, ed erano generalmente più alti rispetto ai romani. Vestivano in
modo spartano, e vigilavano i loro nuovi sudditi con severità, sempre pronti a
punire ogni irregolarità.
Le lunghe barbe confluivano sui petti sempre bardati da
guerra, e le loro armi avevano il taglio affilato ed erano molto ben tenute.
Il monaco non aveva avuto timore di quelle persone, quando lo
avevano circondato e l’avevano preso di peso, per portarlo di fronte al
giudizio di un loro superiore. Non si erano comportati male con lui,
indubbiamente non erano cavalieri dell’Apocalisse, e non dimostravano
atteggiamenti di molto dissimili da quelli di tutti gli altri barbari che
avevano invaso l’Italia in precedenza. E Rufillo aveva avuto modo di tessere
contatti con gli Eruli, quand’anche il loro popolo oramai avesse perso
prestigio e indipendenza, così come aveva avuto rapporti molto più stretti con
i Goti del buon Teodorico, al quale suo padre aveva offerto tutti i suoi
servigi, a Ravenna.
Seppur Teodorico fosse stato un gran sovrano, certamente
illuminato da Dio, il suo popolo a volte non era stato in grado di eguagliarlo.
Così i Longobardi non erano in grado di aprire i loro occhi
verso il Bene Supremo, e parevano spauriti agnelli che avevano perso il loro
gregge, immersi in una realtà non loro, che non li riusciva a comprendere, e
quindi tendeva a renderli più brutali di quel che realmente erano.
NOTE
(1)Odierna Modena.
(2)Come venivano identificati dai Romani e dalla popolazione
preesistente.
(3)Nome con il quale i Longobardi
identificavano il loro popolo.
(4)Dal 568 d.C. (anno in cui Alboino guida il suo popolo in
Italia) al 572 d.C.(anno in cui Alboino viene assassinato)
NOTA DELL’AUTORE
Grazie ancora, a tutti.