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Autore: Nadja_Villain    30/04/2018    1 recensioni
Astrid non è un'eroina e non si aspetta che gli altri la acclamino come tale. Dopo la sua cattura, si troverà a scegliere tra due prigionie differenti: una gabbia in vibranio in fondo all'oceano o unirsi agli Avengers, sotto contratto vincolante. Una sola potrà costituire un'occasione per riscattarsi. Tra i battibecchi col Capitano e le esortazioni ambigue di Tony Stark, dovrà fare i conti con la minaccia di un sadico Dio degli Inganni, una coscienza ipercritica e le falle di un'infanzia dissacrata.
▸ Ambientazione e contesto:
Post battaglia di New York: Loki è fuggito senza lasciare tracce di sé. La Stark Tower si è tramutata nella dimora degli Avengers.
Post "Iron Man 3" - pre "Capitain America: The Winter Soldier"
Genere: Azione, Drammatico, Thriller | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, FemSlash | Personaggi: Un po' tutti
Note: AU, What if? | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Neve e Cenere | MARVEL

39 . Solo un'ossessione
 

L'etichetta umida che stuzzicava con un unghia si staccava con troppa facilità per dargli soddisfazione. Il colore del vetro della bottiglia di birra gli dava un fastidio estetico. Ambra. Un giallo opaco e spento. Troppo scuro rispetto a quello a cui il suo cervello continuava a rimandarlo, ciononostante lo faceva lo stesso. Era lì a giudicarlo assieme a tutte le frustrazioni che gravavano sulla sua schiena come un'ombra inquieta, appiccicate come quell'etichetta dalla colla dissolta dall'umidità che si prestava al gioco senza resistenza. Avrebbe voluto staccarseli ad uno ad uno i suoi incubi, grattandoli via come stava facendo con l'etichetta di quella bottiglia, anche a costo di strapparsi la pelle. Solo non sapeva come fare. Avrebbe voluto anche far sparire quel colore dalla sua vista. Si stava trattenendo dallo spingere la bottiglia giù dal bancone da quando il barman gliel'aveva portata. Avrebbe fatto finta che fosse stato un incidente e avrebbe ordinato qualcosa di decisamente più forte. Se solo Rhodey non gli avesse proibito qualsiasi tipo di superalcolico... Lo aveva trascinato in quel bar assordante pieno di adolescenti perché, secondo lui, respirare un po' d'aria giovanile gli avrebbe fatto bene. Ma nessuno sapeva quanto lui potesse ripugnare gli adolescenti, soprattutto quelli della generazione che stava crescendo. Non c'era nulla che potesse eguagliare il suo disgusto verso quei piccoli delinquenti incastrati in un'età incerta ed estrema, travolti dagli ormoni e da un mondo da abbattere con schiamazzi molesti, la bocca sporca di parolacce e di vizi idealizzati, la testa imbrattata di colori chimici e sogni distorti. Forse solo i bambini potevano equiparare. Lagnosi, piscioni e eccessivamente bisognosi di attenzione. Non li sopportava. Facevano troppo rumore. Si agitavano e si comportavano come se tutto fosse un'esibizione. Una carovana gli era passata dietro intonando a pieni polmoni un canto sconcio. Qualcuno si era scontrato contro il suo sgabello e per un attimo aveva temuto di cadere e di ritrovarsi calpestato da tutte quelle scarpe di basso costo che avevano conosciuto chissà quale scuola di basso livello o viale malfamato. Tony Stark non aveva mai voluto figli e non aveva mai pensato di volerne in futuro perché era certo che gli avrebbero rovinato la vita. Forse perché lui, la sua adolescenza, non l'aveva mai superata.

Quindi se ne stava tutto stretto nel giubbino di pelle, occupando meno spazio possibile, alzava il capo ogni volta che si avvicinava qualcuno, per squadrarlo di sottecchi, e poi nascondere lo sguardo di nuovo nei suoi pensieri oscuri, i capelli che non volevano rientrare nel ciuffo che aveva tirato indietro con il pettine prima di uscire di casa e gli cadevano davanti scomposti e stanchi, come lui. 

E quella bottiglia proprio non voleva saperne di cambiare colore. Non sapeva perché ne fosse così ossessionato. Alla fine ne aveva tante di ossessioni, una in più non avrebbe dovuto cambiargli la vita. Eppure questa volta non era lo stesso. Avere l'ossessione per le sue armature era normale. Sentire il bisogno di andarle a rivisitare e maneggiare ogni giorno e ogni volta che gli veniva in mente che poteva modificare e migliorare qualcosa, era normale. Anche l'ordine e il rimettere le cose esattamente al posto in cui erano, nella stessa inclinazione e rotazione, era normale per lui. L'ossessione di venire assalito dalla massa, l'ossessione di avere sempre la sua armatura vicina, l'ossessione di venire risucchiato in un buco nero o in una caduta libera senza poter azionare i propulsori, l'ossessione di venire soffocato mentre dormiva, l'ossessione di perdere il controllo, l'ossessione di non riuscire a salvare le persone che amava, l'ossessione di venire abbandonato, erano tutte cose normali per lui. Lo perseguitavano da anni, non erano più una novità. Erano parte di lui. Ma l'ossessione per una persona, quello non era normale. Non era mai stato ossessionato da una donna in particolare. Aveva sempre amato le belle donne, era stato innamorato di Pepper per un periodo intenso e ancora si diceva di amarla, ma quello che provava da qualche tempo per un'altra non era amore, non poteva esserlo. Era un'ossessione. Non solo. Era una delle ossessioni più malate che avesse mai avuto. Quello non era normale. Ma non poteva farci niente. Si sentiva bloccato in quella bolla oscura che lo deglutiva lentamente, mischiandolo in una bile di persecuzione, ansia e tachicardia ostinata.

Come si girava, non poteva far a meno di immaginarla in mezzo a quei giovani vulcani, nonostante i suoi tentativi vani di schivare la società come la peste, dopo aver ceduto agli inviti insistenti di giocare al biliardo e mentre si piegava con l'asta sul tavolo, mostrando a tutti i ragazzi - e forse anche ragazze - che le stavano attorno come avvoltoi, le sue favolose fossette di Venere. E poco importava se non avesse fatto nemmeno una buca perché con quel suo modo di fare che aveva, con cui all'inizio sembrava solo camminare in equilibrio sul bordo del gioco, e poi solo alla fine capivi che avesse mosso lei le pedine per tutto il tempo, se non sapeva giocare nessuno se lo sarebbe ricordato, anzi qualcuno avrebbe potuto persino pensare che lo facesse apposta.

Oppire, se la immaginava seduta su una sedia mentre guardava gli altri giocare, ignorando le avances di tutti quelli che le facevano l'occhiolino e la stuzzicavano, incosapevole di risucchiare tutta la luce della sala con le ambre dorate dei suoi occhi, con quei suoi capelli tutti alla rinfusa davanti alla faccia e i suoi vestiti vecchi e le sue pose svaccate e le sue guance tonde da bambina e le sue labbra martoriate, ma dalla forma perfetta, dal sapore di birra e di paradiso.

Non era ubriaco. Ne era certo, anche se i lunghi sorsi ravvicinati che faceva non lo avrebbero mantenuto sobrio ancora per molto. Lo era stato la notte prima per calmare il cervello. Aveva provato ad annacquarlo per bene, così che potesse smettere di farla apparire ovunque, tra tutto quel marasma di gente che gli sottraeva ossigeno. Ad un certo punto era scappato in bagno, lasciando Pepper – che tanto se la sarebbe cavata egregiamente anche da sola a mostrare il suo stupendo corpo nel suo nuovo abito firmato Valentino e quel sorriso posato da first lady - per rincorrere come un forsennato una ragazzetta dai jeans strappati e le maniere brute, sgomitando tra politici, impresari e tutti gli altri miliardari del suo stesso rango che lo avevano insultato, ma con contegno. 

All'inizio, la sua apparizione gli aveva graffiato la schiena di un brivido freddo. Poi, quando lei gli aveva voltato le spalle con aria delusa, era stato colto da un senso di vuoto e disadattamento, di panico. Allora si era messo a cercarla. Non era nemmeno sicuro di volerle parlare e di cosa le avrebbe detto in tal caso. Per il momento aveva deciso giusto di andarle dietro per sapere dove si stesse dirigendo, per capire se avesse intenzione di fare qualche cazzata delle sue o fosse tornata per finire il lavoro da sicaria. In quel caso sarebbe stata una trappola e lui ci sarebbe cascato completamente, ma non poteva permettersi di perderla d'occhio tra tutta quella gente più o meno innocente. E quando in quel bagno lussuoso non aveva trovato nessuno, tranne un altro vecchio lecchino venuto a svuotarsi la vescica come un comune essere mortale, si era sentito ancora più vuoto di prima. E purtroppo non era stato difficile capire cosa gli stava succedendo. Trovò la sua immagine allo specchio e capì che non stesse affatto bene. Il fondotinta che Pepper gli aveva tamponato sotto gli occhi copriva solo in parte le occhiaie che ogni notte diventavano più viola e sempre più preoccupanti. Inoltre, il colore della sua pelle non era mai stato tanto pallido e aveva iniziato a pescare i primi inammissibili capelli bianchi. 

Stava male. E ci stava invecchiando nel suo malessere. Non era bastato il trascorso non lontano degli attacchi d'ansia. Era sempre stato lì, latente. Non si era mai ripreso, anzi, stava cadendo ancora più in basso. Stava impazzendo. La sua nuova ossessione lo stava divorando. In un primo momento aveva ricollegato l'evento all'effetto delle medicine e al trauma. Tuttavia, quando si era ripetuto e si era insinuato anche nel sonno, aveva iniziato a capire che stesse esagerando, che stava ingigantendo la situazione, che la sua mente lo stava disintegrando e avrebbe disintegrato tutto ciò che stava ricostruendo per riprendersi in mano la sua vita e ristabilire un sano rapporto con Pepper. Doveva darsi una regolata. Era solo suggestione. Ma in realtà il motivo della sua ossessione era che da quella notte non sarebbe più tornato in sé. E non era solo per quegli artigli che gli affondavano nel petto ogni volta che chiudeva gli occhi, non era solo per quegli occhi tanto freddi e sconosciuti, di un blu spaventoso, che vedeva alle sue spalle in ogni suo riflesso.

Nick gli aveva riferito di Loki, dei soldati uccisi, che lei si atteggiava da colpevole, che era scomparsa com'era scomparsa l'auto con cui erano arrivati fino al suo vecchio appartamento e non era rintracciabile. Si diceva di sapere tutto di lei, che la capiva, ma c'erano momenti in cui tornava a domandarsi se non fosse tutta un'illusione. E se lei gli avesse mentito per tutto il tempo? E se fosse già caduto in una trappola premeditata? Tutte quelle domande lo confondevano ancora di più perché non era possibile che per tutti quei mesi avesse solo finto di essere loro amica, che la simpatia che aveva per lui fosse tutta una recita. Che cosa doveva pensare? Cosa pensava lei di lui, di quella situazione? Si stava tormentando anche lei, come faceva con ogni suo cruccio o davvero aveva girato le spalle a tutti, davvero aveva voltato le spalle a lui? Forse avrebbe dovuto lasciarla andare, quella sera. Forse si era fatto un'idea sbagliata su di lei per tutto il tempo. Perché doveva essere così maledettamente complicata? Perché doveva essere così chiusa e individualista? Un attimo prima era convinto di conoscerla bene e un attimo dopo non lo sapeva più. Un attimo prima era certo di quello che fosse successo e l'attimo dopo aveva già distrutto tutte le teorie per un singolo dettaglio, in nome di quei frangenti di ilarità, di quei sorrisi che gli parevano così sinceri, di quelle battute stupide, di quei lucidi e gioviali pomeriggi passati a chiacchierare tutti insieme, di quello sguardo che gli rifilava pieno di parole che poteva capire solo lui e di quello annebbiato di quando la baciava... Sentiva che le avrebbe perdonato qualsiasi cosa in nome di tutto ciò che, di lei, lo aveva fatto sentire di nuovo un ragazzino e allo stesso tempo gli aveva fatto ritrovare un motivo per rimanere in piedi, con la testa sulle spalle, di tutto ciò che, di lei, lo faceva sentire inadatto, ma estremamente grato di aver scelto lui tra tutti quelli che poteva avere ai suoi piedi se solo avesse avuto interesse nel trovarsi un uomo.

Si prese il capo tra le mani e si strinse i capelli. Com'era coglione. Come sperava che non avesse visto lo schifo di intervista della notte precedente, perché lui l'aveva risentita per sbaglio alla radio e avrebbe voluto sbattere la testa contro il muro. Si sentiva così in colpa per aver detto quella stronzata ai microfoni. Ma era arrabbiato e ferito e confuso e così ubriaco... Alla luce del giorno era chiaro che Astrid si stesse comportando in modo ambiguo solo per paura. Era fatta così. Nessuno sapeva esattamente perché non ragionasse come una persona ragionevole, forse non lo sapeva nemmeno lei. Astrid non aveva in testa una precisa linea divisoria tra il bene e il male. Se esisteva una leggera sfumatura tra i due estremi, lei si fiondava nel mezzo. Era così e tutti avrebbero dovuto accettarlo. Lui l'aveva fatto. Anzi, a dirla tutta era una particolarità che lo ammaliava. Non lo avrebbe mai detto ad alta voce, perché era consapevole che potesse suonare come una cosa da psicopatici, ma aveva un debole per quell'aura oscura e proibita che le veleggiava attorno. E alla fine quell'infatuazione totalmente irrazionale gli si era ritorta contro.

Si strofinò gli occhi, mentre la birra non faceva l'effetto desiderato. Anzi, stava peggiorando la situazione. Sentiva la voce di Rhodey nell'orecchio, che andava avanti a parlare di un'avventura che aveva avuto assieme ad un collega in missione. Non si impegnava ad ascoltare perché con la testa era da tutt'altra parte e comunque la terribile musica commerciale che esplodeva a tutto volume negli altoparlanti seminati del pub ostacolava ogni tipo di conversazione. Premette le labbra sul bordo della bottiglia e si scolò un altro sorso incosciente.

-Tony?

Si sfregò le labbra e voltò il capo verso l'amico che lo guardava con una faccia stupita e attendeva.

-Mi stai ascoltando?

-Certo. Il tuo amico. In quella missione.

-Sì? Cosa faceva il mio amico?

-Non lo so, ne stavi parlando tu, non io.

-Non hai ascoltato una sola parola di quello che ho detto.

-Mi sono perso un momento.

-Tony, tu è tutta la vita che ti perdi.

Tony si prese il ponte del naso tra le dita, strizzò gli occhi.

-Sei stanco. Lo capisco. Ne vuoi parlare?

-Se ne parlo potrebbe venirmi da vomitare, quindi... no.

Rhodey sospirò pesantemente.

-Non so come dirtelo... Dovresti davvero prendere in considerazione di parlare con qualcuno di professionale. Se continui così...

-Non andrò da un cazzo di strizzacervelli, Rhodes.

-È per te che lo dico.

-Grazie. Ma no, grazie. – e finì la birra in un sorso sotto gli occhi del compare. – E smettila di guardarmi come un barbone alcolizzato.

-Hai bisogno di aiuto. Te ne rendi conto, vero?

-Sto bene.

-No, non è così. Non è affatto così. Non ti reggi in piedi. Sei sempre distratto. Non dormi...

-È stata Pepper a dirti che non dormo?

-Non serve che me lo dica qualcuno che non dormi. Si vede. - lì fece una pausa, titubando. Poi si decise. – Comunque sì, me l'ha detto lei. Mi ha detto anche che non mangi e che ieri notte l'hai fatta svergognare davanti a mezza New York.

-Da quando vi sentite?

-Non cambiare argomento. È preoccupata per te. Mi ha chiesto aiuto.

-È per questo che siamo qui? Perché te l'ha chiesto lei? Perché ho bisogno di assistenza come un malato terminale? Ti sembro un malato terminale, Rhodey?

-Tony. Ascoltami. Non fare come tuo solito. Fatti aiutare. Hai un problema serio.

-Il mio disturbo da stress post traumatico, sì, sì... ci sono già dentro a questa merda da un po', Rhodey. Smettila di ripetermelo. Non cambierà niente ripetermelo.

-Dici che lo sai, che ci sei dentro, ma non fai niente a riguardo. Non prendi mai la cosa seriamente.

-Passerà. Era passata. Passerà di nuovo.

-Già..  Ti vedevo bene prima. Davvero, Tony. Era da un po' che non ti vedevo così... Capisco che te la sei vista brutta, ma... prova a ritrovare quello che ti aveva fatto riprendere le energie l'ultima volta, okay?

Tony accennò una risata, testa bassa. Come poteva dirgli che ciò che gli aveva fatto riprendere le energie era anche quella che gliele aveva sottratte, letteralmente?

La tasca della giacca vibrò. Tony scavò con la mano e sfilò il telefono e lo guardò alienato. Non sapeva perché fosse lì. Non prendeva in mano il telefono da quando aveva dovuto recuperare Astrid da una delle sue crisi contro il mondo. Da quella sera. Aveva persino pensato di averlo perso, invece era stato per tutto il tempo nella sua tasca.

-Non rispondi?

Le spalle di Tony fecero un saltello indifferente.

-Rispondi. Potrebbe essere importante.

-Saranno le solite stronzate di Fury. – e buttò il dispositivo sul bancone con noncuranza.

-Stronzate? Tipo una missione?

-Ti prego, mi sembri Rogers. – lo ammonì Tony sprezzante, una mano alzata.

-Che cosa fai con quella mano?

-Chiedo un rinforzo.

-Hai appena tracannato una birra come se fosse acqua.

-E allora?

-Metti giù questa mano. – lo obbligò Rhodey, abbassandogli fisicamente il braccio sul bancone.

-Non sei mio padre. – ribattè Tony ostile.

-No, sono tuo amico. E non voglio vederti collassato a terra sul pavimento di un pub. E sono sicuro che neanche i tuoi amici Avengers vorrebbero.

-Sono un adulto, Rhodey, e so decidere sulla mia vita.

-Non sembra. Ti atteggi da bambino. Come ogni volta che devi affrontare una situazione difficile. Perché tutto per te dev'essere facile, appena c'è una salita ti abbatti.

In quel momento il telefono vibrò una seconda volta. Rhodey fissò lo schermo su cui brillava un numero non salvato. Poi guardò Tony che non aveva affatto aria di voler rispondere.

-Quante volte ancora farai finta di niente?

-Finchè capiranno che sono ancora in convalescenza.

-Devo rispondere io?

-Non fare il bambino. – lo schernì Tony con le stesse parole dell'amico.

-Vuoi rispondere per piacere?

Tony prese in mano il telefono e lo portò all'orecchio.

-Sì, pronto, parla la segreteria di Tony Stark con la voce di Tony Stark per informarla che Tony Stark non è disponibile al momento. Prego, non lasciate messaggi perchè tanto li farò cancellare prima di ascoltarli, grazie.

Rhodey spalancò la bocca. Capì solo qualche istante dopo che non avesse risposto davvero, ma aveva semplicemente premuto il bottone rosso.

-Sei proprio uno stronzo, lasciatelo dire.

Tony stirò un sorrisetto meschino, mentre si portava la bottiglia alla bocca. Come si ricordò che fosse vuota la posò pesantemente, con un ringhio di rabbia.

-I tuoi amici hanno bisogno di aiuto e tu te ne stai qui con le mani in mano. Come fai a non vergognarti?

-Pensavo fossi mio amico, Rhodey. - borbottò Tony contro gli attacchi che sentiva di ricevere gratuitamente.

-E io pensavo avessi un cuore. Invece tutto ciò che ti interessa è crogiolarti nella tua sofferenza e aspettare che qualcuno ti compatisca. Rifiuti ogni aiuto. Cosa vuoi che faccia? Forse farei bene a lasciarti qui a distruggerti il fegato. Perderei meno tempo.

-E allora perché stai ancora qui?

-Perché ti voglio bene. Quindi adesso ti comporti da adulto e richiami quel numero.

Tony sbuffò. Più volte. Alzò gli occhi verso quelli di Rhodey che non avrebbero ammesso un "no" come risposta, quindi afferrò il cellulare e scorse col dito nel registro chiamate, trovando, oltre al numero privato, anche quello del Capitano. Aveva provato a rintracciarlo un paio di volte. Gli aveva lasciato persino un messaggio:

 

Rogers: 

Tony,

spero tu stia meglio. Fatti vivo.

Steve.

 

Dalla macchina da scrivere agli SMS! Che progressi! Di sicuro doveva averlo aiutato qualcuno. Comunque era il solito melodrammatico, non c'era niente da fare. Chi è che si firmava e andava a capo dopo l'intestazione come nelle lettere nel ventunesimo secolo? Gli venne da ridere, ma Rhodey stava ancora aspettando che si comportasse da adulto. Così ingoiò a fatica l'impulso di darsi il colpo di grazia con la cartella dei messaggi che portava il nome della sua ossessione vivente, e cliccò sull'ultima chiamata persa. Dall'altra parte squillò un paio di volte, mentre a lui tremava la mano. Gli tremava la mano perché sapeva che rispondere alla missione significava vedere lei. E per un attimo ebbe il raptus di lanciare il telefono contro lo scaffale degli alcolici e scappare dal locale, piantando lì Rhodey e il suo fare paterno, ma quello non era un comportamento da adulto. Era un comportamento da Tony Stark in preda al panico. Tira fuori le palle, continuava a ripetersi in testa. È solo una ragazzina. Solo una ragazzina. Ti ha solo catturato al lazo e ti ha quasi ucciso e potrebbe provarci di nuovo e riuscirci perché tu glielo lasceresti fare, ma è... solo una ragazzina. Solo una rag...

-Stark! – esclamò la voce di donna dall'altra parte della cornetta e lui sobbalzò sullo sgabello. Raddrizzò la schiena e si diede un tono.

-Nick? Hai cambiato voce? Cos'è, una nuova tattica per non farsi riconoscere?

-Poche parole, Stark, non abbiamo tempo per scherzare. Ti voglio all'indirizzo che ti mando adesso, entro cinque minuti.

-Che succede?

-Come che succede? Dove sei?

-Informazione privata.

-Va bè, comunque sbrigati. Abbiamo bisogno di te qui. Ciao.

-Ma come, non mi spieghi niente? Neanche un piccolo spoiler?

-Non lo sappiamo nemmeno noi. Abbiamo sentito la terra tremare come un terremoto. Probabilmente c'entra Loki.

-Il Capitano è lì?

-No. Non ho sue notizie e di Natasha da ore. Thor è impossibile da contattare. Banner è non si sa dove sia, quindi vedi di portare il culo qui almeno tu e molto in fretta, Stark!

-Uououoh, riposo agente! Potresti parlare con un fantasma se non fossi stato graziato dalla Dea Bendata! Un po' di rispetto per i feriti di guerra!

-Possiamo contare su di te, Stark? - chiese l'altra placando il tono sicuramente per non dare di matto.

Tony guardò per l'ultima volta Rhodey che stava sorseggiando la sua birra e fingeva di non essere attento alla conversazione. I suoi critici occhi neri si posarono su di lui con pretesa. Tony deglutì.

-Sì. Contate su di me.

-Grande. Ti mando l'indirizzo. Hai tre minuti. – e chiuse la chiamata prima che lui le chiedesse dove fossero finiti quei due minuti in meno.

-Quindi? – chiese Rhodey che con quella bottiglia sembrava lo stesse sfidando. – Hai una missione? Sembrava piuttosto urgente.

-Lo è.

-E allora perché sei ancora seduto qui?

Tony ci pensò ancora per un attimo, fissando il telefono tra le mani e l'indirizzo, prendendo fiato, realizzando che stesse andando incontro al suo suicidio. Poi scese di scatto, facendo traballare lo sgabello. Si sistemò la giacca e i capelli, cercando in un riflesso immaginario.

-Sei pronto? – gli chiese Rhodey, a metà tra il serio e la presa in giro.

-No. Ma devo farlo, giusto?

-Sì, devi.

-Bene. È stato un piacere averla come supporto morale, Tenente Colonnello James Rupert Rhodes. I suoi anni di servizio hanno reso onore alla patria. - e gli rifilò un discreto e rapido saluto militare. Doveva essere qualcosa di comico per distogliere l'attenzione dal suo disagio, ma ebbe la forte impressione che non gli fosse uscito bene.

-Vai, ti stanno aspettando. – fece l'altro offrendogli ancora una buona fetta della sua pazienza. – Ti devo accompagnare alla porta?

-No, credo di farcela. – ribattè Tony, ma non si schiodò da dov'era.

Rhodey sbuffò bonariamente. Lasciò qualche dollaro sul bancone e portò un braccio attorno al collo di Tony, spingendolo verso la porta. Dovette convincerlo ancora sul ciglio, poiché tentò di nuovo di trovare delle scuse, parlando senza respiro, ignorando la sua voce che gli diceva "Andrà tutto bene. Respira. Con calma. Nessun buco nero si aprirà su New York oggi. Sì, te lo prometto" e doveva trattenersi dal ridere. Tony non era sicuro. Non era sicuro per niente. Sentiva il panico salire e l'ossigeno mancare sebbene fossero all'esterno, finchè il viale non riempì di urla. All'improvviso tutt'attorno a loro traballava come lo sgabello del bar. Le pentole appese al baldacchino di un minimarket non lontano cominciarono a tamburellare e a sbatacchiare tra di loro e si accesero sirene e la gente sui marciapiedi iniziò una corsa impazzita in cerca di un riparo. Qualcosa glo disse che fosse il terremoto di cui aveva parlato Hill.

Tony controllò l'indirizzo. Era a mezz'ora di strada se avesse preso l'auto. In via aerea ci avrebbe messo meno della metà del tempo. In velocità turbo meno di un quarto. E lui aveva solo mezzo minuto.  Era l'ora di indossare l'armatura.

   
 
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